La Br si uccide ma noi siamo stanchi di capire

Dalla Rassegna stampa

«La morte della Blefari è frutto della stessa "disattenzione" riservata a Stefano Cucchi. È l`ennesimo sintomo di una giustizia che colpisce in modo iniquo, salva i potenti e manda a morte gli altri». E’ con queste parole che il rifondarolo Luigi Nieri, assessore regionale del Lazio, ha commentato la notizia del suicidio della brigatista Diana Blefari Melazzi, condannata all`ergastolo per l`omicidio di Marco Biagi. Giustizia iniqua che manda a morte chi non è «potente». La Blefari come Stefano Cucchi che senza aspettare l`esito delle indagini è già dato per vittima di un «assassinio di Stato». Seguono e seguiranno ancora altre indignate dichiarazioni sullo stesso tono: «Ennesima dimostrazione di inumanità e inefficienza del sistema carcerario», «Morte annunciata» (questo è un classico), «Un sistema carcerario criminogeno e mortifero» o, secondo Pannella, «Il risultato di un sistema di giustizia e carcerario che induce gesti estremi». Bene. Dovrebbe essere superfluo, ma questo clima impone di farlo, testimoniare il compianto, la pietà per chi non ritrovando più se stesso si toglie la vita. Sia esso un santo o un assassino. Sia esso un uomo o una donna libera o sia essa reclusa, condannata al carcere perpetuo. La morte ci fa tutti eguali. Ciò detto, e detto molto sinceramente, ci rifiutiamo di accodarci al pedestre cerimoniale demagogico, ipocrita e provocatorio che prende l`aire in casi come quello di Diana Blefari Melazzi. E cioè l`invito, la sollecitazione a «capire» per concluderne che se non fosse stata trattenuta in un carcere la brigatista non avrebbe pensato al suicidio. Capire e prendere atto che, per dirla con Luigi Nieri, «il passato della Blefari non giustificava un trattamento così miope nei suoi con fronti». Dove la miopia sta nell`averla reclusa. Anche se l`anamnesi, i precedenti, indurrebbero a credere il contrario, è probabile che in stato di libertà Diana Blefari Melazzi non avrebbe compiuto quel che si dice il gesto estremo. E probabile, ancora, che il carcere non le si confacesse, come d`altronde è la regola per tutti. Ma non credo che il sentirsi scattare le manette ai polsi sia stata, per Diana Blefari Melazzi, una sorpresa. Chi appartiene a una banda armata, chi progetta e manda in esecuzione un assassinio deve pur aspettarsi che qualcosa possa andar storto. E che andando storto si finisca - dopo regolare, regolarissimo processo - in galera. Poteva sperare, Diana Blefari Melazzi, in una sentenza mite, nell`accumulo di permessi e privilegi della legge Gozzini: ma farla franca allora e per sempre sarebbe stato un po` troppo pretendere. Quindi c`è poco da capire, c`è poco da riflettere su un sistema carcerario «criminogeno e mortifero». Perché in questa storia di criminogeno e mortifero c`è solo il delirio brigatista di Diana Blefari Melazzi. La sua aperta, dichiarata volontà di uccidere, di togliere la vita a Marco Biagi. Cosa che ha fatto o che comunque ha largamente contribuito a fare. Il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ci informa che una decina di giorni fa,`nel sentirsi confermare la sentenza di condanna definitiva all`ergastolo, Diana Blefari Melazzi ne fu sconvolta. Più che comprensibile. Sfido l`avvocato Marroni a farmi il nome di un detenuto che sentendosi confermare la pena all`ergastolo si freghi le mani compiaciuto. Ma dello sconvolgimento del suo animo, che può anche averla indotta al suicidio, il sistema carcerario e quello giudiziario non sono responsabili: ne fu responsabile lei, Diana Blefari Melazzi, quando decise di abbandonare la borghese occupazione di edicolante per farsi combattente rivoluzionaria. E uccidere. Cosa c`è dunque da capire? Cos`è che non risulta chiaro? La cupezza della detenuta, i suoi mutismi, la sua inappetenza? Le sue «condizioni psicofisiche» di reclusa che non tollerava di esserlo, rimpiangendo, chissà, la sua edicola? Ma queste sono cose che si capiscono benissimo. Anche il «profondo disagio» della detenuta si capisce benissimo, pur senza arrivare a farne una condizione anormale o inconsueta per chi sta in carcere, quasi una sorta di tortura inflitta dallo Stato a Diana Blefari Melazzi. Senza dire che un po` di «profondo disagio», per chi ha arrecato ben altro ai familiari di Marco Biagi, ci sta. E una brutta storia, questa, come lo sono tutte quelle che riguardano un essere umano che si toglie la vita. Specularci sopra con l`invito a «capire» per poi mettere sotto accusa qualche «potente» (chissà a chi si riferiva, vero?, Luigi Nieri) la rende ancora più brutta. Abbietta.

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