La bocciatura evoca la tensione irrisolta tra coalizione e Fini

La bocciatura in Parlamento del decreto che il governo aveva voluto a tutti i costi quando temeva per l’esclusione di alcune liste del Pdl, è uno scricchiolio. Mostra una maggioranza così convinta di non avere avversari, da permettersi un eccesso di assenteismo che l’ha fatta cadere. Il modo in cui il centrodestra è andato a caccia degli assenti, 38 del Pdl e 4 della Lega, conferma però un clima da resa dei conti tutt’altro che smaltito a più di due settimane dalle elezioni regionali. La nebbia che circonda l’ennesimo colloquio chiarificatore fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini comunica un contrasto difficile da minimizzare; e foriero di problemi per le riforme e per la maggioranza, se non sarà ricomposto in qualche modo.
Avere presidente del Consiglio e della Camera in conflitto su quello che è stato additato come il tema-principe del resto della legislatura fa pensare al peggio. E’ vero che Fini ha ammesso la possibilità di cambiare le istituzioni anche con i soli voti della maggioranza: parole interpretate insieme come un’apertura al premier ed un appello al centrosinistra perché non si chiuda a riccio. Ma sul presidenzialismo e la legge elettorale non ha mancato di marcare le distanze da Berlusconi. Il risultato è che oggi, di ritorno dagli Stati uniti, il capo del governo vedrà di nuovo Umberto Bossi, suo azionista di riferimento nella coalizione, mentre del colloquio con Fini non si ha notizia.
Significa che gli effetti dei risultato delle regionali nel governo possono produrre altri contraccolpi. Per il momento si vede soltanto il protagonismo accentuato della Lega. Il partito di Bossi si muove come l’unico vero vincitore del 28 e 29 marzo; e nessuno ha la forza per contestarlo, sebbene oggi Berlusconi dovrebbe convincerlo ad accettare l’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan come ministro dell’Agricoltura. Nel Pdl gli equilibri interni aspettano una definizione convincente. Il presidente del Consiglio è riemerso dalle urne indenne, e dunque rafforzato. I rapporti con la pattuglia di destra che da mesi contesta lui e l’asse con la Lega, invece, sono rimasti in sospeso.
L’ipotesi di una rottura con Fini continua ad apparire improbabile. Fra l’altro, avrebbe come effetto secondario un segnale negativo nei rapporti fra Berlusconi e Giorgio Napolitano, già altalenanti. L’impressione, tuttavia, è che l’esito elettorale abbia indebolito il profilo e dunque il ruolo della terza carica dello Stato all’interno del «suo» centrodestra. Prima del 28 marzo, Palazzo Chigi sembrava temere i distinguo di Fini. Adesso, li registra con un misto di irritazione e indifferenza. E punta sulla riunione dei vertici del partito per piegare Fini ad una disciplina di maggioranza; di fatto, si certificherebbe il suo isolamento: un’operazione dai contorni un po’ nebulosi.
L’insistenza sulla riforma della giustizia e del federalismo come impegni prioritari è la conferma della coincidenza fra l’agenda berlusconiana e quella leghista. Per il momento, premier e Lega sembrano ritenere di non avere bisogno di altre legittimazioni per andare avanti. I problemi potrebbero spuntare quando si arriverà alle proposte concrete, che per ora non ci sono ancora; e si dovrà decidere come procedere rispetto ad un atteggiamento dell’opposizione finora come minimo diffidente. Ieri è partita la commissione bicamerale che si occuperà di attuare il federalismo. Sarà quello il momento per capire se qualcuno si potrà intestare il merito delle riforme; oppure se presto si comincerà a cercare di nuovo il colpevole o i colpevoli del loro fallimento.
Avere presidente del Consiglio e della Camera in conflitto su quello che è stato additato come il tema-principe del resto della legislatura fa pensare al peggio. E’ vero che Fini ha ammesso la possibilità di cambiare le istituzioni anche con i soli voti della maggioranza: parole interpretate insieme come un’apertura al premier ed un appello al centrosinistra perché non si chiuda a riccio. Ma sul presidenzialismo e la legge elettorale non ha mancato di marcare le distanze da Berlusconi. Il risultato è che oggi, di ritorno dagli Stati uniti, il capo del governo vedrà di nuovo Umberto Bossi, suo azionista di riferimento nella coalizione, mentre del colloquio con Fini non si ha notizia.
Significa che gli effetti dei risultato delle regionali nel governo possono produrre altri contraccolpi. Per il momento si vede soltanto il protagonismo accentuato della Lega. Il partito di Bossi si muove come l’unico vero vincitore del 28 e 29 marzo; e nessuno ha la forza per contestarlo, sebbene oggi Berlusconi dovrebbe convincerlo ad accettare l’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan come ministro dell’Agricoltura. Nel Pdl gli equilibri interni aspettano una definizione convincente. Il presidente del Consiglio è riemerso dalle urne indenne, e dunque rafforzato. I rapporti con la pattuglia di destra che da mesi contesta lui e l’asse con la Lega, invece, sono rimasti in sospeso.
L’ipotesi di una rottura con Fini continua ad apparire improbabile. Fra l’altro, avrebbe come effetto secondario un segnale negativo nei rapporti fra Berlusconi e Giorgio Napolitano, già altalenanti. L’impressione, tuttavia, è che l’esito elettorale abbia indebolito il profilo e dunque il ruolo della terza carica dello Stato all’interno del «suo» centrodestra. Prima del 28 marzo, Palazzo Chigi sembrava temere i distinguo di Fini. Adesso, li registra con un misto di irritazione e indifferenza. E punta sulla riunione dei vertici del partito per piegare Fini ad una disciplina di maggioranza; di fatto, si certificherebbe il suo isolamento: un’operazione dai contorni un po’ nebulosi.
L’insistenza sulla riforma della giustizia e del federalismo come impegni prioritari è la conferma della coincidenza fra l’agenda berlusconiana e quella leghista. Per il momento, premier e Lega sembrano ritenere di non avere bisogno di altre legittimazioni per andare avanti. I problemi potrebbero spuntare quando si arriverà alle proposte concrete, che per ora non ci sono ancora; e si dovrà decidere come procedere rispetto ad un atteggiamento dell’opposizione finora come minimo diffidente. Ieri è partita la commissione bicamerale che si occuperà di attuare il federalismo. Sarà quello il momento per capire se qualcuno si potrà intestare il merito delle riforme; oppure se presto si comincerà a cercare di nuovo il colpevole o i colpevoli del loro fallimento.
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