Il bivio tra realismo e ideologia

Dalla Rassegna stampa

«Un accordo separato non serve a nessuno», hanno ripetuto tutti sino all’ultimo minuto. E invece, anche se non conclamato, l’accordo sulla produttività è un accordo separato. Senza la Cgil. Il presidente del Consiglio Mario Monti non ha voluto drammatizzare la situazione ed anzi ha auspicato che ci possa essere «una evoluzione del pensiero» del sindacato guidato da Susanna Camusso.

 

Ma dopo settimane di trattativa a questo siamo: firmano tutte le imprese, firmano Cisl, Uil e Ugl, ma non la Cgil. Camusso attacca la «scelta politica» dell’esecutivo, parla di «strada sbagliata» perché in questo modo si rischia di abbassare i redditi da lavoro anziché aumentarli. Il premier invece si congratula per il «lavoro eccellente» fatto dalle parti sociali e dice che il documento sulla produttività è un «passo importante» per il rilancio delle imprese e la tutela dei lavoratori.

 

Detto questo c’è il rischio fondato che un accordo separato non serva davvero a nessuno. Non serve innanzitutto alla Cgil, perché in questo modo (ancora una volta) il sindacato guidato da Camusso finisce per autoemarginarsi ancora di più. Ma non serve nemmeno alle imprese e agli altri sindacati, che avrebbero dovuto tutti farsi maggiormente carico della questione, perchè l’esperienza degli anni passati insegna che un accordo che non ottiene l’avvallo della Cgil, che in termini di iscritti è il sindacato italiano più importante (anche se non in tutti i luoghi di lavoro è il più rappresentativo), farà certamente molta più fatica ad ingranare e a dare i risultati attesi.

 

Per Monti i 2,1 miliardi di euro messi a bilancio rappresentano «un buon impiego» di denaro pubblico. Ma è evidente a tutti che questi soldi, scavati comunque a fatica tra le voci della legge di stabilità e destinati a detassare i premi e gli aumenti di stipendio legati agli accordi sulla produttività, potrebbero restare inutilizzati nelle casse del Tesoro per lungo tempo. Cosa che di questi tempi il Paese non si può certo permettere vista la situazione generale dell’economia, la fame di lavoro che c’è, il perdurare della recessione, la pesante crisi che attanaglia ancora oggi molti comparti produttivi, e la scarsità di risorse a disposizione per gli interventi del governo.

 

Bisogna solo sperare che a livello aziendale, ovvero nelle sedi dove si dovranno discutere in concreto le misure per aumentare la produttività (nuovi turni, nuovi orari, nuova organizzazione del lavoro, ecc.), prevalga il realismo, e che il senso pratico abbia la meglio sui veti e le ideologie portando anche i rappresentanti della Cgil a siglare intese in grado di dare una scossa alla nostra economia.

 

Ancora ieri l’Istat, che ha rielaborato i dati degli ultimi vent’anni, ci ha messo di fronte alla triste realtà di un Paese che in questo campo è agli ultimi posti di tutte le graduatorie. Ed infatti dal 1992 al 2011 la nostra produttività è salita appena di uno 0,5% annuo. Addirittura dal 2003 ad oggi questo indice ha fatto segnare un ancor più misero +0,3% (anche per colpa - va detto - delle nostre imprese che poco investono e poco innovano). Ebbene, di fronte a questo disastro, che pagano innanzitutto i lavoratori in termini di stipendi più bassi della media, la Cgil parla d’altro. E’ vero che il problema della rappresentanza («l’origine dei tanti problemi che si sono incontrati in questi anni») è tutt’ora irrisolto, ma cosa c’entra con la produttività, con un patto che si voleva «grande» per il rilancio della nostra economia, rivendicare - sino al punto da farne diventare una pregiudiziale - che la Fiom venga riammessa al tavolo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici? E’ vero che ci sono tanti «altri» problemi e questioni da affrontare, ma questo atteggiamento dà solo l’impressione di voler parlare d’altro dimenticandosi della vera essenza dei problemi.

 

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