Il bivio romano: è l'ora dei "falchi" o delle riforme condivise?

Dalla Rassegna stampa

Non è strano che il presidente del Consiglio affermi: «se cambia la maggioranza, torniamo a votare». Sarebbe bizzarro il contrario. Berlusconi è il capo della sua maggioranza ed è logico che, intervistato da Bruno Vespa, la difenda a spada tratta. Naturalmente non dipende solo da lui decidere il ritorno alle urne. Anzi, a essere precisi, la Costituzione affida questa responsabilità al presidente della Repubblica. Al quale si richiede di verificare prima se non esiste in Parlamento una maggioranza alternativa.
Ne deriva che Berlusconi, se mai volesse provocare lo scioglimento, dovrebbe garantirsi l'assoluta lealtà di tutti i parlamentari del Pdl e della Lega, così da evitare che qualcuno – un premier indicato dal Quirinale – riesca a ottenere un voto di fiducia per proseguire la legislatura.
Il Berlusconi di oggi sarebbe in grado di bloccare una simile operazione, rispettosa della Carta ma contraria allo spirito dei tempi. E il Berlusconi di domani? Il futuro non è altrettanto certo e infatti il presidente del Consiglio si affretta a dichiarare che, se pure condannato in primo grado in un processo che lo riguarda, egli resterà saldo al suo posto. Senza aprire spiragli a chi volesse manovrare per la sua sostituzione.
Anche questa affermazione è comprensibile, da parte di un combattente nato qual è Berlusconi. Ma il primo a sapere che in caso di condanna il quadro politico del paese cambierebbe, è proprio lui. Ben consapevole che avremmo di fronte una pagina bianca, tutta da scrivere, nel triangolo leader-istituzioni-popolo. Prevedere che in quelle circostanze, gravato da un'eventuale condanna in primo grado, il presidente del Consiglio sarebbe in grado di governare come se nulla fosse, oppure, in alternativa, di portare il paese alle urne dissolvendo la sua stessa maggioranza, costituisce un esercizio acrobatico e prematuro.
In ogni caso si vedrà. Al momento Berlusconi ha solo una carta da giocare, comunque cruciale: dimostrare che le sue capacità di governo sono intatte. E che le fatidiche riforme sono imminenti. Ma è proprio così? Il ministro della Giustizia Alfano ha garantito che la riforma (ordinaria) della giustizia si farà. La maggioranza tenterà in un primo tempo di arrivare a un accordo con l'opposizione, ma poi procederà comunque da sola. Del resto ha i numeri per farlo.
È abbastanza chiaro, a questo punto, che i margini in Parlamento per un confronto concreto e non retorico sui temi della giustizia sono davvero esigui. Il clima generale non autorizza l'ottimismo. Da un lato, non c'è dubbio che al ministro Alfano sarebbe utile una sponda nel centro-sinistra, senza la quale lo scontro con i magistrati si annuncia violento. Dall'altro, l'interesse politico della maggioranza è sempre lo stesso: dimostrare che il Pd, pur diretto da Bersani, alla fine è condizionato da Di Pietro.
Tanto è vero che Berlusconi si diverte a girare il coltello nella piaga, quando dice: il dialogo? certo, «se cambiano registro e la smettono di insultarmi». Ed è difficile credere che Bersani, pur prudente e pragmatico, possa andare a Canossa e accettare le condizioni del suo avversario. A maggior ragione nel momento in cui il premier annuncia, con un po' di sfrontatezza, che questa «è l'ora dei falchi». Ossia dei duri, degli intransigenti. Ma i falchi sono del tutto incompatibili con le «riforme condivise» suggerite da Napolitano. La verità è che forse siamo già in campagna elettorale, in vista delle regionali.

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