Bindi, la crociata della regina dei benefit

Dalla Rassegna stampa

Per una volta, Rosy Bindi ha messo tutti d'accordo, a destra come a sinistra e persino nel suo partito. Non capita spesso, ma stavolta, con la sua dura intervista alla Stampa, la presidente del Pd ha dato voce ad una irritazione profonda contro il governo dei «professori» che serpeggia trasversalmente tra i parlamentari italiani: quell'articoletto sui compensi degli eletti, infilato dall'esecutivo nel decreto Salva-Italia è «una scivolata», «un errore che da un governo di competenti non ci si aspettava, e che paghiamo caro». Perché «certo al governo non mancavano le competenze per sapere che sono i parlamenti che controllano i conti dei governi, e non viceversa». Insomma, «una caduta di stile, che perdoniamo anche se in un momento come questo è grave». Certo, dice la Bindi, le indennità di deputati e senatori vanno tagliate, «subito e anche più della media europea», ma la commissione Giovannini è già al lavoro per farlo e nessuno nel Palazzo vuole rallentare o rinviare. Tanto più che sui vitalizi «abbiamo già giocato di anticipo», e che l'indennità parlamentare «non è più indicizzata dal 2001» (al contrario di quella dei magistrati, cui era agganciata fino ad allora), e in questa legislatura è già stata sforbiciata di ben 1500 euro. Dunque quella del governo è una intromissione superflua e pure indebita, che serve solo a contribuire alla campagna di «delegittimazione del Parlamento».

Un grido di dolore dell'unica «casta» su cui si sta abbattendo l'orrore popolare contro i privilegi del potere, e un - sia pur cauto atto di accusa contro il governo. Certo, a Montecitorio c'è chi fa notare che forse la Bindi non era la più adatta a farsene portavoce, visto che da vicepresidente della Camera percepisce, oltre alla normale indennità, anche quella aggiuntiva di carica (oltre 5mila euro mensili lordi), la macchina con autista e l'appartamento di servizio al piano nobile del palazzo. Ma lei per prima mette le mani avanti e dice che «bisogna intervenire sui privilegi di presidenti, vice e presidenti di commissione». E moltissimi nel Palazzo condividono i suoi sospetti e la sua ira. «Quella norma infilata nel decreto non è una svista ma una polpetta avvelenata», spiega ad esempio - dietro assicurazione di anonimato - un dirigente Pd. «Nel momento in cui sta varando una manovra impopolarissima, il governo di Supermario ha trovato il modo per dare in pasto all'opinione pubblica un capro espiatorio, il Parlamento dei privilegi, spostando su di noi la riprovazione generale e allontanandola da sé. E noi purtroppo li abbiamo aiutati, con la stupidità delle nostre reazioni difensive, a cominciare da quelle di Fini».

Di un «clima di odio» fomentato dalla stampa parla anche Guido Crosetto, Pdl: «I giornali titolano e polemizzano sul nulla. La norma prevista nella manovra Monti, è già legge. Già è previsto l'adeguamento, già è prevista la tagliola al primo gennaio». Sarà, ma ormai è difficile arginare le polemiche, che neppure la nota con cui Fini e Schifani assicuravano domenica che il Parlamento è pronto ad «assumere comportamenti in sintonia con il rigore che la grave crisi economica-finanziaria impone a tutti» ha affievolito. Casini e Di Pietro si accodano. «Chi più ha più deve dare: entro il 31 dicembre, come deciso dal governo, ci devono essere tagli anche per noi», tuona il leader Udc. Mentre l'ex pm annuncia un emendamento per decurtare gli stipendi: «Mi auguro venga approvato». Peccato, nota il deputato Pd Roberto Giachetti, che «né il governo né Di Pietro propongano emendamenti per decurtare il finanziamento pubblico ai partiti, compreso il suo: centinaia di milioni l'anno, decuplicati da quando un referendum radicale stravinto ne aveva abolito l'erogazione. Non sono anche questi costi abnormi della politica?».

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