Bersani usa Renzi per rimpiazzare Casini

Dalla Rassegna stampa

 Da quel che si può intendere esaminando la discussione che c'è stata nell'Assemblea nazionale del Pd sul regolamento per le primarie, l'intesa che hanno trovato Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi va oltre la pura riflessione sulle «regole».
Lo indica l'atteggiamento del sindaco di Firenze che dicendo «mi fido di Bersani» ha smontato un pezzo essenziale dell'impostazione iniziale della sua campagna, incentrata sul refrain «Non fidatevi dei burosauri». Senza l'eccitazione della protesta, che tra l'altro attirava anche elettori «estranei», credo che il segretario del partito si sia aperto una via abbastanza facile (tra apparato, cooperative, sindacalisti) per far prevalere la sua candidatura. E il giovane ribelle pare accontentarsi di diventare il co-partner dei futuri assetti, rinunciando alla portata esplosiva di alcune sue posizioni.
Che questo sia lo scenario in corso si comprende dalle reazioni infuriate dei dalemiani (dice Ugo Sposetti: «Da dove prende i soldi Renzi? Ha speso circa due milioni. Riceve aiuti anche dall'estero?», quasi un richiamo all'antico slogan «È pagato dalla Cia») e quelle altrettanto inviperite di Rosy Bindi che voleva un accordo con Bersani per aprire la via al Quirinale per Romano Prodi. Più vispo della Rosy, Carlo De Bendetti si è subito sintonizzato con il nuovo corso. Il professore bolognese, nel frattempo, si è tolto di mezzo grazie a una provvidenziale Onu che lo manda in Africa dove potrà tra l'altro incrementare anche i suoi già molto solidi rapporti con i cinesi onnipresenti nel Continente nero.
Si legge con sufficiente nettezza la logica italiana dell'operazione, propiziata anche dall'appello del presidente Giorgio Napolitano a evitare nuove lacerazioni: ci si impegna a scongiurare una scissione nel Pd, si sostituisce l'apertura al centro casiniano (che dava però tra l'altro molto potere a D'Alema) con la valorizzazione di un Renzi capace di parlare anche ai moderati. E si considera consumato il flirt con Pier Ferdinando Casini. Quest'ultimo fatto è intuibile pure dalle vicende romano-laziali: l'accordo del Pd con i dipietristi per la Regione e la scelta del laicissimo Nicola Zingaretti per la Capitale sono cose che il leader dell'Udc non può digerire (e forse neanche suo suocero Franco Caltagirone).
Peraltro, poi, il principale frutto della tramontante intesa Pd-Udc, cioè il candidato alla Regione Sicilia Rosario Crocetta, pare in grande difficoltà di fronte a un convincente Nello Musumeci. Ma bastano gli scenari italiani per giustificare le ragioni della svolta bersaniana (e renziana)? Con uno Stato così a pezzi (a partire dai magistrati politicizzati), con un'opinione pubblica così rabbiosa per le troppe tasse montiane e i troppi scandali, con un sistema di influenze straniere così esorbitante non mi pare che il contesto nazionale da solo consenta di spiegare compiutamente i nostri processi politici.
A essere maliziosi si può osservare che le svolte a cui ci riferiamo avvengono dopo la tragica prova televisiva di Barack Obama che ha reso se non sicura, possibile una vittoria di Mitt Romney. Questo fattore indebolisce alla radice Angela Merkel e gli uomini più legati, come Casini, alla sua egemonia nel Ppe che contavano per il futuro sull'asse con Obama, magari con una svalutazione del dollaro pro-Washington e pagata in Europa dagli Stati mediterranei. I vari comparti della socialdemocrazia continentale - dalla Germania con il candidato Spd Peer Steinbrueck, al nuovo approccio moderato del giovane leader laburista Ed Milliband in Gran Bretagna - si spostano su posizioni più centriste e Bersani alla fine, grazie anche a Renzi, non fa che allinearsi.

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