Bersani scarica la minoranza ma evita epurazioni

Dalla Rassegna stampa

«Lo so bene anch’io che dal 14 dicembre è cambiato qualcosa! Provate a chiederlo a Fini...». Alle sei della sera, Pierluigi Bersani strappa alla platea della sua Direzione riunita dalla mattina, uno dei pochi sorrisi di una giornata tormentata che si chiude comunque con una spaccatura lacerante, se pur mascherata da uno strappo ricucito con una toppa finale. Una divisione che porta con sé effetti imprevedibili nel momento di massima tensione per il governo, tanto che all’ultimo momento i veltroniani, che la mattina avevano deciso di votare contro, decidono di passare a più miti consigli e di non partecipare alla conta. E questo grazie alle «aperture nella replica del segretario» sulla vocazione maggioritaria del Pd, «sposando la linea Ichino sulla Fiat e ammettendo il cambio di fase avvenuto dopo il 14 dicembre. «Con Berlusconi in queste condizioni potevamo permetterci di regalargli una divisione così plateale?», si giustifica Ermete Realacci. «La verità è che hanno preferito non contarsi se no finiva 90 a 10», commentano i bersaniani. E infatti il voto della Direzione, chiesto da Franceschini e voluto dal segretario «per fare chiarezza», finisce 127 a favore, 2 astenuti, 2 contrari, con la minoranza Modem, circa 25 membri su 250, che sceglie un prudente Aventino dopo concitate discussioni sbloccate da Veltroni.
 
 I più entusiasti sono i dalemiani, elettrizzati fin dalla mattina da una prova muscolare che consente al segretario di rafforzarsi: «Con Fioroni che ci spara addosso ogni due per tre, con Gentiloni che commissiona sondaggi per vedere quanto prenderebbe un loro partito e con Veltroni che prepara il Lingotto 2, è giusto fargli capire che se vogliono proprio andarsene nessuno si oppone», dicono nei corridoi mentre il loro leader la mette giù con più eleganza di fronte alle telecamere. «Mi sembra che la relazione del segretario ottenga il consenso della stragrande maggioranza dei presenti», spiega D’Alema in una pausa dei lavori. «Tranne poche voci isolate, c’è una larghissima convergenza che va molto al di là della maggioranza congressuale. Ciò dimostra che il consenso si allarga non si restringe...». E tenendo conto che la maggioranza che Bersani ottenne al congresso nel 2009 era pari a circa il 57% dei voti ma che i suoi avversari erano Franceschini e Marino, oggi schierati con lui, si capisce come le parole dell’ex premier all’ora di pranzo non aiutino la distensione con i veltroniani. Ma a far esplodere un petardo che fa pensare al peggio sono gli uomini dell’area Franceschini. Il quale nel suo intervento rivendica in pieno la scelta della mozione di sfiducia contro Berlusconi e la linea del segretario sulle alleanze aperte a tutti in vista di possibili show down, difendendo a spada tratta Fini e Casini. Poi un suo fedelissimo come Gianclaudio Bressa arriva a dichiarare incompatibili gli incarichi di partito per chi è contrario alla linea. Apriti cielo, Fioroni la prende in aceto e rimette subito insieme a Gentiloni il mandato nelle mani di Bersani. «Vogliono buttarci fuori come ha fatto Berlusconi con Fini», sibila. Ma poi Bersani stoppa l’epurazione. «Il segretario sono io e queste cose non mi sono mai passate per l’anticamera del cervello». Dopo aver chiesto nel suo intervento mattutino «discussioni solidali, pena l’indebolimento» di un partito che «deve mettersi alla guida della riscossa italiana o il Paese si disgrega». Rispondendo pure alle strattonate dei Radicali rilanciando una proposta di nuova legge elettorale a doppio turno con quota proporzionale. E convocando una conferenza nazionale con tutti i circoli per parlare di primarie, «che non vanno cancellate, ma riformate per preservarle...».

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