Bersani rottamatore a sorpresa

Un paradosso accompagna l’avvio della campagna delle primarie del Pd: invece di uno solo, i rottamatori sono diventati due. Dopo Matteo Renzi, che della cacciata del vecchio gruppo dirigente ha fatto il suo marchio di fabbrica, a sorpresa, anche Pierluigi Bersani ha sposato la linea del pensionamento anticipato.
La novità inattesa sta gettando nella disperazione più cupa i predestinati. Tra loro, c’era chi voleva far saltare le primarie, ma il segretario non era dello stesso avviso. C’era chi puntava a farle svolgere con un regolamento restrittivo, tale da condizionarne il risultato e limitare l’afflusso dei consensi per Renzi; ma anche in questo caso il leader del Pd ha preferito primarie «aperte». Così che sabato, all’Assemblea del partito, tutti hanno dovuto prendere atto che Bersani ha accettato la sfida - e un po’ l’ha promossa -, non solo per battere definitivamente il suo sfidante e ottenere la candidatura alla premiership, ma anche per liberarsi della tutela esercitata fin qui su di lui dai numerosi capicorrente.
Che questo sia un obiettivo legittimo, per un leader che ha dovuto accettare altri sacrifici nel corso del suo mandato, è fuor di dubbio. Ma che il modo per arrivarci sia di rivolgersi agli elettori delle primarie quasi con gli stessi argomenti del suo avversario, è da vedere. Per varie ragioni. La prima è che Bersani ha una biografia completamente diversa da quella di Renzi: per età e formazione appartiene cioè in tutto e per tutto alla generazione dei possibili rottamandi. Anno più anno meno, ha la stessa anzianità di iscrizione al Pci-Pds-Ds-Pd. E’ stato presidente della Regione Emilia, quando ancora il partito in cui militava si chiamava «comunista». E’ stato ministro nei governi dell’Ulivo e dell’Unione con Prodi, D’Alema, Amato, Veltroni e Rosi Bindi. E prima ancora delle precedenti primarie che lo avevano consacrato leader, era stato designato come segretario alla vigilia di un tradizionale congresso e da un normale (per quei tempi) accordo tra i vituperati (solo ora) capi delle diverse fazioni interne.
Tutto ciò, va detto a suo onore, Bersani non l’ha mai nascosto, né se n’è mai vergognato; menandone vanto, al contrario, e dichiarandosene anzi orgoglioso. Ma proprio questo rende più difficile da capire la sua conversione alla scelta rottamatrice. Intendiamoci, non è che ci si possa aspettare da lui, in contrapposizione col «nuovismo» di Renzi, una difesa a oltranza del «vecchio» Pd. Ci mancherebbe: i tempi non lo consentono. E l’ondata di reazioni dell’opinione pubblica, che tende a livellare indistintamente - e ingiustamente - i politici, come esponenti di una casta privilegiata e corrotta, non lascia molte possibilità a sfumature o ad analisi articolate.
Malgrado tutto, però, uno spazio per discutere, e proporre regole ragionate, occorrerebbe trovarlo. Sarebbe compito anche di Bersani individuarlo, in coincidenza con le primarie: cominciando dal tratteggiare criteri più convincenti per la rottamazione, rispetto alla ghigliottina anagrafica generalizzata proposta da Renzi. Ad esempio, che si debbano lasciare fuori dal Parlamento tutti i coinvolti in affari giudiziari, è sicuro. Ne va del recupero di credibilità delle Camere in cui attualmente sono più di un centinaio quelli con carichi pendenti. Ma si dovrà o no distinguere tra un’accusa e l’altra, tra il corrotto conclamato e il responsabile oggettivo, tra il ladro, il recidivo e chi ha agito in stato di necessità? Sono differenze, tra l’altro, che la stessa giustizia ordinaria tende a sottolineare nelle sue sentenze.
E quanto al problema dell’anzianità di servizio, chiamiamola così: si dovrà o no tener conto dell’impegno prestato, dei risultati ottenuti, del patrimonio di esperienza apportato alla vita del partito e alle istituzioni? Prendiamo ancora i nomi di quelli che figurano in cima alla lista degli epurandi: per D’Alema e Veltroni, contano di più gli errori innegabili delle loro lunghe carriere, o l’aver portato, con tutti i limiti arcinoti, il centrosinistra al governo per due volte? E per la Bindi, dev’essere considerata imperdonabile la sua, a volte incerta, carriera di ministro, o le dev’essere riconosciuto il contributo dato negli ultimi vent’anni al rinnovamento dei partiti in cui ha militato, dalla Dc al Pd?
Sono solo tre esempi, scelti a proposito, sapendo che se continua l’andazzo di questi giorni, nel giro di qualche settimana diventeranno indifendibili. Vent’anni fa, al tempo della caduta della Prima Repubblica, la mannaia scese repentinamente su tutta intera la classe dirigente. Era la prima volta in più di quarant’anni che la politica svelava la sua faccia nascosta all’opinione pubblica: fu un terremoto, una mezza rivoluzione, e forse non c’era altro da fare. Dopo, negli anni, c’è stato anche il tempo per i ripensamenti.
Ma adesso, anche se non è affatto facile, prima che la Storia si ripeta, forse c’è ancora il tempo di riflettere, di tentare di distinguere, di separare il grano dal loglio. E se Bersani ne ha voglia, le primarie del Pd in questo senso cadrebbero a proposito.
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