"Berluscono aiuti me e mia moglie"

Dalla Rassegna stampa

«Il presidente Berlusconi è sempre stato rinomato per la sua grande generosità. Spero tanto che possa aiutare me e mia moglie». La voce di Sergio Cicala, l'italiano rapito lo scorso da 17 dicembre con la moglie Philomene Kaboré tra la Mauritania e il Mali, mentre andavano in minibus in Burkina Faso dai parenti di lei, nell'appello diffuso su Internet suona uniforme e meccanica, come se leggesse un testo. Ma il contenuto è drammatico. L'ultimatum lanciato
dall'Aqmi, l'al-Qaeda del Maghreb Islamico, scade domani e il gruppo terroristico ha diffuso l'appello la notte scorsa sui forum islamici per spingere le autorità italiane ad esaudire le loro richieste, in cambio del rilascio del prigioniero. Come è stato per il francese Pierre Camatte, liberato qualche giorno fa fra molte polemiche. Poco prima le autorità del Mali avevano scarcerato 4 terroristi islamici, così come richiesto da uno dei primi comunicati dell'alQaeda
magrebina. Un gesto che fra gli internauti islamici è stato considerato un grosso successo del gruppo armato, che ora ci riprova, premendo sul governo italiano. Mentre un appello a Berlusconi e al ministro Frattini, perché non lascino «nulla di intentato», arriva anche dalla figlia trentenne di Cicala, Alexia.
La registrazione audio, in italiano, è corredata da una fotografia di Cicala in ginocchio, la barba folta e i lunghi capelli, davanti a un plotone di mujahidin col viso coperto e il mitra spianato. «Mi chiamo Cicala Sergio, sono nato a Carini l'8-12-1944. Dal 17 dicembre sono prigioniero dei combattenti di al Qaeda e ho un appello da fare al governo italiano, al presidente della Repubblica e al presidente Berlusconi», esordisce. E continua: «La mia libertà e quella di mia moglie dipendono dalle concessioni che il governo è disposto a fare. Quindi spero che al più presto il governo si interessi alla nostra situazione e alle nostre vite. Aspettiamo fiduciosi che tutto possa concludersi il prima possibile».
Un testo che appare quasi dettato dai terroristi. I quali, in un comunicato in arabo parlano in prima persona, e accusano l'esecutivo italiano, che «non si è mosso seriamente» e «non ha fatto abbastanza» per salvare i suoi cittadini «nonostante siano passati più di due mesi dal rapimento». Addirittura imputano al governo di «aver mentito all'opinione pubblica», che esortano a far e pressioni perché siano esaudite «le legittime richieste dei mujahidin».
Quali siano le richieste non si sa. Il ministro Frattini qualche giorno fa aveva negato che fosse
stato chiesto un riscatto. «Ma se anche fosse, non lo direi a voi giornalisti», aveva aggiunto. La Farnesina resta fedele alla linea del silenzio assoluto adottata dall'inizio e mantiene uno stretto riserbo, riconfermato anche ieri. Nelle mani dello stesso gruppo terrorista continuano ad esserci
anche tre cooperanti spagnoli, rapiti in novembre in altre circostanze, così come il francese. Una settimana fa lo spagnolo El Mundo aveva scritto che erano stati pagati cinque milioni di riscatto, notizia, si diceva, «confermata da un membro del governo», ma i tre spagnoli non sono poi stati liberati. Gli ostaggi erano stati localizzati, si diceva anche, ma il governo del Mali escludeva un blitz per non mettere in pericolo la vita dei prigionieri. Il ministro francese Kouchner invece
era andato due volte a Bamako per indurre il premier del Mali Touré a liberare i 4 terroristi
detenuti lì, come chiedeva alQaeda. Come poi avvenne.
Camatte, 61 anni, appena libero, ha descritto i rapitori come «dei fanatici». «Leggono tutto il tempo il Corano, volevano convertirmi all'Islam, credono di avere la verità e il loro obiettivo è islamizzare il mondo», ha raccontato. Quanto alla prigionia, «la cosa più dura è la solitudine:
si è isolati, non ci si deve muovere, c'è il caldo del Sahara, le condizioni igieniche sono spaventose, l'alimentazione e l'acqua disgustose».

 

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