Articolo di Stefano Vaccara pubblicato su America Oggi, il 14/04/10
Nel 1994, qui a New York, mi capitò il colpo di fortuna di poter intervistare McGeorge Bundy, l'ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente John F. Kennedy. Andai a trovare Bundy, considerato da sempre "the best and the brightest" dei cervelli di Harvard portati dal giovane Jfk alla Casa Bianca, nel suo ufficio della Ford Foundation, dove aveva da poco finito di scrivere un volumetto sul futuro del pericolo nucleare alla fine del XX secolo. Bundy, lo ricordiamo, era colui che si trovava solo con Kennedy nell'ufficio ovale al momento della crisi dei missili sovietici a Cuba, quando il mondo si ritrovò sul precipizio dell'olocausto nucleare.
Bundy rispose alle mie domande sul rischio della disgregazione post sovietica, della corsa al nucleare della Nord Corea, sui pericoli nel Golfo Persico, sui rischi tra India e Pakistan (quest'ultimo stava entrando ormai a far parte del circolo dei possessori della bomba), Israele... Insomma l'ex consigliere di Kennedy, senza curarsi granché del fatto che avesse difronte soltanto un giovane giornalista italiano appena fresco di master, sciorinò tutta la sua sapienza in materia di pericoli nucleari e, pur mantenendo una certa apprensione, affermò che rispetto agli anni bui della Guerra Fredda, certamente il mondo correva meno rischi che all'epoca della crisi di Cuba.
Ad un certo punto, Bundy interruppe la mia ultima domanda, e fece questa considerazione che qui cito a memoria: "Sono i Paesi come l'Italia, quei Paesi cioè che pur possedendo tutta la forza tecnologica ed economica per poter diventare potenze nucleari invece hanno deciso di rinunciarvi e mantenere il loro peso internazionale con altri mezzi, che possono aiutare di più gli altri a non prendere la decisione opposta". Insomma il virtuosismo di come si può contare nel mondo senza la bomba dovrebbe essere insegnato agli altri, sosteneva Bundy, che vedeva proprio nell'Italia un Paese simbolo della rinuncia all'arma di distruzione di massa per eccellenza.
No so se il nostro premier Berlusconi ricorda chi fosse McGeorge Bundy, ma se vuole farei subito una ricerca nell'archivio per fargli subito avere una copia di quella bella intervista, ovviamente uscita su “America Oggi”, il giornale che, piccolo inciso, potrebbe chiudere grazie ai tagli del suo governo. Ieri a Washington per il vertice sulla sicurezza nucleare abbiamo visto il premier italiano muoversi tra i leader mondiali con disinvoltura e i suoi soliti larghi, anche un po' esagerati sorrisi. Eppure esserci a questo vertice per l'Italia non deve significare solo timbrare il cartellino simbolico del c'eravamo anche noi, e baciamo le mani ad Obama per l'invito. È vero che la Casa Bianca ha voluto questo super vertice (almeno per il numero dei partecipanti) soprattutto per identificare modi, procedure e scambi di intelligence, prima per come evitare che i terroristi islamisti si impossessino della bomba e poi anche per concludere con la Cina gli ultimi accordi prima dell'ultima spinta al Consiglio di Sicurezza dell'Onu contro l'Iran. Ma se Berlusconi e i suoi bravi consiglieri sapranno approfittarne, oltre che essere qui per sorrisi e pacche sulle spalle, l'Italia potrebbe, anzi dovrebbe nelle foto ufficiali di rito, essere identificata come il paese simbolo di una speranza: in questo travagliato mondo, una nazione può raggiungere benessere e modernità, insomma crescere e contare, senza appartenere al club della bomba.
È vero, l'Italia ha avuto e continua ad avere l'ombrello protettivo Usa-Nato, ma anche con questo, restiamo, per la scelta che almeno finora abbiamo continuato a fare, "moralmente" superiori riguardo alle armi nucleari.
Facciamolo apprezzare e quindi pesare.
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