Berlusconi attacca giudici e radicali

Dalla Rassegna stampa

A scoppio ritardato, Berlusconi contesta l'idea che tutti si sono fatti. Grida al mondo la sua verità:«Ci hanno impedito di presentare le liste a Roma, da parte nostra non c'è stato il minimo
errore».
Accusa i nonviolenti Radicali di essersi comportati «con violenza» e non risparmia i magistrati dell'Ufficio elettorale. Nel momento stesso in cui dice «basta carte bollate, guardiamo avanti, restituiamo la parola alla politica», ricostruisce con puntiglio gli eventi in vista del ricorso al Consiglio di Stato.
Ancora: proprio mentre alza i decibel contro il «sopruso», Berlusconi chiarisce che la grande manifestazione del 20 marzo a San Giovanni sarà «non di protesta ma di proposta».
Nella conferenza stampa indetta per lanciare la riscossa accetta uno stralunato scambio di vedute con il contestatore di turno, per la gioia di chi ama (direbbero a Trastevere) buttarla in caciara. Mille contraddizioni, eppure una strategia emerge limpida: il premier punta a radicalizzare lo scontro, vede i sondaggi che vanno giù, chiama il suo popolo alla battaglia finale contro una sinistra «antidemocratica e meschina che vorrebbe correre da sola, come in Urss». Lo schema di sempre.
In privato il Cavaliere ammette: troppi 12 giorni prima di reagire. L'hanno illuso gli azzeccagarbugli, sfornando ricorsi tutti bocciati. L'hanno confuso i cortigiani, «Silvio tientene fuori, vai a capire cos'è successo davvero...». Martedì sera, solo dopo l'ennesima bocciatura dei ricorsi, s'è chiuso in stanza con gli autori del pasticcio, Polesi e l'ormai celebre Milione, che non aveva voluto incontrare prima. E dopo aver vestito i panni «dell'inquisitore», ora mette la mano sul fuoco. Mai parlato di un «branco di imbecilli», giura.
I delegati Pdl erano a presentare la lista 20 minuti in anticipo sulla scadenza, uno solo era stato fatto entrare per ragioni di spazio, stava ordinatamente in fila, tutto comprovato dai carabinieri. Poi, al momento di darsi il cambio, «i radicali presenti si opponevano anche sdraiandosi» davanti all'uscio della stanza numero 23. La magistrata di turno, «anziché ristabilire l'ordine, decideva incredibilmente di escludere i due» (Polesi e Milione). Berlusconi lo definìsce «un errore marchiano, è stata violata la legge», giusta la denuncia nei confronti della dottoressa Argento.
Svela un dettaglio che gli sa tanto di malafede. Il deputato Pdl Abrignani era lì, pronto a sfondare il cordone di carabinieri per consegnare ugualmente le carte. In quell'attimo, tra il drammatico e il grottesco, «Abrignani fu chiamato dal prefetto dì Roma che lo invitò a desistere asserendo di avere avuto, dal capo dell'Ufficio elettorale, l'assicurazione che tutto sarebbe stato sanato previo ricorso». La storia è andata diversamente.
C'è poi un altro «giallo» che, stavolta, Berlusconi tiene tutto per sé: riguarda Napolitano, cioè colui che Di Pietro accusa di cedevolezza, e invece... Esponenti di vertice del Pdl temono di essere stati, per dirla educatamente, buggerati dal Colle. I tecnici del Quirinale avrebbero versato gocce di veleno nel famoso decreto «salvaliste», col risultato di pregiudicarne l'efficacia qualora venisse applicato.
Si ricordi il Consiglio dei ministri che approvò il dl, venerdì 5 marzo: fissato alle 18, spostato alle 19, iniziato alle 20... Tutta colpa del braccio di ferro con i giuristi del Presidente, che volevano aggiungere: chi è presente negli uffici del Tribunale alla scadenza del termine deve poter presentare le liste, okay, purché queste siano «munite della prescritta documentazione». Il governo piegò la testa. E guarda caso, subito il Tar ha negato che «la prescritta documentazione» nella fattispecie esistesse. «Abbiamo fatto male a fidarci», si mangiano le mani in via dell'Umiltà. Ma ormai è tardi, taglia corto il premier, «non ci resta che gettare il cuore oltre l'ostacolo e dare una lezione alla sinistra».
 

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