Beltrandi, il fine radicale che non si giustifica mai

Dalla Rassegna stampa

In coda alle faticosissime nomine nel consiglio di amministrazione della Rai - del tutto imperscrutabili per il grande pubblico - ecco una nota di colore che fa brillare la complessità delle culture custodite dal Pd e insieme contribuisce a delineare un autentico personaggio dei nostri giorni. Si chiama Marco Beltrandi ed è deputato radicale eletto nelle file del Pd. Ottima persona, ma ieri, polemizzando con i suoi colleghi di schieramento, è riuscito ad accusare Luigi Zanda di essere un comunista. Il senatore Zanda, Pd, ha maturato un ricchissimo passato navigando nel mare della Dc e perfino a un esame lombrosiano risulterebbe del tutto estraneo alla sofferta fisiognomica comunista. Ma Beltrandi è sicuro di quel che dice: «Capisco - ha detto rivolto al povero Zanda - che per le influenze della cultura comunista i fini giustifichino sempre i mezzi...». Ci vorrebbe una foto di Zanda; poi, bisognerebbe spiegare perché Beltrandi si è arrabbiato e capire com’è che dentro il medesimo partito ci possa essere un radicale, eletto coi voti della base Pd, che accusa un ex democristiano, ora Pd, di essere un comunista. Proviamo.

Torniamo a quando pareva che il partito di Berlusconi sarebbe riuscito a far collassare ogni tentativo di dare alla Rai un Cda rinnovato. Il Partito democratico stava introducendo un elemento di rottura nei confronti della melina spartitoria del passato. Infatti, il Pd si è rifiutato di partecipare alla spartizione chiedendo alla società civile l’espressione di un paio di nomi al di sopra di ogni sospetto sui quali si sarebbe impegnato poi a votare. Fatto. Bisognava agire in fretta, altrimenti la tagliola del Pdl avrebbe terminato di spezzare le reni alla Rai congelando gli equilibri di potere nel Cda costruiti a vantaggio di Berlusconi. Schifani fa il suo mestiere: patrocina l’eliminazione del consigliere di Vigilanza (Amato) non più «affidabile» per Berlusconi e la sua «opportuna» sostituzione (con Viespoli) in vista delle votazioni, alla velocità di un bosone. Beltrandi, intanto, provvede a non votare togliendo la possibilità concreta di ridimensionare il ruolo del Pdl nel Cda e grazie solo alla sua assenza passa il nome di Pilati, grand commis berlusconiano.

Poi, a rinnovo fortunatamente concluso, attacca Zavoli «per la sua gestione di regime» (gasp!) mentre in seconda battuta lamenta con morigerata formalità «l’errore» («grave», ammette ma in un inciso) di Schifani. Zavoli sarebbe colpevole, secondo il deputato radicale, di non aver vagliato i curricula degli aspiranti, cosa che il presidente non avrebbe potuto fare, a rigore di normativa. Ma conta la sostanza, soprattutto in tempo di guerra e questo tempo lo è. Tanto è vero che Pilati è passato, il Pdl conserva per questo il controllo berlusconiano sulla Rai e intanto Beltrandi - rigoroso pannelliano - se la prende con Zavoli. Zanda replica a Beltrandi: ma cosa dice? Zavoli ha salvato la Rai dal marasma che era nelle intenzioni del Pdl. Beltrandi conclude che Zanda respira un’aria comunista.

Ma il radicale è l’uomo che provvide a suo tempo a votare, con il Pdl in vena di dispetti, Riccardo Villari alla presidenza della Commissione di Vigilanza, azzerando le scelte del Pd al quale anche Villari apparteneva. Beltrandi fu il promotore di quel bavaglio normativo anti-Santoro che avrebbe voluto, in campagna elettorale, conduzioni bipartisan, a due quindi, nei talk show politici. Una demenzialità quasi affascinante. Lui, infine, fu il responsabile di uno storico scacco ai danni dei costi della politica e a vantaggio del partito di Berlusconi, quando con il suo voto riuscì a disaccoppiare le amministrative dai referendum. Quattrocento milioni di euro. Beltrandi iniziò a forare il velo dei personaggi contemporanei e il suo busto fu posto nella rastrelliera dei "mandarini".

 

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