Autosprechi

Un mondo a parte. Ascanio Rozera potendo spendere oltre 6 milioni di euro ha deciso che il posto più giusto fosse proprio il paese dove è nato, Sessa Aurunca, in provincia di Caserta. Rozera, segretario generale dell’Aci, è infatti originario del comune campano, dove lo scorso settembre, all’annuncio della costruzione del primo centro di guida sicura nel Sud Italia, era in buona compagnia. Alla presentazione del progetto c’erano Nicola Cosentino, sottosegretario all’Economia, su cui pende una richiesta di arresto per concorso esterno in associazione camorristica, e Angelo Maria Cicolani, senatore del Pdl balzato alla cronaca per un emendamento che cancellava i reati finanziari di Parmalat e Cirio, che fece infuriare Giulio Tremonti spingendolo a minacciare le dimissioni. A Sessa Aurunca, a fianco del segretario generale dell’Aci, sedeva anche l’avellinese Francesco Pionati, ex notista politico del Tgl, oggi deputato transfuga dell’Udc e membro della commissione Trasporti a Montecitorio.
La scelta di Rozera di destinare i soldi dell’Automobile club d’Italia a una pista di asfalto nel paese natale, oltre ad apparire vagamente feudale, sembra rassicurare sul fatto che l’Aci è sempre uguale a se stessa. Resta, cioè, quell’ente pubblico intoccabile dove vige uno statuto anacronistico che non impone limite al numero dei mandati per il presidente e il segretario generale. Quest’ultimo è una sorta di plenipotenziario che governa su una macchina con oltre 3.200 dipendenti, 106 Automobile club provinciali, quasi 500 agenzie assicurative e una moltitudine di società controllate che sovente perdono a bocca di barile.
Rozera è già al terzo mandato ed è candidato a restare in sella a lungo, malgrado lo scricchiolio dei conti e l’emorragia di soci (in cinque anni gli iscritti al soccorso Aci sono scesi da 1 milione 76 mila a 962 mila, con un calo costante e irreversibile). Una sorta di incarico a vita, di cui non dispone più neanche il governatore della Banca d’Italia.
UNA CARICA È PER SEMPRE
Ma l’Aci è diverso. Basti pensare che il predecessore di Rozera, Giuseppe Spizuoco, anche lui di origini campane, è stato il deus ex machina dell’ente per tre decenni, dal 1975 al 2002. Un record difficile da eguagliare. Nel frattempo però l’intera struttura è passata in mano al segretario generale e tutte le direzioni dell’ente riportano fedelmente a lui. Il presidente, Enrico Gelpi, è un comasco che, a differenza del suo predecessore Franco Lucchesi, ha evitato scontri aperti con Rozera preferendo giocare la partita del suo primo mandato in veste di vicepresidente e ambasciatore della Fia (la Federazione internazionale dell’automobile a cui fa capo l’organizzazione della Formula 1) a cui ha diritto per statuto. Per il tandem al vertice dell’Aci, del resto, l’imperativo è preservare il carrozzone, sottraendolo a ogni possibile riforma.
Gelpi e Rozera siedono a capo di un ente che nel 2008 ha potuto contare su 371 milioni di curo di entrate (equivalgono al bilancio di una città come Cagliari) a cui si deve aggiungere il giro d’affari non consolidato di tutta le società controllate (le principali sono Aci Global, Aci Informatica, Aci Vallelunga, Aci Sport, Aci Mondadori, Ventura e le compagnie Ala Assicurazioni e Sara). Una galassia che tra ricavi e premi assicurativi vale altri 900 milioni di euro.
La caratteristica dell’ente risiede nel guadagnare soldi con le attività nel settore pubblico come la gestione del registro automobilistico e la riscossione delle tasse au- tomobilistiche per conto degli enti locali, l’Aci finisce invece in rosso quando opera sul mercato vendendo servizi di assistenza, polizze e viaggi. Seguire questo fiume di soldi aiuta a spiegare il potere di lobbying e la capacità di autoconservazione dell’ente che negli anni ha resistito agli assalti da parte della politica e dei commentatori che non si rassegnavano all’idea di smantellare un pachiderma che deve la sua sopravvivenza al regime di monopolio protetto del pra (da solo vale 227 milioni di curo). Il primo
a tentare una spallata è stato Oscar Luigi Scalfaro quando ricopriva la carica di ministro dei Trasporti. Erano gli anni Sessanta e l’iniziativa aborti, anche perché l’Aci era, oggi come allora, una formidabile macchina imbottita di dipendenti e capace di presidiare il territorio. Il secondo vero attacco al potentato si deve ai radicali, che a metà degli anni Novanta tentarono la strada di un referendum per l’abolizione del pra, il pubblico registro automobilistico. L’eliminazione del polmone che alimenta il sistema Aci avrebbe portato a un forte ridimensionamento dell’ente.
Ma anche Marco Pannella e colleghi hanno fallito. E stessa sorte è toccata a Pier Luigi Bersani, quando, in veste di ministro delle Attività produttive, ha provato attraverso le lenzuolate a togliere di mezzo il suddetto pra, Un fuoco di sbarramento bipartisan lo ha fermato. Intervenire sul registro automobilistico è un po’ come immaginare il taglio delle province: politicamente inattuabile. Eppure l’Italia è l’unico Paese con ben tre banche dati che custodiscono le caratteristiche e le informazioni di proprietà delle autovetture immatricolate. Oltre al pra ci sono i registri della motorizzazione civile (che dipende dal ministero dei Trasporti) e quelli dell’archivio nazionale dei veicoli. Una moltiplicazione che costa e che impone l’obbligo per ogni automobilista di disporre di un certificato di proprietà e di un libretto di circolazione.
L’Aci, finora, si è sempre salvato, forte del fatto che l’abolizione del pra comporterebbe ingenti costi per lo Stato, che dovrebbe, tra l’altro, farsi carico degli oltre 3.200 dipendenti che costano più di 150 milioni di euro all’anno. Il guaio è che il pubblico registro automobilistico, complice la crisi del mercato delle quattro ruote, non tira più come un tempo. Tanto che i conti faticano a quadrare: nel 2006 e nel 2007 il disavanzo è stato rispettivamente di 8 e 10 milioni di euro, mentre il 2008 è stato archiviato con un avanzo di 900 mila euro. Il rendiconto 2009 quando verrà reso noto evidenzierà le difficoltà dell’ente.
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