Asse Fli-opposizione: governo battuto

Silvio Berlusconi è «scettico» sulla prospettiva di aprire una crisi «pilotata», soprattutto perché, ragiona il premier, «una volta aperta non si sa come va a finire». La conclusione è una sola: «Se vogliono sfiduciarmi dovranno farlo in Parlamento». In realtà un segnale significativo è arrivato già ieri, con la tripla sconfitta dell’esecutivo andato sotto alla Camera grazie ai voti di Fli con l’opposizione. Il Cavaliere però non ha potuto opporsi alla proposta di Umberto Bossi, che si è autocandidato a tentare un’ultima mediazione con il presidente della Camera. L’incontro tra i due si svolgerà domani, quando il premier sarà già volato per il G20 in Corea (sono state infatti smentite le voci su una possibile rinuncia al vertice). Le premesse non sono, buone. Fini ha chiesto le dimissioni di Berlusconi, l’apertura formale della crisi per dar vita a un nuovo patto di legislatura, a un nuovo governo che coinvolga anche l’Udc. Una conditio sine qua non, pena l’uscita di Fli dal governo e soprattutto la totale autonomia in Parlamento. Quello che significa lo si è capito ieri. Per tre volte il Governo nel giro di un paio d’ore non ha avuto la maggioranza e in tutte e tre le volte è stato il voto dei finiani di Futuro e libertà a risultare determinante per la sconfitta dell’esecutivo. Eccolo il primo segnale della politica delle «mani libere» annunciata da Fini a Perugia, che al momento risparmia solo la legge di stabilità. Oggetto del contendere ieri una semplice mozione, sia pure su un argomento significativo come la politica sui respingimenti in attuazione dell’accordo Italia-Libia. I finiani, compresi i sottosegretari Roberto Menia e Antonio Buonfiglio, votano un emendamento alla mozione della maggioranza presentato dal radicale Matteo Mecacci, nel quale si chiede al governo di impegnarsi a sollecitare le autorità di Tripoli affinché ratifichi la convenzione Onu sui rifugiati e riapra l’ufficio delle Nazioni Unite quale premessa alla politica dei respingimenti. A questo punto Pd e Lega decidono di ritirare la mozione, che viene però fatta propria dai finiani ed ottiene il via libera dell’assemblea. In aula scoppia il finimondo. Dai banchi della maggioranza si levano grida di «buffoni, buffoni» all’indirizzo di Fli, accusata di voler aprire le porte ai clandestini. «Abbiamo detto che abbiamo le mani libere..», chiosa il capogruppo finiano Italo Bocchino, che difende la scelta sul voto: «Siamo a favore dei respingimenti ma anche per il rispetto dei diritti umani e quindi chiediamo solo che l’Onu riapra le sue sedi in Libia, è una cosa che nessuno ci può contestare». «Irresponsabili» è la risposta di Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl mentre il ministro La Russa ha assicurato che il Governo «ci riproverà». Molto più prosaicamente il pidiellino Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, spiega: «Oramai non si guarda più neppure al contenuto...il punto è solo politico». Lo ripete poco dopo anche il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione: «Siamo a un punto in cui i fucili sparano da soli perché la lite non è nel merito, ma prevale la voglia di regolare conti», Questo il clima che si respira al termine di una giornata che in realtà si era aperta con qualche «spiraglio». Questa era stata infatti l’espressione utilizzata da Umberto Bossi, che lunedì si era autocandidato a tentare un’ultima mediazione con Fini. Poco dopo era giunta la notizia che l’incontro tra il leader della Lega e il presidente della Camera si terrà giovedì ovvero domani. E per questo Adolfo Urso, coordinatore di Fli aveva annunciato che solo dopo il vertice tra i due sarebbero arrivate le eventuali dimissioni dei finiani dal governo. Contemporanemente arrivavano anche rassicurazioni dal fronte della Finanziaria, dove tutti davano ampia disponibilità di voler raggiungere un’intesa alla quale facevano da sfondo anche i siparietti alla Camera tra il ministro dell’Economia Giulio Tremonti o il presidente della commis- sione Bilancio, il leghista Giancarlo Giorgetti, che assieme a Roberto Calderoli si erano intrattenuti con Pierferdinando Casini, ieri particolarmente attivo nei vis a vis. Il leader dell’Udc aveva anche avuto un colloquio con il ministro Pdl Raffaele Fitto. Un modo plastico per manifestare la volontà al dialogo e al confronto. In realtà non si capisce fino a che punto davvero, ciascuno dei giocatori sul campo sia disposto a fare un passo indietro o in avanti. Il premier teme la trappola. Ma allo stesso tempo ha anche paura del logoramento. «Dobbiamo resistere fino a dicembre», era il refrain dei deputati del Pdl ieri in Transatlantico. Già perché a dicembre c’è una triplice scadenza: il federalismo, la sentenza della Corte costituzionale sul legittimo impedimento e la Finanziaria. Dopo «si apre una prateria e alla prima occasione è crisi», sottolineano. Pdl e Lega sono convinti che a quel punto l’unica via d’uscita sarebbero le urne. Questa la tabella di marcia. Ne è consapevole anche Fini. Ma a differenza di qualche settimana fa, il presidente della Camera ora non sembra affatto intimorito dal ritorno in primavera alle urne. Anche perché spiegano i fedelissimi - «dobbiamo viaggiare sull’onda dell’entusiasmo che si avverte nell’elettorato ma che non può durare troppo a lungo».
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