Arte divina

Dalla Rassegna stampa

Alla Galleria Borghese, nel cuore della grande villa creata dal cardinal Scipione, è in corso una mostra quanto meno non usuale. Sono messe a confronto opere del Caravaggio e di Francis Bacon. Caravaggio lo conoscete senz’altro, non è un peccato confessare di saper poco o nulla di Bacon, il pittore inglese (1909–1992), un po’ capofila della scuola figurativa britannica, se così si può dire, che comprende anche Lucian Freud, David Hockney, G&G. Visitare questa mostra è stata per me un’inaspettata occasione per un’altra incursione - spero l’ultima - sul rapporto tra l’arte figurativa e una certa problematica religiosa cui ho dedicato due recenti colonnine.

Con l’accostamento tra i due artisti, distanti tra loro tre secoli, la mostra ha l’intento esplicito di esaltare “la rappresentazione più diretta e traumatica dei grandi temi dell’esistenza umana, espressi nella verità della carne”. Il raffronto “consente di contemplare quanto di più interiore, sconvolgente e aberrante il pennello di entrambi i pittori abbia incontrato nell’indagine profonda dell’animo umano”. Niente meno. L’artista inglese (ma irlandese di nascita) è considerato responsabile massimo di quella “decostruzione” della figura umana che fu il tema della Biennale veneziana del 1995, curata da Jean Clair e dedicata a “figures of the body 1895-1995”. Tra i venti suoi lavori esposti alla Borghese ci sono opere ben note - “Triptych August 1972”, “Triptych inspired by the Orestia of Aeschylus”, “Study for a portrait of George Dyer” e il famosissimo “Study from Portrait of Pope Innocent X” (1953) ispirato al ritratto del Velazquez - che danno la misura dello sconvolgimento che Bacon porta nella visuale contemporanea. Sono opere nelle quali si supera di gran lunga le deformazioni dell’espressionismo tedesco e si volge al grottesco più orripilante la frantumazione dell’umano di origine picassiana o boccioniana. Non le descrivo, andatevele a vedere su Google. Può stupire, e stupisce, l’affermazione che Caravaggio ha avuto un immaginario “sconvolgente ed aberrante” non lontano, almeno quanto ad intenzione, da quello dell’autore di queste opere.

E’ vero che Caravaggio fu anche lui un sovvertitore. Certe sue Madonne, le schiere dei suoi santi o dei suoi efebi, non hanno più la compostezza e l’illusorietà della pittura dei vari Perugino, Raffaello, Crivelli o Michelangelo. Tra i rinascimentali solo Mantegna - mi pare - ritrasse con analoga crudezza il corpo umano, nel suo famoso Cristo deposto. Anche Caravaggio è però in quella schiera di classici ai quali continuamente si fa riferimento come maestri del bello, della bellezza umanistica da contrapporre all’immaginario artistico contemporaneo pervaso invece - e Bacon ne è un bell’esempio - di nichilismo, di perdita del sacro e quindi anche dell’umano. La mostra alla Galleria Borghese sembra suggerirci che forse un certo nichilismo c’era già, sotterraneo, nella Roma del Caravaggio. Come dire che il nichilismo non l’ha inventato Nietzsche ma è, forse, una componente dell’umano nella sua esistenziale finitezza e storica drammaticità. Un pizzico di nichilismo lo si potrebbe già scoprire in certe opere di Pieter Brueghel (1525-1569), il quale già negava la visione rinascimentale per mostrare la crudezza, l’assurdità se non la follia che si dipana nei rapporti del vivere quotidiano della gente comune, non in quelli delle classi alte, dove vigevano cerimoniali e rituali di comportamento di stampo cortigianesco. Già: e se il bello di cui tanto si parla e che siamo invitati ad imitare per rendere maggior gloria a Dio fosse anch’esso un modulo espressivo rituale, oggettivamente falso? Nell’ambito del sacro, c’è gran differenza tra un aulico crocifisso giottesco e uno di quei crocifissi del tipo “Christus patiens” (come quello che vidi a Fabriano, preciso nei particolari fino alla nausea fisica ma anche irreale, vicino ai miei sensi e incomprensibile) nei quali non si scorge l’immagine del sacrificio divino portatore di speranza per l’uomo ma quella del martirio corporeo più atroce, quale ce lo ha rappresentato un contestato film di Mel Gibson. Caravaggio scoprì che la luce era manifestazione del sacro. La sua “Conversione di San Paolo” è una potente esaltazione della luce come epifania di dio nel mondo. Il santo ne è ferito ma insieme pervaso. Chissà che un giorno qualche osservatore o qualche autorità ecclesiastica (ma forse occorrerà qualche santo) non ci venga a rivelare che l’oscuro corporeo dei quadri di Bacon è espressione della presenza conturbante di Dio nella tragica, o almeno drammatica, storia dell’umano. Dovremo allora ammettere che la nostra è un’epoca drammatica, forse sconvolta? E perché no? Potremmo allora anche riconoscere che in queste condizioni è meglio una laica con/passione del brutto piuttosto che gli stereotipi consolatori di una improbabile bellezza.
 

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