È arrivata l'ora della diplomazia

Nessuna voglia e tentazione di intrupparci negli strateghi da "bar sport" e degli esperti ai quattro formaggi che ci spiegheranno chi, come, dove e perché Osama Bin Laden è stato ucciso. E poco ci interessa spiare dal buco della serratura quanto ci sia di vero in quello che ci viene raccontato a proposito della dinamica dell'operazione che ha portato all'eliminazione fisica del capo e fondatore di al Qaeda, è molto probabile che ci siano aspetti "oscuri" come ce ne sono in tutte le operazioni di questo tipo. Ma si avrà tempo per capire, per sapere. Auguriamoci, per una volta, che gli americani sappiano mantenere un segreto. In questa vicenda - e per tante ragioni facilmente intuibili - è bene che restino zone in ombra, non conosciute, almeno nell'immediato. Ci sarà tempo per scrivere la storia. Qui, e ora, preme sottolineare altro. Dunque, Bin Laden non viveva, come si favoleggiava, nascosto nel fondo di una spelonca in qualche zona inaccessibile del Waziristan; viveva al contrario in una villa di Abbotabad, a un centinaio di chilometri dalla capitale pakistana Islamabad. Con lui, la famiglia. È da immaginare che per poter vivere come viveva, poteva contare su solide complicità in Pakistan: e questo significa qualcosa di cui occorrerà tenere conto.
Molto probabilmente grazie a sofisticati marchingegni tecnologici, e una volta individuato il luogo, il blitz è scattato. Probabilmente un'azione combinata, intelligence e corruzione. Anche questo significa qualcosa, e qualcosa dovrebbe insegnare. All'indomani della spaventosa strage delle Twin Towers, le fiamme non si erano ancora placate, e subito abbiamo saputo tutto degli attentatori, dei loro protettori e mandanti, cosa avevano fatto prima di realizzare l'attentato... Ventiquattro ore prima della strage non si sapeva nulla, ventiquattro dopo, si sapeva tutto. La spiegazione è una sola, quella data dall'ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski durante la presidenza di Jimmy Carter: i dati erano stati raccolti, solo che nessuno aveva saputo o voluto interpretarli, "leggerli", metterli in fila, capire quello che stava accadendo. L'uccisione di Bin Laden sembra avere delle somiglianze: le esibizioni muscolari non sono servite a nulla; parecchie migliaia di persone sono morte in una lotta al terrorismo che andava condotta in altro modo. E quando in altro modo si è combattuta, il risultato è venuto. Questo vale per Bin Laden, ma è una lezione che va al di là del caso specifico: vale per la Siria e per la Libia, e poteva valere per l'Iraq. Come ci ricorda spesso Marco Pannella non apparteniamo al magma dei pacifisti, di quanti cioè mettono sullo stesso piano vittime e carnefici, e assistono inerti al massacro dei primi in nome di una pace che è in realtà solo l'accettazione di una guerra che si lascia combattere purché non nel nostro giardino di casa.
Interventisti dunque alla massima potenza, "solo" che il nostro intervento è con le armi, con gli strumenti che sono messi a disposizione dalla ragione e dalla nonviolenza. La prima arma è il sapere, la conoscenza. Vale per tutti: sapere per capire, per poter decidere.
È l'arma della conoscenza e del sapere che assurdamente non viene utilizzata in Libia e in Siria; ed è questa la grande colpa degli Stati Uniti, dell'Europa, dell'Occidente. Non esiste, non viene approntata nessuna "Radio Londra" per Tripoli e per Damasco, come non la si è approntata per Baghdad o Islamabad. Significa, se ne sia consapevoli o meno, che non si nutre alcuna fiducia in quelle popolazioni. Popolazioni che rovesciano i loro tiranni, in Tunisia o in Egitto, senza bruciare bandiere americane o israeliane, ma limitandosi a chiedere libertà, democrazia, pane, lavoro. Da quelle persone, da quei popoli sta venendo una grande lezione: Amartya Sen ci aveva per tempo ammoniti, che non dovevamo coltivare la presunzione di avere l'esclusiva di questi valori. Dovremmo avere l'intelligenza politica di coglierla, farne tesoro.
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