Apostasia, per piccina che tu sia

Non è mai stato uno che l’eresia l’ha minacciata e basta: no, l’ha pure praticata. Come quando dal 1986, prima con due settimanali satirici, Tango e poi Cuore, sfoga tutta la sua satira sulla intoccabile (fino ad allora) e seriosa (ancora oggi) nomenclatura comunista. O come nel luglio 1990, mentre da iscritto al Pci (quando cioè il Partito era una cosa seria) prende provocatoriamente la tessera dei radicali e dei verdi, indifferente a Piero Fassino e allo statuto comunista che gli vietano la doppia iscrizione. Oppure, come nell’agosto 1992: lui, mangiapreti e mangiabambini, osa fare l’ospite dei ciellini al Meeting di Rimini e abbonarsi al loro settimanale, Il Sabato.
Ancora, per saltare a tempi più recenti, come nel 2006, giacché a certi retorici buonisti replica con una frase rimasta scolpita: «Il razzismo finirà quando potremo dire che ci sono neri stronzi come i bianchi». Di più, come nel settembre 2007, perché prima critica Beppe Grillo, suo vecchio compagno di bevute e testi comici, e poi così replica ai grillini che gli danno (di fatto) del mercenario: «Dovessi riscrivere il mio ben pagato commento, alla luce delle parole di Beppe Grillo e delle email invelenite che ho ricevuto, aggiungerei qualche preoccupazione in più sulla totale assenza di dubbi e sulla sicumera settaria che rischia di catalizzarsi attorno a Beppe. Intelligenza e passione sono virtù, rompere gli schemi pure, ma il fanatismo è un vizio tra i peggiori. Anche il Dalai lama accetta critiche».
Ecco, dipinto quale indignato speciale, in verità Michele Serra è un infiltrato sociale. Vive le viscere dell’Italia contemporanea e la racconta seguendo uno schema personalissimo: quello di profanatore dell’ovvio. È persino scontata, perciò, la protesta del lettorato moralista a tempo indeterminato, vuoto di dubbi esistenziali e pieno di certezze antropologiche: è sempre capitato e ancora capiterà. Almeno finché il direttore di Repubblica, Mauro (Ezio), non li separi.
Il 22 gennaio, per dire, Serra ha irritato un bel po’ di«repubblichini» con la sua rubrica, «L’Amaca», dedicata al Rubygate. Così: «Non è che mi sia di particolare conforto sapere che l’opposizione è assai rinfrancata perché un vescovo importante ha detto che, insomma, c’è bisogno di moralità». E poi, «sarebbe bello che l’opposizione avesse materia culturale ed energia politica quante ne bastano per parlare in proprio: dicendo, per esempio, che le adunate di escort non sono delitti contro "la morale", ma sono, piuttosto, la rappresentazione perfetta dello stato di servitù di un popolo». Addirittura: «Chi "ama Silvio", attribuendogli la soluzione del proprio destino, non è un immorale, è un perdente. È una/uno che ha accettato di non diventare mai padrone della propria fortuna, dei propri casi, della propria vita. È alla parola "servo" o "serva" che la sinistra deve insorgere, non alla parola "immoralità"». Questa, infatti, lasciamola al vescovo. Seppur importante. O al solito Grillo. Seppur ingombrante.
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