Andiamo oltre lo stato nazionale

Dalla Rassegna stampa

È corretto, in occasione del terzo cinquantenario dell’unità d’Italia, avviare un’articolata riflessione sullo «stato dello stato italiano», come ha proposto Tommaso Padoa-Schioppa dalle colonne del Corriere della Sera, oppure recuperare «la coscienza nazionale, in tutto il suo spessore spirituale e sociale », come ha invece suggerito il sociologo, di matrice cattolica, Luca Diotallevi? «Nel 2011 si celebrerà non la nascita della nazione italiana (un fatto di cultura), bensì la fondazione dello stato italiano (un fatto politico e istituzionale)” ha sottolineato l’ex ministro e questo perché la nazione italiana «esiste dal Medioevo, precede addirittura il formarsi della tedesca, francese, spagnola, britannica.
La lingua parlata oggi in Italia assomiglia a quella di Dante come nessuna lingua europea assomiglia al suo progenitore del XIII o XIV secolo.
E ha secoli di storia non solo la nazione, ma anche la coscienza di essa da parte degli spiriti illuminati: basta rileggere Dante, Petrarca, poi Machiavelli.
Soltanto dopo secoli di divisione, asservimento, decadenza materiale e civile, crebbe e si realizzò l’idea di dare all’Italia uno Stato, istituzioni, leggi, poteri. La peculiarità della storia italiana non è la nascita recente della nazione, è la combinazione di una nazione precoce e di uno stato tardivo».
Diotallevi, da parte sua, si domanda se davvero siano stati solo «secoli di asservimento, decadenza materiale e civile», quelli in cui il paese era privo di «istituzioni, leggi, poteri» e perora l’abbandono della “contrapposizione tra nazione e stato». «Se lo stato, sostiene, è una forma politica che si trasforma molto radicalmente, e che di per sé non merita alcun fondamentalismo, solo ridando adeguato spazio alla coscienza nazionale è possibile contemporaneamente comprendere il grande valore (e i limiti) della stagione della statualità unitaria italiana, ma già anche disporre di una prospettiva per guardare oltre questa stagione che sta finendo».
Si tratta, come si evince, di una discussione non di poco conto che pone un altro interrogativo, ancora più radicale. Non è, infatti, giunto il momento di fare un passo in avanti per analizzare se sia ancora concepibile un’idea di nazione come spazio chiuso, quindi come coscienza culturale, politica, sociale di un territorio? Non si rivelerà, forse, ad una serrata disamina, illusoria o, peggio ancora, un feticcio meritevole d’essere oltrepassato in un’ottica federalista, kantiana, spinelliana? «Non credo sia utile al nostro futuro, dice Diotallevi, dimenticare la nazione per poter meglio festeggiare lo stato». Il problema non è, però, costituito dalla dimenticanza ma dalla necessità di superare una volta per tutte il preconcetto secondo cui non si possa fare a meno dell’idea nazionale.
Come veniva proclamato nel manifestoappello del primo grande satyagraha mondiale lanciato dai radicali in perfetta linea di continuità con il Manifesto di Ventotene, è proprio il «superamento della sovranità nazionale assoluta come causa di guerre e ipoteca contro lo sviluppo civile e democratico» ad essere alla base del fondamento del processo federalista europeo e a costituire un’inderogabile priorità se si vuole davvero evitare «l’altrimenti probabile, prossimo scatenamento di una guerra globale, senza confini geopolitici, etici, umani».
Utopia? Follia? È possibile che questa urgenza venga considerata tale da chi, in fondo, appare animato dalla tentazione di risorgenti stati assolutistici fondati magari, dietro la scusa della retorica della coscienza nazionale, su neoconfessionalismi.
Per chi, invece, è assertore di una prospettiva nonviolenta e federalista capace di costruire gli anticorpi all’imbarbarimento sociale e scongiurare un olocausto altrimenti prossimo, venturo, deve tradursi in impegno costante.

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