America sola e incerta

La situazione siriana si sta sia complicando sia spostando verso direzioni imprevedibili, se non sorprendenti. Se sul terreno la situazione militare rimane irrisolutiva, gli attori esterni (gli unici che potrebbero portare ad uno sblocco della situazione) sono invece tentati da ipotesi politico-diplomatiche capaci di uscire dal sanguinoso impasse che sta distruggendo un Paese senza prospettive credibili di una vera vittoria per nessuno. Questo avviene unicamente a causa della battuta d’arresto di quella che fino a pochi giorni fa sembrava l’inarrestabile marcia americana verso un intervento militare. Chiamando in causa il Congresso, Obama non ha certo risolto il problema - e forse si è anzi cacciato in un pericoloso vicolo cieco politico - ma ha senz’altro aperto uno spazio per altrui iniziative, altrui proposte. Chi ne sta approfittando clamorosamente è la Russia. Visto che Obama ha ristretto la motivazione dell’intervento alla sola questione delle armi chimiche, Mosca si è detta favorevole all’adesione siriana all’organizzazione per il controllo e la proibizione delle armi chimiche (Opcw), il che renderebbe poi possibile la distruzione degli stock. Una proposta che, se si considerano i tempi necessari all’intero processo, si può certo definire demagogica, ma che ha ottenuto l’immediata adesione del ministro degli Esteri siriano e anche un sostanziale avallo di Ban Ki-Moon. E in ogni caso non va messa in dubbio l’efficacia della iniziativa russa nel creare problemi agli americani , come dimostrato dalla precisazione del Dipartimento di Stato, che ha ritenuto necessario definire semplice «argomento retorico» la dichiarazione di Kerry secondo cui se Assad avesse messo le armi chimiche sotto controllo internazionale un attacco non sarebbe più stato necessario.
In modo meno ostentato e meno provocatorio verso gli Stati Uniti, ma forse più concreto, è anche l’Iran ad essere in movimento. Rohani e Zarif sanno bene che un intervento americano, soprattutto se ampio e protratto, renderebbe impossibile la realizzazione della svolta di cauta ma sostanziale apertura nella politica estera iraniana - una svolta la cui prima finalità è una normalizzazione dei rapporti dell’Iran con il mondo e l’attenuazione di un isolamento che pesa sia economicamente sia dal punto di vista della sicurezza del Paese. I segnali sono non equivoci: Rohani che, invece di garantire nel caso di un attacco americano appoggio militare alla Siria, come ha fatto Putin, parla di «aiuti umanitari»; Rafsanjani, il vero deus ex machina della svolta moderata a Teheran, che addirittura parla con una dichiarazione la cui successiva smentita ufficiale risulta assai poco convincente - di un governo siriano «che usa le armi chimiche contro i propri cittadini». Teheran, come principale sostenitore di Damasco, può fare molto per contribuire ad una soluzione della tragedia siriana. Si rende conto che Assad può magari continuare a resistere militarmente, ma che sarebbe poco realista puntare tutte le carte dell’Iran, e soprattutto le poste in gioco nella regione, sulla sua futura tenuta al vertice del regime siriano. Mai come nel caso della politica iraniana verso la Siria è valida la famosa frase secondo cui in politica internazionale esistono interessi permanenti, ma non alleati permanenti. Per quanto importante sia la Siria per Teheran, soprattutto come anello di congiunzione con Hezbollah, il più serio strumento di deterrenza iraniana contro l’ipotesi di un attacco americano o israeliano, non è credibile che il nuovo Presidente e il nuovo ministro degli Esteri siano disposti a sacrificare alla solidarietà con il dittatore siriano il loro disegno complessivo di politica estera. Certo un massiccio attacco americano alla Siria renderebbe difficile per la nuova leadership resistere alle tendenze più radicali che hanno perso le elezioni, ma continuano ad essere presenti all’interno del regime. Ma le novità non sono soltanto nel campo dei Paesi che sostengono la Siria, bensì anche fra quelli che si sono dichiarati pronti a sostenere un intervento militare americano, la Francia e la Turchia. Entrambi i Paesi hanno negli ultimi giorni, e addirittura nelle ultime ore, di molto attenuato il senso di urgenza e anche la loro determinazione. Come potrebbe essere altrimenti, quando gli umori del Congresso e dell’opinione pubblica rendono tutt’altro che scontato che Obama riesca ad avere un mandato che forse non era indispensabile, ma il cui diniego diventerebbe molto problematico disattendere. Sulla Siria l’America è sempre più sola, sempre più incerta. Sarebbe poco onesto e poco credibile considerare anche la dichiarazione di 11 Paesi emersa a margine del G20 di San Pietroburgo come un’approvazione di un’azione americana ancora incerta sia per l’incognita del Congresso sia per il suo non chiaro rapporto con le Nazioni Unite, tanto per quanto riguarda il Consiglio di sicurezza che nell’attesa del rapporto degli ispettori tornati dalla Siria dopo la strage chimica. Un’azione militare contro la Siria era già difficile. Le incertezze di Obama, la divisione fra i suoi fautori, i dubbi residui su chi abbia usato le armi chimiche, le manovre russe, le novità iraniane la rendono oggi ancora più problematica.
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