Altro che badante di Bossi, ho dimostrato che il celodurismo non è prerogativa dei maschi

C'è chi nella Lega l'ha sentita mettere in riga un animata riunione di maschi, urlando: «Calma e sangue freddo, non mi rompete i c..., sennò vi meno». Insomma, come un uomo, anche peggio di un uomo. Del resto lo stesso Umberto Bossi anni fa di lei aveva detto: «Non so neanch'io se la Rosi è un uomo o una donna, per il lavoro di sindacalista e per il caratteraccio». Rosi Mauro, all'anagrafe Rosa Angela, 48 anni, da S. Pietro Vernotico (Brindisi), corpo atletico e lunghi capelli corvini sciolti sulle spalle, lo prese per un «complimento». Dal momento che, secondo lei, «se si insiste sulla diversità femminile si rischia di trasformarla in inferiorità». Il femminismo politically correct le saltò addosso, trattandola alla stregua di una schiava del celodurismo leghista. Da allora scansa i giornalisti come la peste Chissà se direbbero la stessa cosa oggi che Rosi nella Lega ha un potere che negli altri partiti le sue sorelle di sesso possono solo sognare. È lei la donna più potente del Carroccio, seconda solo alla cofondatrice e moglie di Bossi Manuela Marrone, di cui è grande amica.
L'ultima delicata missione affidatale dal capo è stata quella di andare a rimettere a posto le cose nel partito in Emilia-Romagna, dilaniato da tensioni e lotte intestine. I giornali hanno parlato di «commissariamento». La nota ufficiale del partito ha corretto così: Rosi è andata ad «affiancare» il segretario Angelo Alessandri per le elezioni comunali di Bologna. Alessandri è un nome di peso nei vertici leghisti perché è anche presidente federale della Lega e artefice del successo in Emilia-Romagna. Temuta e ossequiata, Rosi, come vicepresidente del Senato, non è soltanto il braccio destro di Bossi in Parlamento. Dal suo ufficio di Palazzo Madama dirige molte danze del Carroccio, eseguendo alla lettera gli ordini del Senatùr.
Che di lei si fida ciecamente. Tanto che sempre a lei fu affidata un'altra strategica missione: seguire Renzo, figlio di Bossi, nella sua prima campagna elettorale alle ultime regionali. Ora nessuno più nella Lega osa affibbiarle il nomignolo di «badante», nato dall'invidia perla sua vicinanza a Bossi, intensificatasi dopo la malattia. Solo il Senatùr può permettersi di prenderla in giro affettuosamente per le sue origini meridionali: «La Rosi, anche se un po' terrona, è brava». Celebre la foto nel 1994 del bagno in piscina all'hotel Mirella a Ponte di Legno, dove il gran capo padano la sollevava dalle natiche. Ne rimase politicamente folgorato a Milano, quando la notò mentre arringava un gruppo di tranvieri: «Vidi una ragazzetta che urlava su un tavolo e li mise tutti a tacere».
Una volta però, a Bologna, dovette stoppare le intemperanze della stessa «ragazzetta», che a un congresso leghista stava «esagerando» nei fischi al sindaco Walter Vitali. Ma narrano che il Senatùr si impuntò quando qualcuno provò a cacciarla dalla guida del Sinpa, il sindacato padano, di cui Rosi, ex metalmeccanica della Uil, è ancora leader. Il Sinpa ha fatto da apripista a molti successi leghisti nelle fabbriche e nei quartieri operai. Se si è parlato di «Falce e Carroccio» il merito è anche di Rosi. Il cui cavallo di battaglia sui «salari territoriali» ha fatto breccia anche nella Cisl. Questo ha contribuito alla sua ascesa ai vertici leghisti. Provocando qualche malumore e qualche mal di pancia nel Carroccio. Lei ha subito reagito. Dal palco della manifestazione di Venezia del 12 settembre si è lanciata in una sfuriata. Parlando a nuora perché suocera intendesse se l'è presa con i giornali, rei di avere scritto di un quartetto (Mauro, la moglie di Bossi e i capigruppo di Camera e Senato, Marco Reguzzoni e Federico Bricolo), una sorta di «cerchio magico» che avrebbe isolato Bossi dal primo cerchio dei colonnelli leghisti. «Cagate! Tutta invidia per la nostra forza. La Lega invece è unita!» ha urlato «la Pantera». Così la chiamavano ai suoi esordi alla guida del Sinpa.
Quando, calze a rete e orecchini vistosi, «si incatenò per tre giorni e tre notti davanti a Montecitorio per ricordare che il referendum sulle trattenute sindacali è stato calpestato». Mentre la Rosi era li davanti incatenata, Irene Pivetti stava dentro e scampanellava in aula indossando i suoi tailleurini da leghismo versione bon ton. Ora, per una legge del contrappasso, ai vertici del Parlamento c'è Rosi. Se Pívetti era l'Ornella Muti della Lega, Mauro è un po' un'Anna Magnani. Appassionata, popolana, come direbbe Bossi, sa bene come fare inumidire gli occhi alla base leghista. I cuori si scaldano quando urla: «I nostri vecchi non possono contare meno degli immigrati clandestini!». Mentre i tre Roberto (Maroni, Calderoli, Castelli) erano già in Parlamento, lei scarpinava per il Sìnpa nelle fabbriche della Bergamasca dove è riuscita a strappare diversi rappresentanti sindacali a Cgil-Cisl-Uil. Ovvero «la triplice», come lei si ostina a chiamarla per metterne in rilievo «il conservatorismo». «Non è vero che lei pensa solo alla sua carriera, è una combattente che lotta per il federalismo. Rosi è rimasta una donna del popolo» dice chi la conosce bene nella Lega. Sindacalista di fatto è rimasta anche al Senato, dove il presidente Renato Schifani le ha affidato il delicato compito di trattare con le organizzazioni dei dipendenti per risparmiare sui costi. Rosi, «la sindacalessa feroce», come la definì Roberto Calderoli, li ha inchiodati a un estenuante tavolo di trattativa. Ma quando lei presiede la seduta, molti tirano un sospiro di sollievo. «Conduce i lavori in modo equilibrato, ci risparmia gli isterismi di Emma Bonino» dice Gegè Caligiuri, senatore del Pdl, vicino a Silvio Berlusconi, nativo di Soveria Mannelli (Catanzaro), lo stesso paese della madre di Rosi. Narrano che la Pantera sappia essere anche molto simpatica. Nelle poche pause di relax a cene e feste leghiste, si scatena al microfono con le più belle canzoni di Adriano Celentano. Per la gioia del Senatùr.
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