Alleati improbabili: Bersani e Pannella litigano pure sul voto

Dopo aver usato tutti, ma proprio tutti gli argomenti - dal «io ho sempre pensato che siete persone serie» a «quando è venuta fuori l'idea di Emma, io ho detto subito: andiamo!», da «si può avere opinioni diverse, ma anche un terreno condiviso» a «avete ragione sulla democrazia, sulla legalità, avete ragione su tutto» - a un certo punto, quando ormai è dieci minuti che parla e qualcuno dalla platea comincia a chiedere «sì, ma se fanno ricorso?», «sì ma la Rai?», «sì ma la Consulta?», Pier Luigi Bersani, con una variazione del morettiano "Non facciamoci del male", conclude così: «E comunque abbiamo ottime ragioni. Non indeboliamocele da soli!». Proporre «il rinvio di un mese in tutte le regioni perché altrimenti la campagna elettorale non è legale», come ha chiesto il leader radicale Marco Pannella - l'unico vincitore della battaglia sulle liste -, significherebbe, per il segretario del Pd, condannarsi alla sconfitta o comunque dare un aiuto decisivo al centrodestra. Quindi, la risposta del segretario dei democratici è "no". Poco prima aveva detto: «Andiamo davanti agli elettori, andiamoci sicuri, tranquilli, andiamoci per vincere. Noi abbiamo mobilitato un popolo. Andiamo con il popolo. Andiamo a votare e a vincere».
Per spiegare il suo no, per convincere i Radicali a non far mattate, a giocarle, queste elezioni, Bersani va di persona nel pomeriggio al teatro di Santa Chiara, dove il partito di Marco Pannella è in assemblea già da sette ore. Il dibattito è stato teso, difficile. La voglia di «non giocare coi bari», come dice Emma Bonino, c'è eccome. «A questo livello di impazzimento del gioco che può aprire le strade a mille contestazioni successive al voto», dice l'excommissario europeo riassumendo a Bersani la discussione finora svolta, «ci chiediamo se non sia più serio azzerare la situazione», annullare un «processo elettorale ampiamente ipotecato».
La risposta di Bersani è netta.
No. Per varie ragioni. Si finirebbe per rinviare le elezioni, ma solo nel Lazio. «Verrebbe fuori uno che direbbe: perché creare problemi a undici regioni? Ce n'è una che ha avuto dei guai,rinviamo lì». Ma soprattutto perché «la gente non capirebbe». C'è una parte dell'opinione pubblica, spiega, che «ha percepito la disparità di trattamento tra le liste del presidente e le altre». Poi ce n'è un'altra che non capisce perché «io, cittadino, sono sottoposto a delle regole e tu, politico, no». Infine ci sono quelli che provano «un senso di spaesamento e di repulsione» di fronte a una «discussione che non tocca mai la vita dei cittadini». Riconosce che i problemi di legalità posti dai Radicali sono sacrosanti. Come quelli sull'accesso alla Rai. Si impegna a fare di tutto per cambiare la legge elettorale regionale, per modificare i meccanismi di presentazione delle candidature da parte dei partiti minori. Ma non è che rinviando le elezioni problemi si risolvono. Si affrontino, allora, tutte le battaglie giuridiche, si facciano ricorsi e controricorsi.
«Non abbiamo in mano tutti i passaggi, lo so». La Consulta o il Consiglio di Stato potrebbe annullare le elezioni. «Ma siamo sicuri delle nostre buone ragioni anche sotto il profilo giuridico,
siamo sicuri della possibilità di fare una grande battaglia anche sotto il profilo democratico».
In realtà la tentazione di cambiare il gioco non è solo dei Radicali. Ieri nel Pd alcuni parlamentari, i più vicini a Giorgio Napoletano, rilanciavano l'ipotesi di una «soluzione politica» che passasse dal rinvio. «Maggioranza e opposizione», chiedeva Gianni Pittella, «trovino un accordo che permetta il sereno svolgimento delle elezioni regionali salvaguardando la normativa in vigore e il diritto degli elettori a esprimere liberamente il proprio orientamento politico».
Ma sono posizioni isolate. Franceschiniani, veltroniani e mariniani non ne vogliono sapere. E nemmeno Bersani. Che, almeno in questo, sembra pensarla come Silvio Berlusconi.
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