Al Pd di Bersani mancano i voti

Pier Luigi Bersani le sta prendendo un po’ da tutti. Nel suo partito, ove le insofferenze spaziano da una fetta di antichi diccì (sempre più distaccati dal percorso socialista intrapreso dal Pd) ai seguaci di Walter Veltroni, passando per coloro che, ed è solo un esempio, scelgono di schierarsi dalla parte della Fiom contro l’intesa sindacale torinese. Fuori del partito, ove l’appello al terzo polo per un’intesa fra coloro che sono contro Silvio Berlusconi non ha avuto, finora e in buona sostanza, successo alcuno.
La vera causa dell’incapacità di produrre una linea politica vincente, all’interno come all’esterno del Pd, è banale. Si tratta dell’insufficienza dei voti. Un partito come i democratici, che ambisce a essere la forza di maggioranza relativa e a governare il Paese, può condurre una politica dotata di sufficiente autonomia ove disponga dei voti necessari e, in seconda battuta, ove i voti di un ridotto numero di alleati omogenei, strettamente indispensabili per vincere, consentano di ragionevolmente sperare nel successo. Le due condizioni non sussistono.
La prima è quella che maggiormente travaglia il partito. Già il 33% ottenuto alle politiche (con l’apporto dei radicali, inglobati nelle liste democratiche) fu considerato una mezza sconfitta, e in ogni caso ben lontano dalle aspirazioni che, segretario Veltroni, il partito esibiva. Tuttavia un terzo dei voti consentirebbe di svolgere una politica autonoma, indipendente dalle formazioni che agiscono sullo stesso versante. Oggi, però, al Pd si attribuisce il 25%. Non v’è un sondaggio che lo segni vicino al 30%. Si tratta di una posizione di oggettiva debolezza: non in termini assoluti, beninteso, bensì come condizione per seguire una strada propria.
Ecco, allora, la fatale ricerca delle alleanze. E qui, quale che sia la scelta adottata, le difficoltà persistono. Se il Pd guarda verso il terzo polo e chiude a Sel, Idv e sinistre varie, non può certo pensare di battere l’alleanza fra Berlusconi, Bossi e frange minori. Se il Pd guarda a sinistra, si sbilancia e rischia di ripetere i malanni dell’Unione. I voti ci sarebbero soltanto in caso di una sorta di gigantesca alleanza di salute pubblica, fra tutti coloro che non sono berlusconiani. Una simile prospettiva è di ardua costituzione, di esito incerto e di conduzione successiva impossibile, come dimostra l’esperienza prodiana.
Ecco perché Bersani deve barcamenarsi, restando destinato in ogni caso all’insuccesso. Il vero problema sono i voti: oggi come oggi, quelli del centrodestra sono ancora tali da far ritenere certa la vittoria di Berlusconi. Alla Camera, beninteso. Al Senato, il discorso è diverso; ma qui spuntano le oggettive difficoltà politiche, soprattutto per accordi preventivi. Di nuovo, è l’insufficienza della base elettorale democratica a porre ostacoli, e la necessità di ricorrere, per vincere, a un numero di alleati troppo elevato: sarebbero sodali troppo rissosi perché ciascuno dotato di peso marginale decisivo o tale reputato.
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