8 dicembre, i Radicali al Cie di Ponte Galeria "il crimine di non avere il permesso"

Dalla Rassegna stampa

Si arriva nei Cie con un fermo di polizia e si vede il giudice solo 48 ore dopo. Non un giudice ordinario, però: a confermare il fermo degli «immigrati clandestini» sono i giudici di pace. Del resto, la ragione per cui sono trattenuti l’80% dei 257 detenuti nel Centro d’identificazione ed espulsione di Ponte Galeria che abbiamo visitato insieme ai senatori Furio Colombo e Francesco Ferrante, non è un delitto. Il loro “crimine” consiste nel loro “stato”: non essere in possesso di un permesso di soggiorno. La nuova legge sulla sicurezza discrimina positivamente solo i pochi comunitari presenti nel Centro, riconoscendo loro il privilegio di essere fermati da un giudice ordinario. Per gli altri 245, extracomunitari e qualche Rom apolide, il principio di habeas corpus secondo cui ogni individuo ha diritto di ricorso per difendersi da un arresto illegittimo, è in bilico. D’altronde, la convenzione tra ministero dell’Interno e Croce Rossa Italiana, l’ente gestore di Ponte Galeria, esplicitamente non prevede l’assistenza legale.

Il destino è lo stesso per tutti, comunitari e non. Aspettare in celle senza riscaldamento, acqua calda e spesso neanche luce, in questo centro alle porte di Roma che è il più grande dei 13 attualmente operativi. Creato nel ‘98 come Centro di permanenza temporanea dalla legge TurcoNapolitano, trasformato in luogo di detenzione a tempo indeterminato per non-criminali dalle norme sulla sicurezza varate l’estate scorsa. Fino a sei mesi di sospensione del diritto, di attesa, poi puoi ritornare per strada con un ordine di espulsione, e se ti riacchiappano ritorni dentro. E dentro aspetti.

Al Cie non c’è nulla da fare. Non è un carcere: non vi sono attività programmate, il conforto di associazioni, scarsi contatti con l’esterno e niente che si possa ricevere dai famigliari. I minori, i figli che nella maggior parte dei casi sono nati in Italia e non hanno mai vissuto altrove, non possono entrare, anche se tra i detenuti ci indicano un minore. Le mogli si incontrano se si ha la fortuna di essere vicino casa, ma qui tanti vengono dal Nord o da Napoli e le famiglie non le vedono più, almeno per le settimane di attesa tra sbarre alte cinque metri e cemento.
Si aspetta per un tempo indefinito l’identificazione o l’espulsione. Prima aspetti che la polizia riesca a identificarti e a scoprire se veramente hai le carte in regola per essere là dentro, oppure se hai i figli minorenni come molti dichiarano mostrandoci il loro stato di famiglia timbrato e firmato dal comune di Campo San Martino, un documento di richiesta d’asilo, un bollettino del famoso censimento dei campi nomadi effettuato l’anno scorso. Ma come mai devi essere identificato se hai dei documenti rilasciati dalla pubblica amministrazione in mano? E se hai un matrimonio celebrato in Italia e dei figli minori, una richiesta d’asilo in corso, secondo la legge, non hai alcun motivo di stare lì. Ma per confermarlo ci possono volere settimane, anche mesi, e intanto sei in gabbia. E la lista di avvocati che dovrebbe essere appesa nella sala colloqui non si trova. Né la Croce Rossa né l’ufficio immigrazione sanno spiegarci come i detenuti possano contattare dei legali. Nelle more dell’identificazione il giudice di pace prolunga il fermo. E l’habeas corpus è morto e sepolto.

Se ti confermano che sei passibile d’espulsione sai che hai un motivo per esser lì, attendere - non sai quanto - che ti mandino indietro. In carcere, almeno, a quanto ammonta la condanna lo si sa. Il periodo di detenzione nel CIE, invece, dipende dall’abilità dell’ufficio immigrazione a contattare la tua ambasciata e a convincerlo ad accettarti. Dipende anche dalla disponibilità dei posti su Alitalia, uno dei pochi vettori disponibili per l’espatrio. E Alitalia ha le sue condizioni: gli arabi, al contrario degli altri, non possono viaggiare da soli. Per loro non basta che si liberi un posto per il rimpatrio, ne occorrono almeno due in più per la scorta. E poco importa se questi arabi non sono sospettati di preparare stragi, ma solo privi di permesso di soggiorno.
Fin qui il racconto. Nei prossimi giorni analizzeremo i dati raccolti negli altri Centri d’Italia per valutare gli interventi più urgenti per garantire condizioni di vita dignitose e il rispetto dei diritti umani fondamentali, perché si superi questa visione distorta di “sicurezza”.
 

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