Può l’azione essere nonviolenta?

da “Notizie Radicali” del 22 settembre 2010

L’articolo che segue, scritto da Jean-Marie Muller, uno dei maggiori studiosi di nonviolenza, è stato pubblicato sulla rivista “Azione Nonviolenta” del maggio-giugno 1973.

Si dice che è più facile stabilire la verità partendo dall’ignoranza che ristabilirla partendo dall’errore, e ciò è particolarmente vero a proposito della nonviolenza. Questa, infatti, c’ispira molte idee, ma molte idee false. Siamo gli eredi di una cultura che ha ignorato tutto della nonviolenza e, nonostante ciò, prendiamo pretesto da questa cultura per giudicare la nonviolenza, cioè, forzatamente, per rifiutarla. 

In un primo tempo, percepiamo la nonviolenza come il rifiuto puro e semplice della violenza. E poiché concepiamo la violenza come una necessità della lotta per la vita, la nonviolenza ci appare come una negazione e un rinnegamento. Siamo stati abituati a pensare alla violenza, non prima di tutto come la negazione dell’altro, ma come affermazione di sé. E’ per questo che la violenza è associata nel nostro spirito alla virilità, al coraggio, all’audacia, alla generosità di colui che s’impegna nella giusta lotta per difendere la libertà e promuovere la giustizia. Posta la violenza come la virtù dell’uomo forte, la nonviolenza appare, di conseguenza, come una debolezza che, deve essere denunciata. Essa non può che essere un atteggiamento di ingenuità e di incoscienza di fronte alla realtà, di viltà e di dimissione davanti alle nostre responsabilità, di paura e di fuga di fronte alla lotta. Perciò, quelli che si richiamano alla nonviolenza si trovano accusati, a destra, di essere traditori della patria, e a sinistra di tradire la rivoluzione. Nell’uno e nell’altro caso, benché gli argomenti presentati siano esattamente opposti tra loro, la nonviolenza è rifiutata come una pericolosa illusione che serve a fare il gioco dell’avversario. 

Prima di respingere queste accuse che tendono a chiudere il dibattito, importa capirle perché contengono una parte di verità che deve essere afferrata per comprendere la nonviolenza. Se la violenza ci sembra irrespingibile e la nonviolenza inaccettabile, è perché intendiamo la violenza come il principio stesso dell’azione e, per conseguenza, la nonviolenza come il rifiuto dell’azione. Ed è vero che quasi sempre e quasi ovunque quelli che agiscono hanno scelto il ricorso alla violenza, e che quelli a cui ripugna l’uso della violenza hanno scelto di non agire, nonché rifiutano la violenza per darsi un alibi che li dispensi dall’agire. Perciò, per discutere opportunamente dell’azione violenta, prima ancora di respingere la violenza conviene fare l’apologia dell’azione. 

E’, infatti, con l’azione che l’uomo ha il potere di protestare contro l’irragionevolezza del mondo nel tentativo di farvi prevalere la ragione. L’ordine, nel mondo, non è mai stabilito, ma è sempre da promuovere e non può esserlo che per mezzo dell’azione. La presa di coscienza che “la vera vita è assente” ci obbliga ad agire per “cambiare la vita”. La non azione sarebbe incoscienza o dimissione. Coviamo però una forte ripugnanza ad agire. La nostra maggiore tentazione non è di agire con i mezzi della violenza per combattere l’ingiustizia ma di non agire affatto, cioè di collaborare con l’ingiustizia. Siamo il più delle volte degli spettatori rassegnati dell’evento – quale che sia, per contro, l’audacia delle nostre parole. L’azione è sempre un rischio che rimette in causa i nostri comodi e la nostra tranquillità. E’ per questo che siamo costantemente alla ricerca di buone ragioni per non agire e per giustificare l’avallo che apportiamo, con il nostro silenzio, alle ingiustizie dell’ordine stabilito. 

Dobbiamo a questo punto sottolineare il coraggio ed il merito di coloro che si assumono il rischio dell’azione violenta quando, veramente, è la giustizia che essi ricercano. In questo caso (non contempliamo certo il caso della violenza messa al servizio di un fine ingiusto, perché siamo tutti unanimi nel condannarla) l’azione violenta è preferibile all’inanzione. Se di fronte a situazioni caratterizzate da ingiustizia, le sole azioni intraprese sono violente, come potrebbe la nostra simpatia ed il nostro sostegno non andare a quegli attori che hanno avuto il coraggio di intraprenderle? Dobbiamo dunque capire la seduzione che la violenza esercita su molti di noi, forse su coloro che hanno maggiore fame e sete di giustizia. Ci identifichiamo con l’eroe violento – basterebbe pensare all’attrazione esercitata da Che Guevara – perché la sua azione simboleggia il rifiuto di ogni compromissione con l’ingiustizia di questa società. Nel momento iniziale rifiutiamo di adeguarci a questa ingiustizia, la violenza ci appare come la rivolta la più pura e la più dura contro ciò che questo mondo porta in sé di inaccettabile. “Se la scelta”, diceva Gandhi, “non fosse che tra la violenza e la viltà, allora meglio sarebbe scegliere la violenza”. Ed è proprio perché crediamo che l’uomo sia prigioniero di questa scelta che siamo pronti a fare l’apologia della violenza. 

Così, la nonviolenza autentica è del tutto estranea a quella certa spiritualità che disprezza l’azione nella storia per invitare ad una purificazione individuale al di fuori della storia. In questa prospettiva, è vero che la religione è un oppio per il popolo. 

Conviene perciò riconoscere anzitutto la necessità dell’azione. Ma se l’azione ha per fine quello di far prevalere la ragione in un mondo privo di senso, cioè di orientamento e di significato assieme, allora ciò stesso che ci obbliga all’azione ci obbliga a rifiutare di accomodarci alla violenza. Il movimento stesso della rivolta contro l’assurdità di questo mondo ci porta al rifiuto della violenza. Non è più allora la violenza ad apparire come l’espressione radicale della rivolta, bensì la nonviolenza. Camus ha dimostrato efficacemente – e dispiace che non lo si sia sufficientemente sottolineato nei commenti delle sue opere – come le ragioni stesse che giustificano la rivolta ci portano a rifiutare ogni giustificazione alla violenza. 

L’uomo in rivolta, avendo preso coscienza del carattere inaccettabile di un destino individuale che lo tratterebbe prigioniero solitario di un mondo ostile, scopre l’urgenza di entrare in relazione con gli altri uomini per organizzare una lotta solidale contro l’assurdità. La rivolta può allora affermare il valore che lo fonda: “Il mutuo riconoscimento di un destino comune e la comunicazione degli uomini loro”. Diventa altresì chiaro che la violenza, che di per sé stessa rompe ogni solidarietà e ogni comunicazione, viene a negare i fondamenti stessi della rivolta: “La libertà estrema, quella di uccidere”, scrive ancora Camus, “non è compatibile con le regioni della rivolta…La logica della rivolta sta nel voler servire la giustizia per non accrescere l’ingiustizia della condizione…La coerenza della rivolta sta nel rifiutare la propria legittimazione all’omicidio poiché, nel suo principio, essa è protesta contro la morte”. Lo stesso rifiuto della violenza appare ancora attraverso la testimonianza di uno degli eroi de “La Peste”: Tarrou. Dopo aver preso coscienza che su questa terra si accompagnavano flagelli e vittime, e che la dignità dell’uomo consisteva nel rifiuto di essere dalla parte dei flagelli, egli dichiara: “Ho deciso di rifiutare tutto quello che, da vicino o da lontano, per buone o per cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire”. 

Certo, c’è violenza e violenza e non conviene affatto condannarle tutte assieme. La violenza dell’oppresso, che si rivolta contro l’ingiustizia di cui è vittima e rivendica i suoi diritti, non si colloca sullo stesso piano della violenza dell’oppressore che intende conservare i suoi privilegi costi quel che costi. Non ci è permesso condannare allo stesso modo tutte le violenze “da qualunque parte provengano” e “qualunque esse siano”. 

Ma dobbiamo ugualmente rifiutare la facilità con cui giustifichiamo le nostre violenze al momento in cui pretendiamo di agire per la giustizia. La storia è là per mostrarci a quali atrocità simili ragionamenti possono condurre. Le peggiori violenze, in effetti, sono state commesse in nome di un avvenire fraterno, Ma, nel presente, esse respingevano questo ideale verso un domani sempre più ipotetico. La violenza, che viene giustificata in teoria perché messa al servizio della buona causa, perpetua nei fatti l’irragionevolezza del mondo e diventa causa di nuove ingiustizie e di nuove divisioni. Il semplice fatto che siano ripetuti invariabilmente in ogni tempo e luogo, è sufficiente a togliere ogni credibilità agli argomenti presentati nei discorsi tenuti nelle cerimonie ai monumenti dei caduti. 

Non è affatto necessario voler dare una definizione rigorosa della violenza per poter affermare che essa non può ricevere alcuna giustificazione. Le definizioni più grossolane – basti pensare alla tortura e alla bomba atomica – ci aprono prospettive sufficientemente chiare e ci assegnano abbastanza compiti per il presente.

La violenza deve perciò essere riconosciuta come un mezzo che ci pone in contraddizione con il fine che pretendiamo di ricercare. Il fallimento delle ideologie – di tutte le ideologie e innanzitutto quelle religiose – sta nell’averci tolto il sentimento di questa contraddizione dichiarando legittima la violenza. A partire da ciò, è con la coscienza ben tranquilla che abbiamo ammesso la necessità della violenza e che, ciò facendo, abbiamo patteggiato con le assurdità di questo mondo. Ma nella misura in cui ci rendiamo coscienti che la nostra azione non può raggiungere il suo scopo – la creazione di un mondo riconciliato – per mezzo della violenza, scopriamo l’esigenza della nonviolenza. E questa esigenza ci porta a capire che la vera questione è di sapere come può l’azione essere nonviolenta? Porre la domanda permettere di potervi rispondere. Il guaio è che la nostra civiltà non abbia portato con sé questa domanda e che, di conseguenza, anche noi non abbiamo mai cercato di darle una risposta. 

Gandhi e Martin Luther King, per primi, hanno invece posto questa domanda ed hanno mostrato che la risposta era possibile. Ciò che dobbiamo imparare da loro non è tanto che l’azione violenta deve essere denunciata, ma che l’azione nonviolenta è possibile. L’invito pressante che essi ci rivolgono non è tanto che noi rinunciamo alla violenza quanto invece ci c’impegniamo e ci compromettiamo nell’azione nonviolenta per combattere l’ingiustizia e ristabilire il diritto degli oppressi. Essi non rinchiudono affatto l’azione nel quadro ristretto di una morale individuale, ma la organizzano nel quadro di una strategia politica. Essi non intendono affatto mantenersi sul puro piano della spiritualità, ma si pongono decisamente su quello dell’efficacia. Non cercano soltanto di incanalare l’aggressività degli oppressi per evitare l’esplosione della violenza, essi intendono dominarla affinché si esprima sotto forma di azioni collettive che permettano agli oppressi di acquisire il potere di cui hanno bisogno per far prevalere i loro diritti. Essi sanno che non basta per i poveri avere il diritto e la verità dalla loro parte, ma che è loro compito farlo sapere ai ricchi mediante delle pressioni e delle costrizioni capaci di obbligarli a cedere. Cosicché saremmo colpevoli di ripetere per abitudine che la violenza è necessaria e di non metterci all’opera al fine di ricercare, nelle prospettive che appunto Gandhi e King ci hanno aperto, le risposte concrete ai problemi concreti cui dobbiamo far fronte. L’immaginazione non salirà al potere fintantoché non saremo decisi ad investire per l’azione nonviolenta gli stessi sforzi che fino ad oggi sono stati consentiti per la violenza.

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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=2310

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