intervento di Nicolò Amato al convegno sulle carceri della uil / 2 aprile 2009

Vi ringrazio molto, molto di questa accoglienza affettuosa, molto di questo invito, perché mi ha dato… mi ha fatto un regalo, il regalo di trovarmi per qualche minuto, per qualche ora, insieme con vecchi e cari amici, conosco tutti o quasi tutti, non posso fare nomi perché se ne dimentico qualcuno, questa potrebbe essere una scortesia che non voglio fare, perché mi avete dato la possibilità di fare in qualche misura una sorta di tuffo nel passato, negli undici anni che sono stato insieme con voi al DAP e, come sempre quando si rivolge lo sguardo al passato, c’è sempre un po’ di malinconia, un po’ di emozione, io in questo momento sono francamente emozionato; forse anche qualche rimpianto, anche perché si poteva fare di più e che si poteva fare meglio e che non è stato fatto, ma il tempo è crudele, non ha mai prove di appello, degli errori che abbiamo fatto, dei problemi che abbiamo cercato di affrontare, delle difficoltà che ci hanno sovrastato, ma anche delle cose buone, utili che abbiamo fatto, che abbiamo fatto insieme, delle speranze che abbiamo cullato insieme e soprattutto il mio ricordo è il ricordo della collaborazione personale, stretta, intima, con tutte le organizzazioni sindacali, e se l’affetto può meritare una scusa vorrei dire, non perché sono qui insieme con voi, vorrei particolarmente dire della uil che mi è sempre stata particolarmente vicina e alla quale io sono sempre stato particolarmente vicino (applausi), e con tutti gli operatori penitenziari, direttori, assistenti sociali, educatori della polizia penitenziaria, quanti hanno operato insieme con me in quegli 11 anni e quanti ancora adesso continuano ad operare.
Io credo che quello che noi abbiamo fatto di più utile e di più costruttivo è stato forse la scoperta di un metodo di collegialità nel decidere e nell’operare; abbiamo preso l’abitudine di riunirci, anche spesso, forse anche troppo spesso, io so che qualcuno mi rimproverava il numero eccessivo di riunioni che si facevano, ma era il desiderio di dibattere su una serie di problemi, di difficoltà, di angosce, di disperazioni, delle quali non c’era l’abitudine di discutere e sulle quali non c’era l’abitudine di riflettere, perché erano il pianeta carcere, il mondo carcere, universo carcere, consegnato da sempre, da sempre, alla dimensione della separatezza, della ghettizzazione, della rimozione, quasi che in questo universo maledetto la gente volesse porre una sorta di distanza incolmabile, quasi per riaffermare, rimovendo i fantasmi e le paure dal proprio cuore, tutto ciò che di cattivo magari vedeva in sé e che riusciva a proiettare negli altri, per allontanare da sé quella dimensione alla quale riteneva di non appartenere; come le navi dei folli di cui parlava Foucault che navigavano all’infinito sul mare o sui fiumi senza mai approdare perché non ci fosse la contaminazione tra i folli delle navi e la gente normale per bene che stava sulle spiagge. Noi abbiamo discusso insieme e delle cose le abbiamo fatte, abbiamo fatto qualcosa che rimane, credo, come la riforma del ’90, ricordava giustamente Salvatore (Bosco), quella riforma che di un colpo ha colmato il gap che da sempre aveva staccato la polizia penitenziaria dagli altri corpi di polizia; merito del personale, merito delle organizzazioni sindacali perché è stata una battaglia collegiale merito di molti politici che hanno avuto la sensibilità di portare avanti questa battaglia di civiltà che ha dato status civile alla polizia penitenziaria, diritto di piena rappresentanza sindacale anche alla polizia penitenziaria e che ha, io ricordo il tempo, forse qualcuno tra voi la ricorda, il tempo della adeguata gratifica, l’elemosina che si dava agli agenti di polizia penitenziaria laddove gli agenti della polizia di stato prendevano lo straordinario come era giusto che fosse e quindi un gap che è stato colmato nel ’90, così, un atto di buona volontà, un atto di impegno politico e certo c’è ancora molto da fare, ricordava anche questo Salvatore, ma abbiamo fatto anche qualcosa di buono nell’universo carcere, proprio all’interno dell’ universo carcere; abbiamo portato avanti la legge Gozzini, con l’aiuto, prezioso, devo dire, della magistratura di sorveglianza, che saluto in Angelica di Giovanni, una magistratura con la quale spesso mi sono scontrato, devo dire, ma forse lo scontrarsi è stato un modo di ragionare insieme, di raggiungere insieme un qualche risultato positivo. I risultati non si ottengono quando si è tutti d’accordo, i risultati si ottengono quando una opinione si confronta con un’altra, anche in maniera aspra, in maniera polemica, in maniera dura, perché dal confronto di verità diverse viene fuori la verità che merita di essere portata avanti, la verità possibile per gli uomini, non ci sono verità assolute, che qualcuno possa presumere di sbandierare e di imporre agli altri, ma abbiamo, amici, io vorrei che ne foste consapevoli, perché questo è un vostro grande merito, abbiamo cominciato a dimostrate e voi ancora dimostrate, io spero dimostrerete sempre di più, che il carcere non è il luogo della disperazione, della incultura, il carcere può essere anche un luogo di cultura, un luogo di riflessione, un luogo di proposizione di idee, utili per una riforma complessiva della società.
Noi abbiamo posto alla base della riforma dell’universo carcerario quello che qualcuno ha chiamato il carcere della speranza, abbiamo posto una idea semplice, ma che nessuno aveva mai riconosciuto, l’idea che l’uomo del delitto e l’uomo della pena sono due uomini completamente diversi, che la storia dell’uomo che delinque non finisce con il processo e con la condanna al processo, questo era l’errore di prima, quello che considerava il carcere una sorta di spazzatura nella quale si buttavano, indiscriminatamente e indifferentemente, coloro che essendo stati raggiunti dalla condanna dei magistrati, avevano violato la legge e quindi meritavano di essere, come dire, stralciati dalla società civile. Noi abbiamo cercato di dimostrare, ce ne siamo convinti noi prima, ma abbiamo convinto anche gli altri, soprattutto i politici che hanno poi approvato la legge Gozzini e molte altre leggi di questo tipo, che la storia dell’uomo delinquente non finisce con la condanna, che l’uomo della pena può essere anche un uomo profondamente diverso dall’uomo del delitto, non necessariamente, certo, ma l’abilità, la capacità, la professionalità dell’operatore penitenziario è di favorire questo cambiamento in meglio dell’uomo della pena e capire quando questo cambiamento ha una serietà; io non mi illudo che tutti i grandi criminali, una volta dentro il carcere, se dichiarano di pentirsi sono pentiti e recuperati alla società civile, non sono così ingenuo, ma credo che noi, che voi, abbiate la capacità professionale di capire quando alle parole corrispondono i fatti. Abbiamo aperto all’interno del carcere, in ragione di questa filosofia nuova, semplice, l’uomo della pena non è necessariamente l’uomo del delitto, un dialogo, un dibattito, all’interno del carcere, con gli operatori penitenziari, con i detenuti. Io ricordo la prima volta che sono andato nel 1983 a San Vittore, quando dissi allora, all’allora direttore Cangemi (?), che tutti ricordiamo, “Direttore, riunisci i detenuti nella sala C.” Dice: “Ma come, scherza? i detenuti? ma c’è una circolare del direttore generale che lo proibisce.” “Benissimo, allora in questo momento ne faccio un’altra e cambio questa disposizione.”, ed abbiamo riunito i detenuti, abbiamo cominciato a parlare con i detenuti. Amici, io vorrei che voi foste orgogliosi di un risultato storico importante: la dissociazione politica dal terrorismo è maturata ed è nata nel carcere, dentro il carcere, dalla cultura che il carcere ha saputo esprimere (applausi). Il pentitismo può essere nato nelle caserme dei carabinieri, con tutto il rispetto per i carabinieri e per le loro caserme, ma certamente la dissociazione politica, che il Parlamento ha poi riconosciuto in una apposita legge, è nata nel carcere ed è stato un fenomeno di profondo rinnovamento culturale. Io ricordo che quando abbiamo cominciato a fare le aree omogenee in cui invitavamo i parlamentari, l’ onorevole Bernardini a venire dentro il carcere, invitavamo gli attori, i cantanti a venire a fare gli spettacoli dentro il carcere, in cui sembrava ad un certo momento, davvero, vi dico, senza alcuna enfasi, che il muro di cinta del carcere, pur rimanendo nella sua fisicità, nella sua oggettività, fosse in qualche modo superato da questo slancio di umanità profonda che legava l’interno del carcere con l’esterno del carcere, questo è l’obiettivo e era ed è stato l’obiettivo. Allora io ricordo che allora i magistrati che si occupavano del terrorismo, cominciando da Spataro, mi dicevano stai attento perché ti buggereranno. Io sono orgoglioso di dire, ma lo sono a nome di tutti voi orgoglioso di dire che nessuno di quei dissociati politici ha tradito la fiducia che noi abbiamo ragionevolmente e fondatamente concesso a loro.
E ricordo questo, vedete, qui vengo all’ultimo punto che voglio trattare , quando nell’ 83 io sono arrivato alla direzione generale, c’era l’antecedente del 41 bis che era l’articolo 90, ve lo ricordate, no? l’ articolo 90 che era la stessa cosa dell’articolo 41 bis, era cambiato il numero, la cifra, ma il contenuto era lo stesso era, diciamo, era il regime penitenziario restrittivo contro i terroristi e non contro i mafiosi, perché il 90 riguardava i terroristi, allora c’era le brigate rosse, il terrorismo di destra e quant’ altro, e io ricordo che, nel fare alcuni dibattiti televisivi, con alcuni autorevolissimi parlamentari anche dell’estrema sinistra, compresa la Rossana Rossanda, che io rispetto, ho stima e rispetto molto, perché è una persona molto intelligente, che io giudico molto leale e molto sincera nelle sue opinioni, mi si diceva: “Noi capiamo le ragioni per le quali l’amministrazione penitenziaria ritiene di dover ricorrere a questo strumento eccezionale, per frenare l’aggressività criminale dei terroristi, ma riteniamo,” questo disse la Rossanda, ma lo dissero tutti i parlamentari di sinistra, Peppino Gargani se lo ricorda molto bene, “ ma riteniamo che non è accettabile, per la nostra carta costituzionale, che uno strumento di reazione eccezionale diventi uno strumento di disciplina normale del sistema carcerario, ed era giusto, ed era giusto. Fatto sì è che una delle prime cose che facemmo, c’era allora il ministro Darida e poi Martinazzoli, fu l’abolizione, voi lo ricordate, dell’articolo 90 e dell’articolo 90 in forma aggravata, Peppino tu te lo ricordi bene, no? Bene, fino al 1982, c’erano stati una media di 32 o 33 omicidi all’interno del carcere, oltre alle evasioni, abbiamo soppresso l’articolo 90 e l’articolo 90 in forma aggravata, sono scomparsi gli omicidi e sono scomparse le evasioni, perché? Ma perché i politici di oggi, Onorevole Bernardini, perché i politici di oggi, che sanno di tutto, no? o perlomeno che parlano di tutto come se tutto sapessero (applausi), perché i politici di oggi ma anche molti magistrati di oggi, io vorrei dirlo a Paolo Mancuso, verso il quale, mi dispiace non sia presente, ho veramente una grandissima stima, perché nel 1983 non appena abbiamo soppresso l’articolo 90 e l’articolo 90 in forma aggravata, sono scomparse le violenze nel carcere, perché? Perché nessuno se lo chiede? Ma io ho una risposta, perché sono dieci anni che ci ho riflettuto, certo, grande merito va al personale penitenziario, il quale ha dimostrato che ci può essere una sorveglianza intelligente che non diventa una repressione brutale e ottusa, no? Quando la sorveglianza è gestita da persone professionalmente capaci, c’è una distinzione fra la repressione ottusa e la sorveglianza intelligente e quando manca la professionalità che la sorveglianza intelligente non è più possibile, non rimane che la repressione ottusa. Allora, merito quindi del personale, ma merito anche di un’altra cosa, amici, riflettiamoci, Paolo, vorrei che tu ci riflettessi, perché, lo dicevo prima, ho una grande stima verso di te, è stato il risultato di una consapevolezza culturale che ha riguardato il carcere, e che ha riguardato tutto l’apparato giudiziario e istituzionale dello Stato, la convinzione, cioè, amici, ed è qui il punto, ed è qui il punto essenziale, che il terrorismo non era un fenomeno esclusivamente criminale.
Il terrorismo era un fenomeno criminale, ma era un fenomeno criminale che nasceva da una base sociale ammalata e dunque non era immaginabile che il terrorismo potesse essere sconfitto soltanto attraverso il sacrificio delle forze dell’ordine e dei magistrati e quanti ne sono morti, quanti, e ancora li piangiamo, quanti ne sono morti? Bisogna capire, allora si capì che il terrorismo sarebbe stato sconfitto quando allo sforzo delle forze dell’ordine e dei magistrati si fosse unito la consapevolezza e l’impegno della classe politica e della società civile nel suo complesso, che bruciassero le radici sociali del terrorismo, lo sradicassero dall’humus sul quale era nato e sul quale prosperava. La mafia è esattamente la stessa cosa, Paolo, questo bisogna capire, la mafia è esattamente la stessa cosa, in questo paese che vive di parole, scusate, che vive di parole, che vive di slogan, la mafia non è un fenomeno esclusivamente criminale, questo è il punto. E’ un cancro spaventoso e osceno, che noi vorremmo vedere completamente sradicato, perchè ancora ricordiamo e piangiamo i magistrati come Chinnici (?), Falcone, Borsellino, e quanti agenti di polizia penitenziaria e direttori e operatori di polizia penitenziaria sono caduti nel corso di questi anni, ma la mafia non è un fenomeno esclusivamente criminale. Allora la mafia è un fenomeno che ha una radice, un radicamento nella parte malata della società e fino a quando non saremo riusciti a troncare definitivamente ogni rapporto tra mafia e istituzioni, tra mafia ed economia, fino a quando non saremo riusciti a introdurre nelle scuole del sud la cultura di valori nuovi, di valori civili nuovi, fino a quando non saremo riusciti, ma lo Stato può farlo, non può farlo né i magistrati , non può farlo il sistema carcerario, a fornire attraverso la disperazione, la fame, la miseria dei giovani del sud, manovalanza quasi gratis ai padroni della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta, fino a quando questo non sarà fatto la mafia non sarà estirpata, la mafia non sarà sconfitta. Non è immaginabile che si possa pensare, come pure si pensa, anche se non lo si dice, che basta arrestare tutti i mafiosi per distruggere la mafia, non è vero, non è vero, non è affatto vero questo, è una menzogna, è una menzogna, ma è una menzogna che ci sta rovinando da anni, che nasce dall’ignoranza, che nasce, Onorevole Bernardini, alcune volte dalla complicità, non dico a lei, sollecito (applausi), sollecito la sua attenzione su questo. Sollecito, mi perdoni, non vorrei, sollecito la sua attenzione su questo: nasce dalla complicità, nasce dalla volontà di far apparire, di far scaricare sugli altri la responsabilità del problema; e quindi vengo al 41 bis, Paolo, vengo al 41 bis. Tu ricordavi, io ero alla direzione generale quando hanno ammazzato Falcone, hanno ammazzato Borsellino, e io dissi allora, era ministro Martelli, che era giusto che ci fosse una reazione immediata e durissima anche da parte del sistema penitenziario, non si poteva rimanere indifferenti di fronte a quelle stragi vergognose, non si poteva rimanere indifferenti. Ma due anni dopo, quando poi lasciai la direzione generale, feci un rapporto al ministro Consu e gli dissi: “Caro ministro, abbiamo applicato questo strumento del 41 bis, abbiamo riaperto l’Asinara, Pianosa, e quant’altro come reazione immediata alla ferocia criminale della mafia, ma questo strumento eccezionale, come diceva Rossana quando si trattava dei terroristi non può diventare uno strumento ordinario di gestione del sistema carcerario”. Io sono contrario ad ogni legge di emergenza, ad ogni strumento di emergenza, ma no perché non creda che purtroppo alcune volte siano necessari, ma perché so che quando una società si rassegna all’emergenza, una società è sconfitta, quella società è sconfitta (applausi).
Ragionate su questo, io lo dico a voi, organizzazioni sindacali, che spesso siete, avete questo delicatissimo compito di collegamento tra le istituzioni e la società civile, come lo dico anche ai politici, lo dico ai magistrati, una società, uno Stato che si rassegna all’emergenza è uno Stato sconfitto, è uno Stato che dichiara la propria impotenza, che rinuncia ai propri caratteri di Stato di diritto per diventare uno Stato di polizia, che combatte la forza con la forza, dissi al ministro Consu: “Ministro, se dobbiamo accettare una cosa che io non sono disposto ad accettare, e vorrei che voi vi rifiutaste di accettarlo, che al carcere debba essere delegato il lavoro sporco, perché chiudere i detenuti nelle celle, buttare via la chiave, calpestare i principi costituzionali della rieducazione della pena, convertire la sorveglianza intelligente in una repressione ottusa significa esattamente questo, delegare, lasciare al carcere il lavoro sporco, e io questo non sono mai stato disposto a farlo e vorrei veramente che voi non foste disposti a farlo, per non rinnegare quella cultura che abbiamo cercato di costruire nel corso di questi anni”, ma dissi, “se davvero volete con il 41 bis troncare ogni collegamento fra i criminali all’interno e gli ambienti criminali all’esterno allora dovete avere il coraggio voi parlamentari non di ridurre i colloqui da quattro a tre, da quattro a due, ma di abolirli, perché se voi ne lasciate anche uno, quel colloquio serve ugualmente per trasmettere all’esterno qualunque messaggio criminale; il problema va posto su basi completamente diverse. Le basi per le quali la mafia deve essere combattuta sul suo terreno che è il terreno di questa oscena connessione tra criminalità e politica, tra criminalità e economia, tra criminalità e finanza”.
E finisco col dirvi questo: noi abbiamo una dimostrazione di quello che vi sto dicendo, noi abbiamo una dimostrazione ed è un fatto che è avvenuto nel 1987 e che voi conoscete tutti, il fatto di Porto Azzurro. ma, amici, io credo che fra le cose delle quali in qualche misura possiamo andare orgogliosi, ci possiamo ricordare con qualche soddisfazione, sia pure non dimenticando l’umiltà, che deve governare chiunque si occupi di problemi così complicati, Porto azzurro è stata la dimostrazione che dei detenuti pericolosissimi, che non avevano nulla da perdere, che avevano nelle loro mani 32 ostaggi tra cui una o più donne, a differenza di quanto avevano fatto nel ’74 ad Alessandria dove era finito con una strage, si sono arresi allo Stato, senza versare una goccia di sangue e perché si sono arresi? Anche questo dovremmo chiederci, amici, perché si sono arresi? Perché siamo stati bravi a convincerli, no, perché si sono arresi mentre i carabinieri circondavano Porto azzurro con gli elicotteri e la polizia sorvegliava gli spalti con i suoi uomini armati fino ai denti? Perché si sono arresi i detenuti? Si sono arresi perché noi gli abbiamo fatto, Cicciotti (?) e gli altri che stavano con me se ne ricorderanno bene, se ne ricorda il direttore che stava rinchiuso nelle mani di Tuti e nelle mani di Rossi (?), noi gli abbiamo detto soltanto una cosa, voi potete anche provocare una strage, potete farlo, perché noi l’elicottero non ve lo diamo, potete provocare una strage, ma quando voi avrete provocato una strage, quei passi avanti che abbiamo fatto sul recupero sociale, della umanizzazione della pena, torneranno indietro di alcune decine di anni, e voi di fronte ai vostri compagni di detenzione vi assumerete la responsabilità di questo passo indietro veramente terribile. Questo li ha convinti, il che dimostra che cosa, dimostra che una sola regola deve guidare chi dirige il carcere. E’ che non bisogna mai uccidere negli uomini la speranza. Io non so, amici, non so, che cosa è rimasto, che cosa rimane, di quel che insieme abbiamo fatto, quel che insieme magari possiamo amare di ricordare, forse non rimane nulla, non lo so, nulla se non un rimpianto, nulla se non una nostalgia, rivolta al passato, o forse qualcosa rimane, io voglio credere che qualcosa rimanga, non perché la cosa mi riguardi personalmente, ma perché vorrei che voi raccoglieste questo testimone e ne faceste la ragione del vostro impegno professionale, qualcosa rimane di quel che abbiamo fatto, qualcosa rimane sempre quando si fa qualcosa, e che cosa rimane? Rimane secondo me la convinzione, la fiducia, che non raramente l’utopia salva la speranza, perché quando si vola molto alto, quando si cerca di raggiungere risultati anche molto impegnativi alcune cose poi rimangono nelle nostre mani, l’utopia alcune volte salva la speranza, perché come diceva una antica massima, “gli innocenti non sapevano che la cosa era impossibile, e dunque la fecero.”

Fonte: http://associazioneradicalesatyagraha.blogspot.com/2009/04/intervento-di-nicolo-amato-al-convegno.html

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