La guerra nonviolenta. Azioni nonviolente nella lotta antimilitarista

19-01-2011 da “Notizie Radicali”

Il nostro compagno, militante e dirigente radicale Paolo Pietrosanti – che ci ha lasciato qualche giorno fa – tra le molte cose fatte nel corso della sua troppo breve vita – ha svolto anche un’intensa attività pubblicistica; e ha trovato il tempo, con Ivan Novelli, anche lui tra i fondatori della Lega per il Disarmo Unilaterale, di scrivere un libro, “La guerra nonviolenta. Azioni nonviolente nella lotta antimilitarista”, pubblicato da Gamma Libri, casa editrice che oggi non c’è più, e dalle cui ceneri è poi nata Kaos edizioni.
Il libro di Novelli e Pietrosanti è da tempo introvabile. Per questo, per ricordare il suo impegno abbiamo pensato di pubblicare qualche capitolo di quel suo prezioso e ancora attuale lavoro.

Nonviolenza. Cos’è nonviolenza; e – di conseguenza – cos’è la nonviolenza. Un’ideologia, una valigia piena di armi politiche, una religione, la paura del sangue o dei lividi. E cos’è questa parola, cosa rappresenta, giacché ha la presunzione di presentarsi come concetto positivo (il trattino di non-violenza è abolito da un pezzo), non più come omissione di violenza, come concetto che ha un senso solo se confrontato con quello opposto. Può esistere nonviolenza, nonviolento solo per assenza di violenza? E laddove è assente la violenza, si può parlare di nonviolenza, automaticamente?

Si è scritto molto anche nel nostro Paese su questi, in fondo, falsi problemi; molto. Ben poco si è fatto; ben poca nonviolenza è stata vissuta, praticata, al di fuori della tuttora vivissima presenza del Partito Radicale e di pochissime altre organizzazioni. E non interessa affatto versare righe di inchiostro sui massimi sistemi, sia pure delimitati dal negletto ambito dei nonviolenti e della nonviolenza politica.

Quello che è necessario, è comprendere non l’essenza della teoria, della presunta dottrina della nonviolenza, ma quello che con la nonviolenza, con il bagaglio della nonviolenza, si può fare, cambiare – e non si è fatto, cambiato. Il fatto cioè, che non si può essere nonviolenti perché lo si dice, ma perché la nonviolenza si vive; anzi, si fa. E allora, cosa significa fare nonviolenza?

La politica nonviolenta è in buona parte nella informazione di altri; nell’informare altri che nonviolenza si attua, si crea, e non – invece – che nonviolenza si può attuare o fare. Può esserci teoria della nonviolenza; l’analisi del fatto nonviolento; del fatto (participio) e del fatto da creare e costituire. Nel nostro Paese vivono e operano – ma non tanto – diversi gruppi di ispirazione nonviolenta. E se da parte di alcune di queste organizzazioni si sta ponendo in discussione proprio l’opzione nonviolenta di fondo, molte altre proseguono il loro cammino nello studio e nell’analisi della praticabilità del modello nonviolento – soprattutto gandhiano – in riferimento al mondo industrializzato occidentale. L’errore principale di questi gruppi, di queste organizzazioni, è proprio questo. Non è pensabile intendere l’azione, la mobilitazione, la campagna, l’iniziativa politica nonviolenta – ancora – come studio di un modello che si tenta di adattare alla realtà che ci è vicina, o in cui viviamo. Ci condanna all’insuccesso la scelta nonviolenta.

Ma ecco che partiamo anche noi – pur contestando questo approccio – da una “scelta nonviolenta”, precostituita. E diamo per scontato che questa opzione sia già stata assunta, a scatola chiusa. Non è un problema di linguaggio; è necessario essere davvero ogni giorno consapevoli che si p nonviolenti perché si opera ogni giorno in tal senso. E il presupposto della nonviolenza è la corretta analisi della realtà e della storia.

Non ci si può attendere un roseto piantando gramigna; l’albero dipende dal seme. Lo ha detto con molta efficacia Mohandas Gandhi. Ma queste posizioni e questi concetti sono validi perché pronunciati a più riprese da uno dei più grandi politici del nostro secolo o perché sono inoppugnabili dal punto di vista botanico? E – metafore quali sono – nel campo della iniziativa e del confronto politico sono validi perché espressi dalla Grande Anima, o perché dimostrati da numerosi secoli di storia e dalla vita quotidiana? E’ un esempio; come potrebbero svolgersene altri.

Il pensiero dei nonviolenti è quasi interamente patrimonio di prove accumulate, prove della efficacia, più che della validità della metodologia nonviolenta. E mai pensiero si è così identificato con l’azione. E’ ovvio che non contestiamo la componente morale ed etica, o anche ideologica, della scelta nonviolenta di molti. Ma siamo assolutamente convinti che la forza politica della scelta nonviolenta possa derivare soprattutto dalla dimostrazione dell’efficacia del metodo nonviolento.

Il nonviolento non risponde con un calcio o con un pugno alla manganellata di un soldato o di un agente, anche se probabilmente il primo istinto è quello di indirizzare con precisione un calcio nella zona corporea che si presume più debole di colui che si ha di fronte. Perché? Ci abbiamo mai pensato? Se restituissimo una percossa a chi ci percuote, questi tornerebbe a picchiarci, e lo farebbe a ragione. E’ tutto qui. Nella semplicità della più banale e antica delle considerazioni. Invece, quante volte noi nonviolenti, convinti di esserlo, ci siamo astenuti dall’offendere fisicamente per il semplice fatto di ritenere di essere nonviolenti? Poiché siamo nonviolenti, poiché ieri lo ero, poiché aderisco a questo o quello dei gruppi nonviolenti, non ti do una martellata. Perché sono nonviolento, non perché la mia martellata ti legittimerebbe a restituirmi almeno un pugno sul naso.

Tutto ciò è assolutamente rivoluzionario, oltre che assolutamente semplice e ampiamente scontato. E’ scontato quando ci pensiamo, ma troppo spesso non ci pensiamo. E allora la nonviolenza, anche a impercettibili passi – ma quotidiani – rischia di divenire per ognuno dei nonviolenti un’abitudine, un costume di vita non giustificato da altro se non dall’essere stati nonviolenti il giorno prima.

Il dichiarare che i mezzi sono omogenei ai fini cui si tende; che non si possono rincorrere obiettivi politici senza cominciare a comportarsi come se tali obiettivi fossero stati raggiunti, è assolutamente rivoluzionario. Rende radicalmente sovvertibili gli schemi sociali vigenti da secoli. Ma l’omogeneità dei mezzi e dei fini, la dipendenza dei fini dai mezzi è una constatazione, non una enunciazione di principi, la cui giustezza non è onestamente confutabile (le rose, la gramigna). Non è mai successo che da una insurrezione violenta, da una guerra sia sortita una situazione migliore della non belligeranza. La seconda guerra mondiale ha estirpato dall’Europa il fascismo, il nazismo, le odiose dittature che stavano espandendosi. Ma ha consentito lo stabilizzarsi di una organizzazione dittatoriale più vasta e non meno pericolosa – quella sovietica – e un sistema planetario che non ha altra possibilità di reggersi e di mantenersi se non direttamente sulla quotidiana perdita della vita da parte di decine di migliaia di abitanti della Terra.

Eppoi, una situazione di non belligeranza conquistata con l’uso della fionda o a suon di megatoni, può essere mantenuta in altro modo se non lubrificando le fionde e aumentando i megatoni disponibili, perfezionandone l’efficacia? E’ un esempio – anche questo – banale, o almeno banalmente esposto. Ma quello che tentiamo di dimostrare è che quanto ogni essere umano vorrebbe costituire – l’assenza di conflitti armati, di omicidi, una società nonviolenta – non è perseguibile se non con metodi disarmati, non omicidi,nonviolenti. Questo è logico, e dimostrato dalla storia senza possibilità alcuna di smentita. La violenza non è solo deprecabile in sé; non può consentire il raggiungimento di quanto ci prefiggiamo di raggiungere.

“E’ possibile vincere la violenza con la violenza? La questione in realtà ne nasconde due molto diverse. La prima è di ordine empirico: quale probabilità c’è che un’organizzazione di refrattari, uomini liberi e pienamente coscienti dello scopo da raggiungere, disponga delle armi, dell’equipaggiamento, delle capacità tecniche per affrontare gli attuali padroni del mondo con una ragionevole prospettiva di successo? Ma la questione decisiva è l’altra: anche supponendo che si riesca ad inquadrare le masse (ribelli, oppure repentinamente convertite a un ideale altamente illuminato delle società e delle civiltà), a strappare la bomba atomica ai suoi attuali detentori, infine impegnare la battaglia, è seriamente credibile che si possa evitare una ricaduta, in circostanze quanto si voglia “rivoluzionarie”, in quelle abitudini barbare, in quegli eccessi della volontà di potenza, e infine nella divisione fra un gregge docile e dei capi imperiosi che l’impiego organizzato della violenza inesorabilmente genera?”*

Siamo convinti che la violenza sia deprecabile, insopportabile, che da ogni fattispecie di violenza ci si debba astenere senza esitazione. Ma p fuor di dubbio che non riusciremo mai a cambiar questo pianeta proponendo la rinuncia alla violenza perché bisogna essere nonviolenti, perché ciò è più consono alla caratteristica umana di godere di una intelligenza elevata; perché l’uso della violenza è deprecabile. Invece ciò potrebbe essere possibile dimostrando, continuando con più forza a dimostrare che almeno senza violenza (se non proprio con la nonviolenza) è possibile quanto meno inibire la recrudescenza della violenza altrui. Sono fatti. Ed è l’opposto della mentalità un po’ settaria che pure è presente, se non addirittura radicata tra molti nonviolenti “puri”.

Approdare alla nonviolenza, proporre un tale approdo significa proporre un metodo che più di ogni altro è in grado di recare tutti al raggiungimento degli obiettivi fissati, non un modo meno avvilente di esistere.

La vertenza nonviolenta (ma poi arriveremo più compiutamente anche a questo) deve impostarsi in modo che la controparte sia posta in condizioni di dover scegliere il male minore, di capire che è per essa conveniente aderire alle richieste che le vengono formulate, o meglio agli ultimatum che le vengono imposti.

Altrimenti, l’abbiamo detto, si rimane in minoranza perché alla minoranza si è indissolubilmente legati, e definitivamente. Manca la prospettiva di uscita dalla ristrettezza quantitativa. Non v’è dubbio che è più semplice e agevole comunicare l’essenza della prassi nonviolenta piuttosto che ingrossare le fila degli adepti alla nonviolenza – che sarebbe per giunta un esercizio del tutto vano. E’ proprio sulla comunicazione e sulla dimostrazione della efficacia di un mezzo politico che è possibile conseguire consenso. Sulla efficacia di un mezzo; e che poi tale mezzo possa essere collegato a dimensioni ben più complessive di gestione individuale o collettiva dell’esistenza è – giustamente – un’altra questione.

Svincolare (nella organizzazione politica anche di enormi campagne) la nonviolenza dell’armamentario trascendente o filosofico morale, consente di porre con esattezza a fuoco il concetto di forza, cessando di confonderlo con quello di violenza. E anche qui ci affidiamo a null’altro che al ragionamento, alla semplicità delle cose, all’esperienza della nonviolenza praticata.

Rischiamo troppo spesso di confonderci; più volte evitiamo di intraprendere una campagna perché i toni che necessariamente vanno impressi alla stessa sono duri, o comunque in grado di colpire con durezza almeno alcuni degli interlocutori con cui abbiamo a che fare. Quindi con il rischio di venire travisati nel nostro operare. Ed è indubbio che porre a se stessi problemi di questo tipo rientra nella logica della iniziativa politica nonviolenta, nella ricerca indispensabile del metodo più adatto, vincente, complessivamente più forte. E in questa logica è giusto (ma meglio, è ovviamente necessario) muoversi. (E’ proprio qui l’essenza totalmente rivoluzionaria dell’esperienza nonviolenta: nell’aver colto l’importanza fondamentale di quello che si pone in essere per raggiungere l’obiettivo; quali presupposti consentono la scelta di una via piuttosto che di un’altra. Insomma, l’aver dato la medesima rilevanza politica al come e al che si fa per raggiungere lo scopo; e ciò raddoppiando indubbiamente il lavoro di preparazione della campagna che si sta per lanciare).

La forza, dunque, dicevamo. Quando le maestranze di un’azienda incrociano le braccia, senza distruggere nulla, e con lo sciopero impongono che le loro richieste vengano rispettare: sono più forti della loro controparte. Quando, nell’hartal gandhiano i governanti illegittimi si trovano ad avere a che fare con intere città morte, deserte per intere giornate; con i servizi paralizzati, con l’impossibilità anche solo di comunicare, se non utilizzando gli uomini delle Forze Armate. Quando un Ministro della Difesa si trova a dover scegliere tra l’accogliere la richiesta della immediata chiusura del lager militare di Gaeta e il veder circolare giorno e notte davanti al suo ministero alcuni antimilitaristi della Lega per il Disarmo Unilaterale, forti di campagne in tale direzione e del consenso di decine di migliaia di cittadini e di decine di parlamentari; e il Ministro della Difesa sceglie di chiudere il lager: gli antimilitaristi nonviolenti, i cittadini che tali metodi utilizzano e creano, sono più forti del ministro della Difesa, degli apparati repressivi militari. Più forti, appunto.

Ciò che consente di vincere – con il convincere, ovviamente – una vertenza utilizzando una metodologia nonviolenta è il medesimo tipo di forza che è in grado di amplificare il consenso e la conoscenza dell’iniziativa in corso. Il medesimo tipo di forza. Che significa? E torniamo al problema di prima, alla paura di essere forti, nel senso di essere utilizzare una eccessiva durezza che potrebbe allontanare consensi per mancanza di comprensione immediata.

Non ha senso paventare un “i tempi non sono ancora maturi”, un “non saremmo compresi”, nell’ipotizzare la condizione di una specifica campagna nonviolenta; e attendere che quel tipo di iniziativa sia adeguato al momento politico. Non ha alcun senso. E scegliere con questo metro, con questa consequenzialità, può essere addirittura suicida. Non è possibile partire dalla individuazione di un metodo teoricamente efficace attendendo il momento, le condizioni più adatte.

E’ questo l’errore storico dei nonviolenti italiani, la condanna alla perenne testimonianza. Errore che discende in via diretta dall’intendere la nonviolenza come eredità non in grado di evolversi nel suo complesso. L’approccio, il meccanismo è opposto. L’azione nonviolenta non può essere svincolata dalle leggi della politica, che sono leggi di convivenza, di confronto democratico, di scontro (Leggi che oltretutto sta agli stessi nonviolenti modificare e sovvertire).

E’ quindi dall’analisi della situazione che occorre partire; da quello che ci circonda, dalle esigenze più vere dei nostri concittadini. E creare su questa base la campagna – il mezzo, appunto – più efficace. Non esiste alcuna situazione di ingiustizia – sia o meno palese – che non possa essere affrontata ora, nell’immediato, dall’iniziativa nonviolenta. Perché il bagaglio della nonviolenza è infinito: non dipende dai manuali; non è un arsenale limitato. Dipende dalla fantasia di chi l’ingiustizia o l’entità da combattere individua. E la nonviolenza sortisce dalla combinata attenzione a tutti i fattori in gioco. La scelta del metodo è una conseguenza; può essere il medesimo già utilizzato in altre occasioni, può essere creato..

La raccolta organica delle tecniche in un “metodo” non vuol dire affatto che sia escluso l’apporto di nuove ideazioni, di esempi e proposte di modi non pesanti prima. Il metodo è una presa di coscienza e una sistemazione indubbiamente utile dal punto di vista teorico e anche dal punto di vista educativo e pratico, ma guai se dovesse spengere la creatività di nuovi modi, proprio in determinate situazioni…Non si insisterà mai abbastanza, specialmente in presenza di mentalità superficialmente legalistiche, farisaiche, intimamente indifferenti, che la nonviolenza è affidata di continuo impegno pratico, alla creatività, al fare qualche cosa, se non si può fare tutto, purché ogni giorno si faccia qualche passo in avanti. La nonviolenza è affidata a un metodo che è aperto in quanto accoglie e perfeziona sempre i suoi modi, ed è sperimentale perché saggia le circostanze determinate di una situazione” (2).“Gandhi”, ha scritto Massimo Di Forti sul “Messaggero” del 12 aprile 1983 in un lungo articolo, “è stato il poeta dell’Azione. Poiesis non significava, in origine, “fare”? La verità – non si è mai stancato di ripetere Gandhi – non può essere l’enunciazione astratta di un principio, ma “ci viene incontro nell’azione”. Con lui, e a partire da lui, l’azione politica si trasforma in un evento poetico capace di infiammare i cuori di milioni di persone e una manciata di sale, raccolta in fondo al mare per violare una legge iniqua, può mettere in ginocchio un impero”.

Per tornare, più direttamente, a quanto dicevamo: non è errato organizzare una specifica campagna nonviolenta in un certo momento storico “non adatto” o “non maturo”; è errato, invece, porre in essere quella campagna piuttosto che una di altro tipo, di altre dimensioni, con diversi obiettivi immediati. Altrimenti si rinuncia a determinare noi l’iniziativa politica; e si precipita nell’errore gigantesco di considerarci non più che marginali e accessori rispetto alla Politica “vera e propria”.

Quello che ci siamo proposti di dimostrare è che i presupposti della scelta nonviolenta sono specificatamente politici; e che l’unico modo per rendere universale la nonviolenza (le speranze della nonviolenza) è renderla comprensibile e praticabile per tutti, senza riti iniziativi, senza diplomi e lauree in gandhiologia.

Jean-Marie Muller scrive : « Gandhi, che ha tanto insistito sull’importanza di sottomettersi a una disciplina e a un’ascesi personali rigorose per tendere verso un’autentica nonviolenza, sapeva molto bene che non poteva pretendere ciò da tutti i partecipanti a un’azione di massa. Riferendosi all’organizzazione (pressoché) perfetta e alla riuscita esemplare della Marcia del Sale, cui parteciparono migliaia di indiani senza essere pertanto liberati da ogni odio, da ogni collera nel loro comportamento quotidiano. Gandhi scriveva: “La loro fiducia nella nonviolenza era superficiale, la loro fiducia nei leaders era profonda”. Sottolineiamo che queste note di Gandhi dimostrano la falsità di certe presentazioni della nonviolenza, che d’altronde si riferiscono contraddittoriamente a Gandhi, e che lasciano intendere che gli oppressi devono prima di tutto convertisti a una vita interiore esemplare prima di pretendere di partecipare a delle azioni nonviolente. Questa visione, che fa della conversione spirituale degli oppressi una condizione preliminare per la loro liberazione temporale, si inserisce nella prospettiva di un idealismo assai pregiudizievole alla nonviolenza” (3).

Non possiamo permetterci di aspettare un momento migliore, il consenso costituito, o il momento adatto per la nonviolenza. Perché non esiste. Se non ritenessimo possibile in ogni momento trovare il modo giusto per opporci a una situazione negativa, a un sopruso, saremmo conseguentemente costretti a pensare che il metodo per combatterli comprende in generale anche la scelta politica di consentire, inerti, la continuazione del sopruso medesimo, almeno per un certo periodo di tempo.

”Senza una diretta e attiva espressione di essa, la nonviolenza per me è priva di significato. Essa è la più grande e attiva forza del mondo. Non si può essere nonviolenti passivamente” (4). Sono parole di Mohandas Gandhi dall’evidente significato. La nonviolenza esiste soltanto se è diretta e attiva espressione pubblica e politica, azione, spiegamento di forza.

E sarebbe il caso che molti nonviolenti se ne convincessero fino in fondo cessando un uso delle semplici parole della Grande Anima di tipo esclusivamente speculativo o sovente opposto al loro vero significato. Gandhi ha lasciato un patrimonio di lotta; soprattutto un modo rivoluzionario di intendere l’uso della forza. Nonviolenza come “legge della razza umana, infinitamente più grande e più potente della forza bruta”. Qualcosa che consente di divenire più forti dei nostri interlocutori, una legge terrena e umana per gestire i confronti politici.

E’ dalla individuazione dell’ambito politico esistente che può trarsi il mezzo nonviolento più efficace: in ogni momento è possibile scoprire e inventare lo strumento di lotta adatto. Altrimenti non vi sarebbe obiezione, disobbedienza come quotidianità politica e saremmo costretti a dimenticare il discorso sulla disobbedienza civile di H.D.Thoreau: “Le leggi ingiuste esistono: saremmo felici di obbedirvi? O tenteremo di emendarle, e nel frattempo obbediremo – fintantoché non avremmo avuto successo? O piuttosto non le trasgrediremo subito, e all’improvviso?”.

Concludendo il convegno teorico del Partito Radicale, che si tenne a Roma nell’aprile 1978, Marco Pannella sottolineava la necessità e il dovere di recuperare il significato della teoria, la nozione della parola teoria. Teoria di fatti; teoria come successione di cose (“Una lunga teoria di formiche che camminano”).

E’ il senso delle pagine che seguono, queste. Un racconto di come successione di esperienze, trasmissione di teoria nonviolenza, dell’agire politico nonviolento; esperienze e fatti legati al momento storico in cui sono state prodotte.

La teoria nonviolenta che diviene sperimentazione quotidiana non di un modello precostituito e stabile, ma ampliamento delle esperienze compiute. Quando alla teoria non si aggiungono altri elementi, altre “formiche”, questa finisce, muore. E “l’episodio” politico nonviolento, l’iniziativa compiuta, la vertenza chiusa ha immediatamente bisogno di qualche altra cosa che la segua; nuova nonviolenza, nuova iniziativa politica.

Gandhi parlava di esperimenti con la verità, sottolineando: “Non rivendico loro nulla più di quello che rivendica uno scienziato il quale, pur conducendo i suoi esperimenti con la massima cura, previdenza e meticolosità, non attribuisce alle sue conclusioni alcun carattere definitivo, ma ha la mente libera nei loro confronti” (5).

2) A.Capitini, “Le tecniche della nonviolenza”, Milano 1967.
3) J.M.Muller, “Strategia della nonviolenza”, Venezia 1975.
4) M.K.Gandhi, “Teoria e pratica della nonviolenza”, a cura di G.Pontara, Torino, 1973.
5) Cit. nell’articolo di Massimo Di Forti, su “Il Messaggero” del 12 aprile 1983

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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=3250

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