Andare o restare, il dilemma antico del fine vita
Possiamo scegliere quando morire? Sant’Agostino, in linea col pensiero cristiano, considerava l’esistenza un dono. Ed è vero che, anche al di là della religione, noi non ci apparteniamo fino in fondo. Per questo preferire un addio dignitoso all’accanimento non è superbia ma accettazione dei nostri limiti. Non si tratta di rinunciare a resistere senza lottare quanto di assumere, di fronte all’inesorabilità della malattia, il sentimento umanissimo della resa
In Italia il tema dell’eutanasia è un tabù. Impossibile ragionarci senza che il richiamo all’ideologia ottunda ogni forma di pensiero libero. Eppure l’interrogativo che esso pone è chiaro, impellente e inaggirabile: è giusto che la vita umana decida di porre fine a sofferenze che non è più in grado di sopportare e che non comportano nessuna speranza? Riconoscere questa giustizia — riconoscere il diritto a una morte giusta e degna — cancella fatalmente ogni debito verso coloro o colui — Dio, in una prospettiva religiosa — che ci ha donato la vita? È vero: io non sono padrone della mia vita, né del mio corpo: non ho scelto di vivere, non ho voluto questo corpo, non ho deciso la classe sociale di appartenenza, il colore della mia pelle. La vita viene alla vita — come ci ha spiegato bene l’esistenzialismo filosofico — gettata nel mondo in una condizione di spossessamento: nessuno di noi è un ens causa sui, nessuno di noi è causa della propria vita. La vita viene sempre dall’Altro. Ma la constatazione ontologica che la mia vita non è padrona della sua origine può suffragare il rifiuto di donare la morte a vite straziate e piegate da malattie che non lasciano speranza alcuna? Da vite che hanno perduto ormai qualunque forma di libertà? La vita che ciascuno di noi non ha scelto, ma che ha ereditato dall’Altro — come un dono ( Sant’Agostino) o come una colpa (Schopenhauer ) — ha il diritto di porre fine a se stessa di fronte a dolori insopportabili che escludono ogni possibilità di miglioramento oltre che di guarigione? Quando si parla di autodeterminazione si evoca un principio etico sufficiente ad attribuire il diritto di una vita a scegliere liberamente di poter morire?
Proviamo a prendere le cose da tutt’altra prospettiva rispetto a quella a cui ci ha abituato il dibattito nostrano pro o contro eutanasia. La psicoanalisi insegna che la vita che si ammala e diventa sterile, asfittica, spenta, è la vita eccessivamente attaccata a se stessa. È l’attaccamento all’Io — l’impossibilità di decentrarsi da noi stessi — a costituire il principale motivo che causa la sofferenza psichica. Non possiamo provare a trarre da questo principio cardine della psicoanalisi un insegnamento esistenziale più ampio? L’attaccamento eccessivo alla vita può essere una forma di distruzione della vita? L’accanimento della vita a prolungare comunque se stessa a qualunque condizione nell’illusione di evitare l’appuntamento con la morte non può rivelarsi come una forma estrema di narcisismo? Cosa ci appare più umano, più ricco, più generativo? Donare la morte a una vita che è stata inghiottita dall’insensatezza del dolore senza speranza o accanirsi per mantenere in vita una vita che non ha più la dignità di essere tale, privata persino della libertà di lasciarsi morire? Due termini della teologia di Dietrich Bonhoeffer ci vengono in aiuto: sono quelli di resistenza e resa. La vita è innanzitutto resistenza alla morte, alla distruzione, al Male. È la parola chiave di Gesù che risuona in Freud, il quale, anche personalmente, diede una grande prova etica di questa resistenza convivendo con un tumore alla mascella che lo costrinse a subire dolori atroci per vent’anni obbligandolo a sottoporsi a una serie infinita di operazioni chirurgiche sino alla fine dei suoi giorni.
Ma, come accadde a Freud, esiste un punto in cui la resistenza della vita può apparire segno di arroganza e di negazione del limite. Anche il potere della tecnica che orienta il discorso medico dovrebbe essere in grado di accettare che la vita debba incontrare prima o poi il tempo della sua resa. È allora l’esperienza della resa il tabù che si nasconde dietro il rifiuto della eutanasia? Darsi o dare la morte quando la vita incontra un muro invalicabile — quello di una malattia mortale che ha demolito ogni capacità di resistenza della vita o quello di un coma irreversibile che ha cancellato ogni sua consapevolezza — non è mai fuggire il limite, ma assumerlo. E segno di prepotenza riconoscere la nostra fragilità o esigere la continuazione della vita ad ogni costo? Lo ricorda una scena decisiva di Million dollar baby di Clint Eastwood. Una campionessa di pugilato ( Maggie ) è stata ridotta da un colpo-killer subito nel suo ultimo combattimento a vivere completamente paralizzata, alimentata da una macchina. Di fronte al rifiuto di Maggie di vivere una vita che non assomiglia più alla vita che aveva amato, il suo allenatore, Frankie, decide— agendo anche contro la Legge — di donarle la morte. Dov’è qui l’arroganza, la decisione arbitraria, il narcisismo dell’Io che si vuole padrone di se stesso? È del gesto amorevole di Frankie che vuole risparmiare a Maggie una sofferenza tanto atroce quanto inutile o nella cecità della Legge che proibisce questo gesto? Il diritto laico all’autodeterminazione non implica alcun delirio di autoaffermazione. La vita non è nostra, non ne siamo i padroni, non la governiamo; essa ci sfugge da tutte le parti. Tutti gli esseri umani sono sovrastati, esposti a questa eccedenza ingovernabile. Freud lo diceva chiaramente: la malattia e la morte del nostro corpo scardinano ogni illusione di padronanza. Nel donare la morte attraverso l’eutanasia non si tratta di rinunciare a resistere, ma di assumere, di fronte alla inesorabilità irreversibile della malattia, il sentimento della resa, di fare spazio alla nostra insufficienza. È infatti, il sentimento della resa, assai più di quello euforico della vittoria, a rendere la nostra vita profondamente umana.
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