La Calabria, come L’Aquila, paradigma del "Caso Italia"
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Rischio idrogeologico e rischio sismico.
Dopo qualche pioggia la Calabria è sotto al fango. S’intrecciano le responsabilità della partitocrazia per una dissennata gestione del territorio, per la mancata prevenzione, con la cultura dell’illegalità, dell’abusivismo edilizio e del semi abusivismo, parzialmente sanato dai numerosi condoni o concesso da amministrazioni in spregio di vincoli naturali ed urbanistici di livello sovra-comunale. S’intrecciano, in Calabria, con la mancata tutela dell’ambiente, con l’avvelenamento dei suoli e delle acque ad opera di ecomafie e lobbies affaristiche senza scrupoli.
Nel paese delle fatalità, delle catastrofi naturali, la parola prevenzione è ancora però un’eccezione. Riparare i danni costa in media 10 volte in più che prevenirli. Ma il business della ricostruzione frutta tanto, troppo. Quindi avanti per questa strada.
Sono 5.596 su 8.101 i comuni italiani interessati da frane (pari al 69%). Questo il quadro emerso dal Rapporto sulle frane in Italia, realizzato da APAT, Regioni e Province Autonome e presentato a Roma nel novembre del 2007, nell’ambito del Progetto IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia), dal Commissario Straordinario dell’APAT Avv. Giancarlo Viglione, alla presenza dell’allora Ministro dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare Alfonso Pecoraro Scanio.
Il rapporto, sulla base dei risultati del progetto-inventario, mette a fuoco lo stato del dissesto sia su scala nazionale e sia su quella regionale confermando un quadro preoccupante di una nazione fortemente esposta al dissesto, censendo quasi 470.000 frane per un totale di circa 20.000 km2, con un indice di franosità pari al 6,6% dell’intero territorio nazionale. Un numero così elevato di fenomeni franosi è legato principalmente all’assetto morfologico del nostro paese, per circa il 75% costituito da territorio montano – collinare e alle caratteristiche meccaniche delle rocce affioranti. Ma non meno importante è il ruolo svolto dall’uomo che si è insediato ovunque anche dove era poco consigliabile, sulle frane e lungo i corsi d’acqua. Negli ultimi 50 anni le vittime per frana ammontano a 2.552, più di 4 vittime al mese. Un intero paesino è come se fosse stato cancellato dall’Italia. Una strage o, se preferiamo, anche questo, come l’amianto, un serial killer.
Alcune notizie rischiano di passare inosservate (e comunque poco approfondite) e spariscono poi nei meandri della rete.
Nel documento che i Radicali hanno voluto chiamare “La Peste italiana” e con cui si sono presentati alle europee, vi è un intero capitolo dedicato al rapporto esistente tra partitocrazia, dissesto idrogeologico e distruzione sistematica dell’ambiente. Un capitolo che va riaperto durante il prossimo congresso soprattutto nell'ottica di quella che qualcuno chiama "costituente" ecologista.
“Le case polverizzate dal terremoto in Abruzzo, sotto le quali muoiono 300 persone, dopo quelle dei terremoti immediatamente precedenti di Assisi (Umbria) e di San Giuliano di Puglia (Molise) ci consegnano l’immagine emblematica di un paese incapace a governare la fragilità del suo territorio, sismico al 75%, su cui insistono almeno 80mila edifici pubblici da consolidare, 22mila scuole in zone a rischio, di cui ben 9mila prive di basilari criteri di sicurezza”.
“Un problema,” - si leggeva nella Peste - “quello della vulnerabilità degli edifici, che non riguarda solo quelli storici o quelli pubblici, ma i milioni di vani dell’edilizia residenziale post-bellica, priva di qualità e non antisismica, costruiti nel corso dell’immensa e irresponsabile espansione urbana che ha invaso l’Italia negli ultimi sessant’anni, in gran parte ignorando le norme antisismiche. Eppure, dei 60 milioni di italiani, oltre la metà oggi vive in aree soggette ad alluvioni, frane e smottamenti, terremoti, fenomeni vulcanici. Almeno il 60 per cento dei comuni italiani è a rischio idrogeologico molto elevato, mentre il 67% si trova in zona sismiche”.
E ancora, facendo riferimento ai dati dell’agenzia europea per l’ambiente: “Terremoti, fenomeni vulcanici, frane e alluvioni, dal 1998 si stanno verificando con una frequenza tale, da rendere il nostro Paese tra quelli a più alto rischio di catastrofi ambientali. Oggi il 38% delle vittime di alluvioni in Europa sono italiane, con gravi costi - non solo in termini di vite umane - per la collettività nazionale”.
Con queste descrizioni si delineavano i problemi del rischio sismico e della vulnerabilità degli edifici e si aggiungeva, per il rischio idrogeologico, un apposito capitolo sulla “dissennata gestione del territorio” attuata con l’idea che tutto possa essere urbanizzato, ponendo il tema politico di una normativa “capace di affrontare il tema della prevenzione” dai rischi.
Poi, il Comitato Nazionale di Radicali Italiani del 2, 3 e 4 luglio 2010 si è riunito proprio all’Aquila, in Abruzzo.
L’idea di Mario Staderini, Diego Galli e degli altri compagni di svolgere quel comitato a L’Aquila e ad Ovindoli è stata un’idea a cui tutti noi dobbiamo, come Radicali, un ringraziamento.
Perché è stata un’occasione vera per porre all’attenzione, dei media nazionali, oltreché degli ascoltatori di radio radicale, i problemi non solo aquilani, non solo campani, friulani o calabresi, ma italiani: il dissesto idrogeologico ed il rischio sismico del nostro paese.
Nell’ottica che questi problemi riguardino sempre più l’azione politica futura dei Radicali, il presente contributo vuole porsi, come piccola goccia nel mare della Peste italiana, nell’elaborazione delle nostre strategie e delle nostre future azioni politiche e rendere la specificità del problema per una terra ballerina e sfasciume pendulo sul mare come la Calabria.
All’Aquila, quindi, perché lì s’intrecciavano temi quali “il dissesto idrogeologico e le mancate opere di prevenzione, la questione della legalità che diviene questione di vita o di morte, l’estensione della gestione emergenziale e il suo ruolo nel modificare l’assetto istituzionale, il funzionamento della giustizia, la presenza di forme organizzate di rivolta nonviolenta prive di sbocchi istituzionali e politici, l’assenza dell’opposizione”. E perché lì – come aveva affermato il Sindaco Massimo Cialente - “Il regime delle censura e della disinformazione sta facendo sprofondare L’Aquila nel dimenticatoio”.
Perché a L’Aquila “ad oltre 14 mesi dalla tragedia che ha colpito la Città dell’Aquila, la più grave degli ultimi cento anni in Italia, l’attenzione del Paese, attraversato da tanti gravi problemi, sta scemando, nonostante la straordinaria prova di solidarietà che abbiamo ricevuto da tutti gli italiani”.
Ma c’era anche un altro motivo per andare a L’Aquila: ed era la convinzione che quanto avvenuto su quel territorio rappresentasse un “tragico esempio” della sessantennale distruzione, nel nostro Paese, della democrazia e dello Stato di diritto.
I Radicali Italiani hanno voluto svolgere il loro comitato a L’Aquila innanzitutto per cercare di dare voce, con i mezzi della radio radicale, alle priorità aquilane che sembravano essere state censurate dai media. Tanti cittadini aquilani erano stati infatti costretti a venire a Roma per farsi sentire dalla politica.
Ma, volendo scegliere un’altro esempio proprio come l’aquila, si sarebbe potuto scegliere anche una Regione come la Calabria dove i terremoti del 1905 e del 1908 – assai distruttivi – sono soltanto gli ultimi esempi di una lunga schiera di eventi sismici di elevata intensità che nel passato l’hanno devastata.
“Nel caos di uno Stato che non è più di diritto e di una democrazia che è anti democrazia ... il calcolo era questo: gli eventi ci nono sempre. Da allora un tentativo è stato chiaro: quello che tutti i problemi relativi alla sicurezza, eventi sportivi, eventi sociali diventassero, tutti, gestibili dalla Protezione Civile (meglio se spa) e quindi la possibilità di togliere, sottrarre, alla gestione dello Stato, eventi di gravità certa”.
Un’esperienza che, come Radicali, ci diede e ci potrà dare ancora, se sapremo porvi adeguata rilevanza, la possibilità di dare un messaggio simbolico chiaro: questo stato di cose è il segno della sessantennale distruzione della legalità da parte della partitocrazia, è dovuto al mal governo del territorio e non al fato di catastrofi naturali. A quel comitato aveva partecipato anche Nicola Tulo, presidente dell’Ordine dei Geologi della Regione Abruzzo, che presentò una sua specifica relazione che, anche per i non addetti ai lavori, suonava come un grido di allarme per L’Aquila e per l’intero Paese.
“Una relazione - come lo stesso Nicola Tullo definì - su quello che è oggi la situazione del rischio idrogeologico e del rischio sismico in Italia”.
Due problemi che riguardano l’Italia tutta, da nord a sud. Secondi solo a Cina, Giappone e paesi del Sud America.
Due emergenze che hanno un costo elevatissimo. Un prezzo - in termini di vite umane e di costi per la collettività - che, purtroppo, continua inesorabilmente ad aumentare a causa del continuo, progressivo e dissennato aumento dell’urbanizzazione selvaggia, sregolata da piani urbanistici fatti per fabbricare consenso e del consumo di suolo da parte dell’uomo, in modo troppo spesso non attento agli equilibri idrogeologici.
Solo per citare alcuni passaggi di quella relazione ricordo la parte in cui, testualmente, si legge che “La conseguente occupazione di territori sempre più ampi da parte delle attività umane fa si che ci siano sempre più aree con beni esposti a rischio idrogeologico. E molto spesso sono gli interventi antropici a creare i presupposti al dissesto o creare le condizioni per l’innesco di fenomeni franosi”.
Ma, quella dei geologi è una voce inascoltata.
Tremila e quattrocento circa sono le vittime del solo dissesto idrogeologico in Italia negli ultimi sessant’anni e perlopiù dovuti ai soli fenomeni repentini come esondazioni torrentizie, colate di fango e di detrito. Basti ricordare gli esempi di Sarno e Quindici nel salernitano; Soverato e il torrente Beltramme, Crotone e l’alluvione dell’Esaro in Calabria.
L’inverno 2009/2010 è stato un inverno tragico per la Calabria e lo ha ricordato anche il presidente dei Geologi della Regione Abruzzo citando “La frana di Maierato il cui filmato ha fatto il giro del mondo” e storpiandone il nome come spesso accade per i paesini calabresi.
Ma, come ricordano spesso i geologi, il problema del dissesto idrogeologico è diffuso in tutta l’Italia ed i problemi si sono avuti anche in Sicilia, in Campania, in Toscana e in Liguria.
I costi del dissesto idrogeologico
Purtroppo non esiste – a livello nazionale (né tantomeno a livello regionale) – un ente che, per compito istituzionale, raccolga ed archivi sistematicamente le informazioni relativi agli eventi calamitosi e che rendiconti l’ammontare economico dei danni (oltreché delle vittime) conseguenti a ciascuna calamità naturale. L’annuario dei dati ambientali elaborato dall’ISPRA secondo il quale, il costo complessivo dei danni dei soli eventi franosi ed alluvionali dal 1951 al 2009 è, rivalutato secondo la moneta corrente, superiore a 52 miliardi di euro. Circa un miliardo di euro all’anno.
Per delineare il fenomeno del dissesto idrogeologico in Italia è necessario fare riferimento al progetto IFFI, l’inventario dei fenomeni franosi in Italia curato dall’Agenzia per la Protezione Ambientale.
Le statistiche e le elaborazioni effettuate sulla banca dati del Progetto IFFI offrono un quadro sulla distribuzione dei fenomeni franosi sul territorio italiano e sui più importanti parametri ad essi associati.
L’inventario ha censito, alla data del 31 dicembre 2006, 469.298 fenomeni franosi che interessano un’area di quasi 20.000 km2, pari al 6,6% del territorio nazionale.
Un indice di franosità che sale a 8,9% del territorio nazionale se si escludono le aree in pianura. Più dell’ottanta percento dei comuni italiani ha almeno un’area instabile all’interno del suo territorio per frana o rischio alluvioni.
La mappatura effettuata dal Cresmel del 2009 fornisce un’altro dato interessante (e preoccupante) dalla semplice sovrapposizione delle carte del rischio frana o alluvione elaborate nei PAI, piani per l’assetto idrogeologico, e le carte riportanti strutture pubbliche, scuole e ospedali.
Ben 3.458 le strutture scolastiche costruite in zone ad alto rischio idrogeologico; 89 gli ospedali. Il fabbisogno del Paese per il risanamento di queste situazioni di rischio ammonta a circa 40 miliardi di euro. Una cifra rilevante ma sicuramente sottostimata perché non tiene conto dei costi indiretti degli interventi sulle opere di manutenzione strordianria già eseguite. È questa le vera opera faraonica si, ma di cui hanno bisogno l’Italia e la Calabria.
Il rischio sismico e i costi dei terremoti
Poiché al peggio non c’è mai fine, dalla padella del dissesto si passa alla brace del rischio sismico la cui strage di legalità nel settore edilizio è strage di popoli a L’Aquila come fu in Calabria.
Da questo punto di vista basti citare soltanto quello che è riportato nella home page del sito della Protezione Civile: “L’Italia è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio e per l’intensità che alcuni di essi hanno raggiunto, determinando un impatto sociale ed economico rilevante.
La sismicità della Penisola italiana è legata alla sua particolare posizione geografica, perché è situata nella zona di convergenza tra la zolla africana e quella eurasiatica ed è sottoposta a forti spinte compressive, che causano l’accavallamento dei blocchi di roccia”.
E ancora: “In 2500 anni, l’Italia è stata interessata da più di 30.000 terremoti di media e forte intensità superiore al IV-V grado della scala Mercalli) e da circa 560 eventi sismici di intensità uguale o superiore all’VIII grado della scala Mercalli (in media uno ogni 4 anni e mezzo). Solo nel XX secolo, ben 7 terremoti hanno avuto una magnitudo uguale o superiore a 6.5 (con effetti classificabili tra il X e XI grado Mercalli). La sismicità più elevata si concentra nella parte centro-meridionale della penisola - lungo la dorsale appenninica (Val di Magra, Mugello, Val Tiberina, Val Nerina, Aquilano, Fucino, Valle del Liri, Beneventano, Irpinia) - in Calabria e Sicilia, ed in alcune aree settentrionali, tra le quali il Friuli, parte del Veneto e la Liguria occidentale.
I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro, che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale”. Quasi 4 miliardi di euro all’anno solo per il rischio sismico.
Poiché sono le Regioni e Comuni ad avere competenze concrete sul governo del territorio, su queste basi e con il contributo degli ordini professionali, dovremo essere in grado come Radicali Italiani, di farci carico del problema e formulare proposte concrete per questi enti.