La piazze e l'errore (grave) del Pd
Sarà bene essere chiari nella premessa. Le opposizioni hanno tutto il diritto di protestare contro un decreto che, per quanto venga definito «interpretativo», rischia di far passare un principio pericoloso. In virtù del quale le regole del gioco valgono sì, ma fino a un certo punto; e dunque possono essere manipolate da chi dispone della maggioranza mentre il gioco è in corso. Ma per le opposizioni, e più precisamente per il Partito democratico, i problemi cominciano qui.
Per sabato il Pd ha indetto a Roma, «con le altre forze di centrosinistra», una grande manifestazione nazionale, già annunciata da un manifesto che recita: «Per vincere, sì alle regole, no ai trucchi». Basta intendersi su chi è che difende le regole e chi, invece, trucca le carte, o non fa la propria parte per impedire che vengano truccate. Pier Luigi Bersani, e come lui tutti o quasi i dirigenti del Pd fin qui intervenuti, sembrano non avere dubbi. Magari in cuor loro non sono convinti della decisione di Giorgio Napolitano di apporre la sua firma alla versione finale del decreto dopo essersi opposto, e con successo, agli intenti diciamo così più sbrigativi di Silvio Berlusconi. Ma, insistono, il capo dello Stato non c'entra e deve essere lasciato al di fuori delle polemiche.
Benissimo. Chi è però che non si limita, come è ovviamente lecito, a criticare Napolitano, e nemmeno ad attaccarlo, ma lo addita alla pubblica esecrazione? Tra «le forze di centrosinistra» in piazza con il Pd dovrebbe esserci, salvo sorprese, anche l'Italia dei Valori. Il cui leader Antonio Di Pietro ha pensato bene, sabato, non solo di contestare duramente il presidente della Repubblica ma, già che c'era, di chiederne l'impeachment; e ieri ha provveduto a dare degli «ipocriti» e dei «falsi perbenisti» a tutti quelli, dirigenti del Pd evidentemente compresi, che, pur polemizzando aspramente con il governo, sono stati attentissimi a non chiamare in causa il Quirinale, e quando dicono: «Basta attacchi a Napolitano» evidentemente si rivolgono in primo luogo a lui. E non è solo questione di Di Pietro. «Giù le mani da Giorgio», titolava ieri, un po' alla maniera dei vecchi goliardi, un giornale dichiaratamente di destra come il Tempo.
Sul fronte opposto, non si è mancato di dargli paradossalmente ragione. Sul Fatto quotidiano i lettori-militanti, assieme a una quantità di rampogne al capo dello Stato, hanno avuto modo di godersi il tradizionale articolo di Marco Travaglio. Stavolta in forma di lettera aperta di uno pseudo Napolitano ai cittadini che rispettano le leggi: «Care pirla, cari pirla»...
Si potrebbe proseguire a lungo, fermiamoci qui. La questione è aperta sin da quando Walter Veltroni decise, alla vigilia delle elezioni politiche, di fare un'eccezione all`autosufficienza del suo Pd per Di Pietro e solo per Di Pietro. Seppure con andamenti alterni, è rimasta irrisolta per i successivi due anni. Nessuna seria battaglia politica e ideale è stata condotta contro simili posizioni, in tutto o in parte condivise in zone non sapremmo dire quanto estese, masicuramente vaste, dell'elettorato di centrosinistra: tanto più, si capisce, dopo il varo di un decreto come questo.
E adesso? Non si può certo chiedere a Bersani di ignorare l'indignazione della sua gente e la concorrenza di Di Pietro. Ma si può e si deve chiedergli, proprio perché siamo a un passo da una crisi democratica, di stare molto attento a chi scherza con il fuoco. Il segretario che non vuole recidere le radici del suo partito faccia tesoro, se serve, persino dell'esperienza del vecchio Pci nelle ore più difficili della storia repubblicana: calma e gesso. Protestare fermamente contro il decreto, e contestare duramente chi lo ha voluto, è, ci mancherebbe, nel suo pieno diritto. Ma a condizione che si tracci una linea di demarcazione finalmente netta, finalmente chiara, nei confronti di chi da questo trae partito per andare lancia in resta all`attacco degli istituti di garanzia, primo tra tutti il Quirinale, come se a strattonarli pericolosamente non provvedesse già il centrodestra. Si è detto che il centrosinistra si è condannato da solo alla sconfitta anche per la tendenza, connaturata e irrefrenabile, a dividersi. Vero. Ma è ancora, più vero che ci sono anche momenti in cui la chiarezza degli obiettivi viene prima di ogni altra cosa, e fare un'aperta lotta politica, e nel caso dividersi, bisogna: apertamente, senza infingimenti, senza temere di lavorare così per il re di Prussia. Bene, non solo il Pd, ma la democrazia italiana sta vivendo uno di questi momenti.
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