Il tema di questo convegno offre al Parlamento un’occasione importante e la offre in particolare a quei parlamentari che come me fanno parte della delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare dell’OSCE. L’occasione è quella di riflettere e di meglio comprendere quali lezioni ed indicazioni si possano e si debbano trarre dal ruolo che hanno svolto i movimenti civici nonviolenti, nel portare alla fine il sistema totalitario sovietico in Europa, e dalla loro interazione con un’organizzazione come la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, oggi divenuta l’OSCE.
Nel corso di questi anni sono state fatte molte riflessioni sui rapporti di potere tra il Patto Atlantico e il Patto di Varsavia, sulla corsa agli armamenti e sul cosiddetto equilibrio del “terrore nucleare” che si era instaurato, per cercare di spiegare le ragioni dell’abbattimento della cortina di ferro; molto meno, invece, si e’ riflettuto sugli aspetti che saranno oggi oggetto di questo convegno e che coinvolgono aspetti sociali ed istituzionali che troppo spesso la politica sottovaluta.
Una riflessione questa, e lo dico anche come Relatore dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE sui Diritti Umani, che non dovrebbe limitarsi ad una se pur importante riflessione accademica, ma che dovrebbe contribuire a portare la classe politica di un paese che, come il nostro, continua ad autodefinirsi democratico (se pur nel contesto di crescenti denunce internazionali relative al funzionamento del nostro sistema giudiziario), e che attualmente ricopre anche il ruolo di Presidente del G8, ad agire nella propria politica estera e di cooperazione internazionale in consonanza e non, come ormai accade molto spesso, in dissonanza o addirittura in piena contraddizione, con gli obiettivi e i principi che sono i nostri; e che sono nostri non perche’ lo dice oggi un deputato, ma perche’sta scritto nella nostra Costituzione che la difesa delle libertà individuali e dei sistemi democratici, sono le fondamenta del nostro Stato. E quando una Costituzione diventa solo un documento come tanti altri cui fare riferimento, il futuro democratico di un paese, non puo’ considerarsi garantito in eterno.
La storia dei Movimenti di resistenza civica e nonviolenta e il ruolo che hanno svolto nella politica internazionale non è iniziata con l’adozione dell’Atto finale di Helsinki nel 1975, ormai quasi 35 anni fa, e non si limita certo solo agli eventi che hanno poi portato alla caduta del muro di Berlino. Credo anche che alcuni dei relatori che parleranno dopo di me, potranno utilmente accennare a una storia meravigliosa di movimenti di opposizione che, in tutti i continenti, hanno scelto consapevolmente di rifiutare la violenza e il terrorismo quali strumenti di promozione dei loro obiettivi politici; obiettivi che poi sono stati poi raggiunti contro ogni previsione e scetticismo della cosiddetta realpolitik.
Una storia che è spesso misconosciuta da quelle stesse leadership politiche che oggi governano quei paesi e che sono sorte grazie all’opera di movimenti che, per dirla con le parole di Gandhi, avevano chiara una convinzione, e cioè che “i mezzi determinano i fini”; un concetto che spiega che, perseguire l’obiettivo della nascita di una società più libera e democratica, attraverso mezzi che sono violenti ed autoritari, finisce per mettere a rischio il raggiungimento di uello stesso obiettivo che si cerca di raggiungere. E questo lo dico non sulla base di un giudizio di disvalore morale assoluto della violenza, considerata come un male in se’; no, non è così, l’uso della violenza – per quanto doloroso - è in alcuni casi, come quelli della legittima difesa o ad esempio dell’esercizio del dovere di intervento a difesa di popolazioni oppresse, oltre che legalmente legittimo, e’ moralmente giustificabile in alcuni casi. Quindi, l’opportunita’, e in alcuni casi la convenienza, di compiere una scelta di resistenza nonviolenta all’oppressione di un regime, deriva non solo e non tanto da un convincimento morale, ma anche da analisi e studi che dimostrano in modo abbastanza inequivoco che i sistemi di governo che sono nati accompagnati da movimenti nonviolenti, hanno molte più probabilità di restare liberi e democratici di quelli nati grazie a rivoluzioni violente, spesso accompagnate da ideologie autoritarie.
Ma per venire piu’ direttamente al tema di questo convegno, io mi limiterò a fare alcune considerazioni e a porre alcune domande su quelli che a me paiono lezioni importanti da trarre dalla storia politica che si e’ sviluppata in Europea dopo Helsinki.
Una domanda che mi pongo e che vi pongo e’ la seguente: senza gli impegni assunti dall’Unione Sovietica con l’Atto finale di Helsinki e senza la pressione politica che ne e’ scaturita negli anni successivi, siamo sicuri che Gorbachov avrebbe scelto, come fece, di non reprimere nel sangue i movimenti di resistenza che si erano formati in Cecoslovacchia o in Polonia? Sappiamo che l’atto finale di Helsinki non era un trattato internazionale vincolante, e che ad esempio non impedi’ le migliaia di arresti in Polonia nel 1981 quando vi fu il tentativo di affossare Solidarnosc, ma non dimentichiamo, che in un altro contesto politico nel 1968, la leadership sovietica decise di reprimere con un bagno di sangue la Primavera di Praga con l’invasione della Cecoslovacchia. La resistenza e la persistenza di questi movimenti nel tempo e’ stato sicuramente un fattore decisivo per costringere la leadership sovietiva a non usare la forza, ma la mia risposta è che anche il contesto politico internazionale, scaturito da Helsinki, gioco’ sicuramente un ruolo importante.
E’ quel contesto politico ad esempio che consentì nel gennaio del 1989, l’adozione da parte della CSCE di una allegato alla Documento conclusivo di Vienna con il quale si stabiliva che “La prassi di trasparenza e accessibilita’ alle riunioni della CSCE hanno avuto uno sviluppo positivi. Tale prassi riguarda l’accesso al paese ospitante e alle sedute pubbliche delle riunioni CSCE da parte dei rappresentanti dei mezzi di informazione, dei rappresentanti delle organizzazioni non governative o di gruppi religiosi e delle persone private, sia cittadini sia stranieri, i liberi contatti fra delegati o visitatori e cittadini dello stato ospitante (…) lo svolgimento di riunioni pacifiche e il rispetto del diritto dei giornalisti di riferire senza ostacoli”, questa decisione, che appare un po’ burocratica, in realtà consentì nei primi mesi del 1989 di attivare per oltre 100 volte i meccanismi dell’Atto di Helsinki relativi al rispetto dei diritti umani, creando così una pressione politica mai vista fino ad allora su questo tema.
O ancora, senza l’Atto di Helsinki avrebbe potuto il politburo del Partito Comunista adottare una decisione, il 18 novembre del 1989, e cioè pochi giorni dopo la caduta del muro di Berlino, con la quale si stabiliva “di eliminare tutte le restrizioni e i divieti sulla stampa che siano contrari al diritto internazionale e che non siano in linea con gli obblighi assunti dall’Unione Sovietica nell’ambito delle norme sui diritti umani previsti dall’Atto di Helsinki”. Credo di no, come credo che senza la diffusione nelle altre regioni dell’Unione Sovietica delle informazioni su quanto stava accadendo a Berlino ed altrove, probabilmente la storia dei paesi baltici e dell’Europa sarebbe stata diversa. E per meglio comprendere l’importanza del contesto politico internazionale di quegli anni, voglio soffermarmi su un altro evento che ebbe luogo nel 1989, pochi mesi prima del crollo del Muro di Berlino. Parlo del massacro di piazza Tien An Men in Cina. Un massacro deciso a tavolino - non senza un duro confronto interno al Partito comunista cinese come abbiamo appreso anche con le ultime rivelazioni di alcuni suoi esponenti –e con il quale si dava un messaggio chiaro al mondo: la Cina rigettava la politica di riforme portate avanti da Gorbachov e spezzava le gambe a chi avesse velleita’ di cambiamento. Mi chiedo e vi chiedo, e se anche la Cina fosse stata coinvolta, o se ad esempio fosse oggi coinvolta, all’interno di un quadro di relazioni internazionali dove, a fianco della collaborazione in campo economico e in quello della sicurezza, si ponesse, anche l’impegno al rispetto dei diritti umani; se cio’ accadesse, siamo sicuri che i Cinesi reagirebbero sempre come hanno fatto a Tien An Men o come hanno fatto nei confronti dei tibetani nel 2008 o con gli Uiguri pochi mesi fa?
Credo che non sia una domanda inopportuna e credo che tra i compiti della politica vi debba essere anche quello di creare uno spazio di dialogo e di confronto anche laddove questo sembra che non vi sia, ed e’ mia profonda convinzione che questo dovrà avvenire presto, se non si vuole essere travolti dagli eventi. Basti pensare alla situazione iraniana dove in queste ore le manifestazioni dell’opposizione, di migliaia di studenti, vengono represse e tutti sembriamo impotenti ad intervenire. Credo dunque che vi siano le ragioni a favore di una revisione di quello che oggi l’OSCE è divenuta, e delle sue difficoltà politiche, nel quadro di un allargamento della sua missione che non può non coinvolgere – nelle forme adeguate ed opportune – anche i nuovi paesi emergenti nello scenario internazionale.
Nel lavorare dunque alla creazione di un nuovo contesto internazionale, anche normativo, che possa coinvolgere anche i paesi non democratici, vi sono comunque dei passi e delle iniziative che non vanno tralasciate e che vanno portate avanti. Nel 2008, ad esempio, il Parlamento Europeo ha approvato un rapporto sul rispetto dei diritti umani nel mondo preparata dal mio collega di partito Marco Cappato, nel quale non solo si riconosce il ruolo delle azioni nonviolente per difendere il rispetto dei diritti umani, ma si chiede alle istituzioni europee di promuoverne la conoscenza e la diffusione come strumento concreto ed ufficiale nelle politiche di promozione della democrazia. Purtroppo sia la Commissione Europea che i Governi nazionali non stanno dando seguito a un importante atto di indirizzo politico come questo. Per altro verso, negli Stati Uniti vi sono fondazioni private che, anche con il sostegno ufficiale del Dipartimento di Stato, promuovo e assistono movimenti che si ispirano a questi principi e che cercano di diffonderli e praticarli negli Stati autoritari, chiedendo loro di rispettare il quadro di norme internazionali, a partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo di cui oggi ricorre l’anniversario, che dovrebbe dar loro la legittimazione internazionale.
Spero che da questo dibattito potremmo uscire accresciuti nella nostra conoscenza, non solo della storia, ma anche dell’attualità e dell’importanza di queste esperienze e che sapremo trovare gli strumenti, sia all’interno dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE, sia nel nostro Parlamento, per tradurla in iniziative concrete; per far sì che questo lavoro, diventi priorità politica anche delle istituzioni e dei governi europei , e non solo di partiti e gruppi che – e lasciatemi chiudere con una piccola nota di orgoglio - come il mio partito, il Partito Radicale Nonviolento, transnazionale e transpartito hanno portato avanti dagli ‘ 50 in poi il sostegno ai dissidenti dell’ex Unione Sovietica, con decine e decine di manifestazioni nonviolente che hanno visto finire in carcere militanti radicali, e che oggi cerca di far rivivere quelle stesse esperienze a sostegno dei dissidenti nonviolenti che operano in Iran, in Birmania, in Cina o in Vietnam, o in tanti altri loughi dove ancora la libertà non è un diritto umano.
On. Matteo Mecacci Commissione Affari esteri - Camera dei Deputati Italiana Rapporteur dell'Assemblea Parlamentare dell'OSCE per Democrazia, Diritti Umani e Questioni Umanitarie
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