Bolognetti: "L'impronta ecologica ai tempi del Governo Monti"

Di Maurizio Bolognetti, Direzione Radicali Italiani.
A leggere i dati UNMIG relativi alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione idrocarburi in terra di Basilicata, verrebbe da commentare che siamo di fronte ad un far west petrolifero di cui non si intravede la fine. Non conosco la percentuale di territorio libico o saudita vincolata da titoli minerari, ma i dati lucani sì, ed essi sono a dir poco sorprendenti. Gli atlanti e i libri di geografia riportano che la Basilicata copre una superficie pari al 3,3 per cento di territorio nazionale(9992 kmq); il 65% circa di questa superficie(6260 kmq) è stata ipotecata da titoli minerari attivi e istanze per il conferimento di nuovi titoli. I 22 permessi di concessione vigenti coprono 2121 kmq di territorio, mentre i 12 permessi di ricerca autorizzati una superficie pari a 1590 kmq. Tra le 15 nuove istanze di ricerca va registrata quella avanzata dall’Eni, denominata “Monte Li Foi”, che interessa un’area di 140 kmq compresa nei comuni di Baragiano, Ruoti, Picerno, Tito, Savoia di Lucania, Pignola e Potenza. La richiesta ha scatenato la ferma opposizione dei sindaci di 5 dei 7 comuni coinvolti(Baragiano, Tito, Picerno, Savoia di lucania e Ruoti), che hanno approvato delibere di Giunta per opporsi alle procedure di verifica/screening finalizzate al rilascio del permesso di ricerca di idrocarburi. Di ragioni per opporsi ce ne sono tante e gli amministratori dei 5 comuni del Marmo-Melandro le hanno ottimamente illustrate nelle delibere. Ragioni che l’Associazione Radicali Lucani sposa in pieno. Non è pensabile che ancora una volta si consentano trivellazioni in aree dove si registra un forte dissesto idrogeologico(con areali classificati R4), a rischio sismico, a ridosso di zone SIC(Sito di interesse comunitario) e dove sono presenti aree sottoposte a vincolo idrogeologico. Di fatto, il rischio è che ancora una volta si compromettano le preziose riserve idriche lucane, come già avvenuto a Calvello e nella Val d’Agri. Tocca ripetere che quel che occorre è una moratoria delle attività estrattive che ci consenta di avere un quadro completo dei danni già prodotti dall’assalto delle trivelle, laddove con scarsa lungimiranza si è consentito di perforare a ridosso di sorgenti e di invasi, in aree agricole e a ridosso di centri abitati. Gli effetti di questo assalto e i danni prodotti - per quanto già ben visibili - probabilmente saranno quantificati per intero solo quando le varie Eni, Shell, Total e compagnia cantando avranno succhiato fino all’ultima goccia di oro nero, e magari solo allora inizieremo a confrontarci con il concreto rischio rappresentato dal fenomeno della subsidenza.
La verità è che per la Lucania fenix il mare forza 7, rappresentato dall’assalto alla baionetta portato dalle multinazionali dell’oro nero, rischia di trasformarsi in un autentico tsunami anche grazie al decreto sulle liberalizzazioni varato dal Governo Monti.
Gioverà sottolineare che è davvero paranormale, dopo quanto accaduto nel Golfo del Messico e al largo delle coste del Brasile, che il governo italiano immagini di poter consentire la presenza di trivelle off-shore nel Mediterraneo, a 5 miglia nautiche dalla costa. Se oggi – e giustamente - il Ministro dell’ambiente si dice preoccupato per i perniciosi effetti che potrebbe produrre la perdita di 2400 tonnellate di gasolio dai serbatoi della Concordia, occorre chiedersi cosa accadrebbe se un incidente come quello verificatosi nel Golfo del Messico avvenisse in uno spazio marino che certo non è l’oceano Atlantico. E’ prioritario vietare le trivelle nel Mediterraneo, e per farlo occorre far leva sulla “Convenzione per la protezione del Mediterraneo dai rischi d’inquinamento”, meglio nota come “Convezione di Barcellona”. La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con la legge n°30 del 25 gennaio 1979. La Convenzione è lo strumento giuridico del “Piano d’azione delle Nazioni Unite per il Mar Mediterraneo”. La corsa all’oro nero in mare, infatti, non ha contagiato solo l’Italia, ma riguarda anche Malta, la Libia, la Grecia, Israele, ecc.
Sconcerta leggere nel Decreto la relazione che accompagna l’articolo 20, dedicato allo sviluppo di risorse energetiche nazionali strategiche. In essa si afferma che la ricerca di idrocarburi in Basilicata “risulta rallentata o impedita dalle difficoltà derivanti dall’insediamento degli impianti di estrazione di idrocarburi, spesso in competizione con altre attività di sfruttamento del territorio, generalmente di minor valore economico, ma fortemente radicate.”
Verrebbe da rispondere:”Ci scusi dottor Monti se noi Lucani siamo tanto legati al nostro territorio; ci scusi se qualcuno ancora osa opporsi, non per pregiudizio, ma sulla scorta di attente valutazioni degli impatti già prodotti sull’ambiente e sulla salute umana alle attività estrattive; ci scusi se non abbiamo accolto con entusiasmo il permesso di ricerca Monte Li Foi; ci scusi se ci permettiamo di dare un valore al nostro paesaggio, alle preziose risorse idriche, all’acqua, alle coltivazioni, all’aria e a qualche attività di “minor valore”; ci scusi se invochiamo una moratoria, ritenendo più che sufficiente il fatto che già oggi 3711 kmq quadrati di territorio sono assoggettati a concessioni e permessi di ricerca. Ma se proprio non volesse scusarci, allora possiamo prendere in considerazione la possibilità di una emigrazione forzata da una terra che - nonostante l’oro nero - è il fanalino di coda del paese.
Di cotanto interesse per la Lucania fenix avremmo fatto volentieri a meno e abbiamo anche l’impressione che con questo decreto è l’Italia tutta, mari compresi, che rischia di diventare Basilicata.
Per carità, quelli di Standard and Poor, se il decreto dovesse passare, di certo ci concederanno un “più” o una A, ma a quale prezzo?
Parliamo di sviluppo e agenzie di rating, ma forse sarà il caso di sottolineare che in Norvegia l’80% dei ricavi delle compagnie petrolifere viene incassato dallo Stato, e che sempre in Norvegia ci sono pesanti tasse sulle emissioni inquinanti, e che non sono ammesse trivellazioni a meno di 50 km dalla costa. In Italia, invece, le royalties sono al 10% per le estrazioni sulla terraferma e al 4% per le estrazioni in mare. C’è da stupirsi se i petrolieri, riferendosi al Bel Paese, parlano di una sorta di Mecca con “regimi fiscali convenienti?”
Sbarcando dai nostri gommoni di profughi in cerca d’asilo e di verità e tornando con i piedi per terra, perché non segnalare che per la banca d’affari Goldman Sachs, “Tempa Rossa”(attività estrattive Total in Basilicata) è considerato uno dei 128 progetti più importanti al mondo? Sarà forse per questa ragione che il Governatore della Puglia Nichy Vendola - che non ha proferito verbo sugli effetti nocivi delle attività estrattive su risorse idriche che pure dovrebbero stargli a cuore - ha detto sì a “Tempa Rossa”, cioè sì ad altri 50.000 barili di petrolio che finiranno nelle raffinerie Eni di Taranto. E’ lo stesso Vendola che il 21 gennaio a Monopoli cavalcherà il no alle trivelle Off-Shore(almeno in piazza), ma che è muto e afasico sul petrolio estratto in Lucania.
A Taranto, intanto, si registra l’ennesimo sversamento di idrocarburi in mare.
Dov’è - verrebbe da chiedersi - la Green-Economy? E dov’è un futuro altro, possibile, come quello prospettato da J.Rifkin con la sua “Terza Rivoluzione Industriale”? Dov’è la strada di uno sviluppo “sostenibile e responsabile”? L’epoca dei combustibili fossili è finita, ma qualcuno sembra non essersene accorto e vorrebbe barattare il futuro di un Paese in cambio di un “più” e di una pacca sulle spalle concessa da un’ agenzia di rating.
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