Rigenerazione urbana o.. riciclo urbano? Il caso delle torri dell’EUR

Rigenerazione urbana o.. riciclo urbano? Il caso delle torri dell'EUR

Nella primavera del 1938, Roma si preparava alla visita di Hitler. Preparativi al solito un po’ cialtroni, un po’ patetici, a base di cartapesta e teloni dipinti: visti da lontano e opportunamente coperti di corone, frasche, fasci e bandiere, avrebbero voluto dare l’illusione di una Capitale monumentale e di una potenza imperiale. Oggi, con la stessa cialtroneria di ieri, si provvede a coprire gli scheletri dell’EUR con teloni per dare l’impressione di una Capitale moderna e di un paese normale. Ma basteranno due teli a far dimenticare i tanti scandali all’ombra delle tre torri dell’ex Ministero delle Finanze?

Alle tre torri si lega la storia di uno dei più grandi fallimenti immobiliari. Una storia di ordinaria rigenerazione urbana all’italiana, che ha visto la compartecipazione di imprese edilizie, finanza e pezzi dello Stato in una colossale speculazione edilizia, che avrebbe spazzato via le torri progettate da Cesare Ligini e Vittorio Cafiero: una testimonianza fondamentale della storia dell’architettura contemporanea, che si richiama direttamente alle torri di Chicago sulla Lake Shore Drive di Mies van der Rohe.

Nel 2007 il complesso, nonostante risultasse ancora nella Carta per la Qualità e fosse quindi parte di quelle «architetture significative per il tessuto urbano», è stato smantellato, ma non completamente demolito. Eliminate le facciate, le torri sono state lasciate nella nudità per otto anni. Un panorama postbellico che è ben presto divenuto bersaglio del proverbiale sarcasmo romano. La «Beirut» da quasi un decennio è il Landmark per chi arriva a Roma dall’intero pianeta, atterrando dal Leonardo da Vinci.

Il biglietto da visita di un paese intero che, in quegli stessi anni, annegava nel cemento (o nell’asfalto) una superficie più vasta di tutta l’Umbria. Consumo di territorio, certamente, ma anche grandi svendite del patrimonio pubblico sul quale insediare progetti di rigenerazione urbana che, per la verità, hanno rigenerato soltanto le plusvalenze della speculazione edilizia e finanziaria, lasciando sul territorio soltanto macerie.

Oggi quelle nudità si coprono un po’ come furono coperte quelle della Cappella Sistina, in attesa che il complesso – restaurato – diventi il nuovo quartier generale della Telecom Italia.

Un passo indietro. La Alfiere Spa

Al posto delle torri doveva nascere un faraonico centro disegnato da Renzo Piano. Solo la progettazione è costata 4 milioni di euro. Non si è badato a spese perché, in un primo momento, il piatto era effettivamente ricco. Quindi tutti si sono infilati: banche e palazzinari, parenti e amici. E, per queste occasioni, non c’è niente di meglio di una bella «partnership pubblico-privato». Ecco quindi che nasce la Alfiere Spa 50% pubblica, 50% privata: almeno sulla carta.

La società proprietaria del complesso è la Alfiere Spa, le cui quote sono al 50% della Fintecna Immobiliare Srl (ramo immobiliare della Fintecna, società finanziaria controllata al 100% dal Ministero dell’Economia e che fa capo alla pubblica Cassa Depositi e Prestiti) e al 50% della Progetto Alfiere Spa, una scatola cinese che raccoglie le quote dei privati.

Basta però “aprire” la seconda scatola per vedere come contenga altre sei scatole, cinque da quote del 19% (ognuna con il 9,5% di proprietà delle Torri) e una del 5% (quindi con il 2,5% del complesso): Lamaro Appalti Spa, Astrim Spa, Fimit Sgr, Immobiliare Lombarda Spa, Met Development Spa e, con il 5%, Eurospazio srl.

Nel business delle Torri ci sono in prima fila i fratelli Toti (gruppo Lamaro) e Alfio Marchini (Astrim); ma, attraverso la Tecnimont Civil Construction, ci sono anche Roberto Poli, presidente di Eni, membro del Cda di Fininvest e consulente di Silvio Berlusconi, e Giovanni Malagò, brillante imprenditore romano che rivestì anche il meno brillante incarico di presidente del comitato organizzatore dei famigerati Mondiali di Nuoto di Roma 2009.

Come da migliore tradizione italiana, non può mancare una folta carrellata di miracolati e figli di papà. Seguono, con Immobiliare Lombarda (al 66% proprietà Fondiaria-Sai e al 34% della Milano Assicurazione Spa, (poi fagocitata da Unipol) Paolo Gioacchino Ligresti, figlio di Salvatore, in qualità di presidente del Cda. Il vicepresidente è invece il craxiano Massimo Pini e, come consiglieri, Gigi Pisanu, consigliere comunale (Pdl) a Sassari ma soprattutto figlio dell’ex ministro degli Interni Giuseppe Pisanu, e Geronimo Antonino La Russa, figlio dell’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa.

Con Astrim Spa, troviamo Unicredit (31%) ma anche la finanziaria MittelSpa, guidata da Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo.

Il restante 9,5% di Progetto Alfiere Spa appartiene alla Società Gestione Risparmio Fimit. Qui le quote sono ulteriormente divise tra una serie di enti pubblici o privati che dovrebbero perseguire finalità di pubblico interesse: Inpdap (31%), Enpals (19%), Enasarco (10%) e Inarcassa (5%) che (guarda caso) stanno dismettendo il proprio patrimonio immobiliare in cui vivono decine di migliaia di cittadini. Con le dismissioni si investe in immobili extralusso ad alta redditività. Effetti della rigenerazione urbana. E tanti saluti al pubblico interesse.

Rigenerazione urbana, ovvero speculazione a maggioranza pubblica

Il progetto parte male anche sul piano amministrativo e con molte ombre. Sulle torri insiste un vincolo storico e architettonico: sono incluse nella “Carta della Qualità” e quindi non si potrebbero abbattere. Servirebbe una variante generale al Piano Regolatore: operazione troppo lunga ma, niente paura, la fantasia italica non conosce limiti.

È l’11 aprile del 2008, mancano 48 ore alle elezioni comunali, quando il Commissario Straordinario Mario Morcone, adotta la Delibera numero 87 per stralciare le Torri dalla “Carta per la qualità”, realizzando – in modo del tutto anomalo – una variante al Piano Regolatore agendo su un elaborato di tipo gestionale.

Ma la vera partita è quella relativa al contributo di valorizzazione che la Alfiere Spa deve riconoscere al Comune di Roma.

Un contributo assolutamente insufficiente, stimato in appena 24 milioni di euro, se si considera che il Protocollo d’Intesa stipulato il 28 novembre 2002 tra Ministero delle Finanze (allora guidato da Tremonti) e dal Comune di Roma (Veltroni sindaco) è calcolato tra i 60 e gli 80 milioni di euro.

Vediamo perché. Il Protocollo stabilisce (art.2 comma 5) come «la quota spettante al Comune di Roma per effetto delle operazioni di valorizzazione è pari al 15% calcolato sul valore degli immobili determinato come base d’asta degli stessi ai fini della loro successiva vendita, incrementata da un ulteriore 12% calcolato sulla differenza tra lo stesso valore a base d’asta e il ricavato effettivo dalla vendita degli immobili valorizzati».

Neanche un mese dopo, il 24 dicembre 2002, con Decreto Legislativo n.282, l’Agenzia del Demanio viene autorizzata a vendere a trattativa privata, anche in blocco, i beni appartenenti al patrimonio dello Stato. Solo tre giorni dopo, il 27 dicembre 2002 l’area viene alienata – senza asta – in favore di Fintecna Spa, per un totale di 505 milioni.

Per individuare il prezzo di cessione delle sole Torri furono incaricati i professori Capaldo e lo studio Ellis: 123 milioni che vanno a costituire «il prezzo a base d’asta» sul quale calcolare la prima quota di valorizzazione del 15%, ovvero 18 milioni e 450mila euro. E la seconda quota?

Il 28 marzo 2005, in una Comunicazione all’Assessorato Politiche del Patrimonio del Comune di Roma, Fintecna dichiara che avrebbe corrisposto per la seconda quota soltanto 5,5 milioni, per un totale complessivo di soli 24 milioni, ovvero gli oneri scomputati della «valorizzazione», cioè dalla vendita dei 47mila metri quadrati residenziali previsti dal faraonico progetto di Renzo Piano, ai quali vanno aggiunti parcheggi, la parte direzionale e i giardini d’inverno, per un ricavato stimato di 692 milioni di euro, ovvero altri 47 milioni di euro: dieci volte rispetto alla cifra offerta.

Il Comune stava quindi per regalare almeno 42 milioni di euro pubblici alla speculazione privata. Siamo stati salvati dall’arrivo della crisi finanziaria. Dopo otto anni di tentativi andati a vuoto, l’Alfiere Spa si trova schiacciata da 130 milioni di debiti nei confronti delle banche e dalla componente privata.

Dal bilancio 2010 dell’Alfiere risulta il ritorno dalla vendita del complesso residenziale si era già svalutato a 565 milioni. A quel punto i soci privati hanno tentato di scappare via.

Il resto è storia di oggi. L’accordo firmato con Telecom Italia ha permesso ai privati (Marchini, Toti e tutti gli altri) di rientrare in gran parte dei capitali investiti per l’acquisto delle torri. Mentre il futuro è alquanto incerto per il recupero della quota pubblica di investimenti.

Appunti per il futuro

Ricordare questa storia, seppure in modo non esaustivo, è forse utile, non tanto per il passato, quanto per capire quale futuro attenda le nostre città. Non c’è partito che non cavalchi alcune mode del momento: il consumo di territorio, le smart cities, e, appunto, la rigenerazione urbana; un vocabolario fashion che, attraverso la distorsione e l’inquinamento terminologico, serve a nascondere le reali intenzioni che puntano sempre a nuovi saccheggi del territorio.

Dopotutto il sogno di ogni politicante è essere gradito – o almeno non inviso – a quel Partito del cemento (banche, palazzinari e lobby varie) che, controllando direttamente o indirettamente, tutti i giornali, le radio e le televisioni, ha il potere di decidere sia il copione che gli interpreti dell’agenda politica.

E quindi si comprende bene come la ricetta unica per rimediare ai guasti della speculazione sia quella di fornire nuovi vantaggi agli speculatori, in un contesto dove studi di consulenza e di progettazione sono sempre gli stessi, le stesse imprese edilizie, le solite banche, i soliti politicanti, tutti legati tra di loro da legami affaristici e addirittura di parentela. Quindi occorre tenere gli occhi ben aperti perché la fregatura è sempre dietro l’angolo.

Facciamo un esempio. Da ultimo, il Governo ha destinato 11 milioni di euro per interventi di demolizione dell’edilizia abusiva in aree ad alta vulnerabilità idrogeologica. Le risorse stanziate servono ad attivare delocalizzazioni attraverso premialità edificatorie e fiscali su base comunale.

Nel provvedimento, il Governo non ha ritenuto di inserire alcuna clausola di contestualità tra accesso ai vantaggi e la demolizione effettiva, tantomeno si è previsto un obbligo di cambiamento di destinazione d’uso delle aree, ad esempio, declassandole ad aree agricole o incamerandole nel demanio comunale. Per come è stata costruita, la misura appare soltanto una scusa per cementificare altro territorio. In pratica: abusivi e premiati. Ci chiediamo: ma perché non utilizzare quei 10 milioni di immobili inutilizzati o sottoutilizzati?

Altro esempio. Sempre il Governo ha stanziato 500 milioni di euro per la «rigenerazione delle periferie», annunciati in pompa magna da tutti i media. Cosa vuol dire? Si tratta di realizzare servizi ma anche opere di urbanizzazione primaria nelle periferie mai realizzati e certamente previsti: perlomeno in quelle nate dal 1967 in poi.

Anche in questo caso, l’operazione di «ricucitura» sembra dover passare per forza attraverso incrementi edilizi che si accompagnano a questi servizi. In pratica, più che finanziare riqualificazioni dell’esistente, il pubblico andrebbe a finanziare i contesti infrastrutturali sui quali innestare nuove speculazioni fondiarie.

Del resto il Governo ha avuto di fronte a sé un’occasione storica per riqualificare le periferie a costo zero, riportando gli oneri di urbanizzazione alla loro originale destinazione: realizzazione di verde e servizi. Invece si è preferito continuare a destinarli per la spesa corrente dei Comuni: un uso improprio che, da una parte, impoverisce gli spazi urbani, dall’altra rappresenta un potentissimo incentivo alla concessione di permessi edilizi (e quindi ulteriore cementificazione) da parte dei Comuni sempre più indebitati. Facendo i finti ingenui, potremmo chiederci come mai.

Ma, anche in questo caso, la domanda è evidentemente retorica.

Purtroppo il problema è il concetto di «rigenerazione urbana» in sé. È la mentalità riduzionista e vecchia che ha partorito questo concetto, parente stretto di quei «risanamenti edilizi» ottocenteschi. Nell’ottocento si additava una parte di città “insana”, verso e contro la quale disporre azioni progettuali i cui termini venivano mutuati direttamente dalla medicina. Interventi, trattamenti, sventramenti, risanamenti e così via: ancora oggi la vecchia scuola urbanistica li usa a piene mani.

È interessante ricordare come le parti “malate” della città corrispondessero sempre a quartieri poveri da radere al suolo, deportare i residenti altrove e, al loro posto, insediare edilizia di pregio e classi sociali abbienti.

Per un secolo e mezzo, lo sviluppo delle città italiane (soprattutto le maggiori e, in particolare Roma) è avvenuto in questo modo, con le amministrazioni pubbliche a coprire le spese e gli speculatori a riempirsi le tasche. E oggi la mentalità è esattamente la stessa, con la differenza che nell’ottocento i poveri corrispondevano ai “malati” sociali. Oggi, con il trionfo delle élite, non esistono proprio: sono morti, come le parti di città che abitano che sono – appunto – da “rigenerare”, cioè far rinascere, presumendole morte.

Il caso delle torri dell’EUR dimostra chiaramente che, al contrario, si stava per commettere un vero e proprio assassinio culturale: altro che rinascita.

Al posto di rigenerazione urbana, occorrerebbe introdurre il concetto più laico di riciclo urbano, una metodologia che, accettando e rispettando luoghi e comunità, promuove strategie di valorizzazione sostenibile dell’esistente attraverso piccoli interventi, purché strategici e a rete, costruiti con e per la comunità, al posto di interventi calati dall’alto, contro le comunità.

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Fonte: http://ecoradicali.it/2016/01/rigenerazione-urbana-o-riciclo-urbano-il-caso-delle-torri-delleur/

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