È ora di mandare in caschi blu in Libia
di Marco Perduca su l’ HUFFINGTON POST del 1/08/2014
Il 17 luglio il Ministro degli esteri libico Mohamed Abdelaziz ha chiesto aiuto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite per difendere alcuni tra gli asset strategici del suo paese ammettendo l’incompetenza e l’incapacità dell’amministrazione libica riconosciuta dall’Onu come leggitimo governante della ex Jamahiriya. Non una parola sulla popolazione civile.
Abdelaziz avrebbe concluso il proprio appello con un enfatico “before it’s too late” – prima che sia troppo tardi. Secondo il Governo libico, da quando i ribelli, ritenuti “islamisti”, hanno preso il controllo di buona parte dei porti e stanno minacciando la sicurezza dell’aeroporto civile, il paese avebbe perso oltre 30 milardi di dollari di proventi del petrolio. Petrolio che viene estratto e distribuito da compagnie non libiche. La preoccupazione principale, ma forse verrebbe da dire unica, dell’attuale governo libico sono le infrastrutture energetiche e logistiche e non la sicurezza generale del paese.
Da oltre tre anni in Libia è in atto una guerra per bande, che vede tribù, gruppi etnici e religiosi, organizzazioni malavitose e terroristiche nonché contrabbandieri di ogni cosa in conflitto per garantirsi il controllo di una porzione di territorio che in qualche modo possa garantire loro lo sfruttamento delle immense ricchezze del paese o la sua posizione strategica. Allo stesso tempo è anche in corso una serie di vendette incrociate e un regime di totale impunità per tutte le attività summenzionate. Tale e tanta è la prepotenza di queste bande, e la debolezza di Tripoli, che il governo centrale non s’è mai neanche azzardato di esigere la consegna di Saif al Islam, il figlio di Gheddafi con lui imputato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, detenuto o sequestrato da qualche parte nella regione orientale del paese nella zona di Zintan. Il processo a uno dei Gheddafi avrebbe dovuto essere il simbolo della ricostruzione di una nuova Libia.
In un caos del genere, il 24 luglio scorso, con una decisione che ha dell’incredibile, la Camera d’appello della Corte penale internazionale ha deciso di consentire che il processo dell’altro co-imputato dei Gheddafi, Abdullah el Senussi, si tenga in Libia considerando il sistema penale libico non solo desideroso ma anche capace di poter garantire un processo secondo i più alti standard internazionali del giusto processo e dei diritti della difesa.
Negli ultimi giorni di resistenza del regime dei Gheddafi, in un intervento pubblico che agli “analisti” parve rasentare le parole di un indemoniato, il secondogenito di Gheddafi aveva avvertito che se la famiglia del Colonello fosse stata rimossa da Tripoli una infinita e sanguinosa guerra tra tribù sarebbe seguita. Non si trattava tanto di ascoltare Saif al Islam per lasciare lui e suo padre dove avevano governato da tiranni, si trattava di prevedere che dopo 40 anni di dittatura era ragionevole ipotizzare che all’ordine imposto manu militari avrebbe fatto seguito un caos distruttivo. Non solo nessuno ascoltò, o previde quel che poi puntualmente si verificò – o si assunse la responsabilità di gestire il cambiamento – ma dopo due promettenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, adottate all’inizio del 2011 ex Capitolo VII della Carta dell’Onu, cioè per mantenere la pace e la sicurezza internazionali, si è lasciato che la Francia partisse con un’azione militare senza che le Nazioni unite, che avevano dato mandato alla Corte penale internazionale di avviare un’indagine sulla commissione di crimini di guerra e contro l’umanità in Libia, fosse in controllo delle operazioni di “cambio di regime” come risposta dettata dalla pratica del principio della “responsabilità di proteggere”.
Nell’informare le commissioni esteri del Parlamento, la Ministro Mogherini ha affermato che la tregua annunciata in queste ore ha poche probabilità di durare, ma la speranza per una ripresa dell’ordine è affidata al Parlamento. “Serve un lavoro più forte su Eubam – la missione europea in Libia – che controlla le frontiere di terra. E serve un Parlamento insediato, anche per gestire i flussi di richiedenti asilo e la necessità di firmare le convenzioni internazionali che consentano alle Nazioni Unite di lavorare in Libia”. Parole sicuramente molto misurate, come sempre, ma che mi pare non colgano la gravità della situazione nella sua complessità e che insistano col tentativo di mediazione tra le parti in conflitto con l’assistenza dell’Egitto. Visto quel che accade in Parlamento in Italia in questi giorni, francamente non si capisce cosa possa far ipotizzare un comportamento maggiormente conciliante in un paese che non ha mai conosciuto la dialettica politica né la democrazia…
In aggiunta alle proccupazioni per la Libia e i libici, ci sono quelle per la situazione migratoria. Infatti, se al confine con la Tunisia si sta verificando il fenomeno inverso dei giorni della primavera di Tunisi con migliaia di “libici” che cercano rifugio a est, dalla costa continuano a partire imbarcazioni piene di disgraziati che cercano un futuro migliore in Europa.
Per quanto il caos libico abbia come principale “vittima” tutto il Mediterraneo, occorre che le Nazioni unite entrino in gioco quanto prima per evitare che, come ha affermato il vice-ministro Pistelli, la Libia diventi una nuova Somalia.
Il 23 luglio il Consiglio di Sicurezza discutendo di Libia si è limitato a esprimere la propria preoccupazione per le violenze nel paese e ha riaffermato la propria intenzione di continuare a seguire gli sviluppi auspicando che il Parlamento eletto il 25 giugno scorso possa finalmente iniziare a lavorare e risolvere le dispute politicamente. Mentre i 15 discutevano al Palazzo di Vetro, la missione dell’Onu UNSMIL veniva attacata dalle milizie.
Comunque vada la seduta inaugurale del nuovo parlamento libico, la cui data di inizio lavori ancora non è nota, è chiaro che la situazione non potrà esser gestita senza l’aiuto massiccio di un agente esterno con un mandato chiaro e dotato di risorse umane e finanziarie – a anche militari. Quell’agente non possono che essere le Nazioni unite. Prima se ne convinceranno a New York, e a Bruxelles, e meglio sarà per tutti.
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