Eutanasia, l’ammissione del medico: «Ho aiutato cento malati a morire»

L’INTERVISTA PUBBLICATA SU «L’UNIONE SARDA»
Giuseppe Maria Saba, 87 anni, già ordinario di Anestesiologia e rianimazione a Cagliari e Roma: «La dolce morte è una pratica consolidata negli ospedali italiani»
«Ho aiutato a morire un centinaio di malati. Non la chiamo anestesia letale ma dolce morte, è una questione di pietà». Faranno discutere le parole del medico anestesista sassarese Giuseppe Maria Saba, 87 anni, già ordinario di Anestesiologia e rianimazione all’Università di Cagliari prima e poi alla Sapienza di Roma, in un‘intervista esclusiva al quotidiano L’Unione Sarda. Una nuova testimonianza, nell’ambito del dibattito sull’eutanasia, e la volontà di parlare, «perché non ne posso più - ha spiegato Saba - del silenzio su cose che sappiamo tutti. Parlo dei rianimatori. La dolce morte è una pratica consolidata negli ospedali italiani, ma per ragioni di conformismo e di riservatezza non se ne parla». Saba si dichiara laico e dice di non credere ai miracoli. E - aggiunge - non è la prima volta che parla di dolce morte: «Nel 1982 in un’altra intervista ho raccontato di aver dato una mano ad andarsene a mio padre e, più tardi, anche a mia sorella», e di esser, per se stesso, «per l’auto-eutanasia. Ho un accordo preciso con mia moglie».
«Che senso ha l’agonia?»
Per essere in pace con la coscienza ed essere rispettosi del Codice deontologico dei medici - spiega ancora Saba nell’intervista -, alcuni parlano di “desistenza terapeutica” anziché di eutanasia ma «il termine desistenza, cioè smetto di ventilarti meccanicamente, significa che sto comunque staccandoti la spina». Alla domanda del giornalista Giorgio Pisano su quando è «il momento di intervenire», il medico risponde con un episodio: «Avevo un amico ricoverato: blocco renale e convulsioni. Il collega che lo seguiva mi ha chiesto: che facciamo? Ho risposto: io gli darei un Talofen. È un farmaco che, ad alto dosaggio, blocca la respirazione. Tecnicamente è un ganglioplegico. Credo gliel’abbiano dato, il Talofen. Il giorno dopo era in obitorio». Nella sua carriera (è in pensione dal 1999), Saba dice di aver aiutato i malati «quando era necessario, quando te lo chiedono e quando tu, nella veste di medico, ti rendi conto che hanno ragione. Che senso ha prolungare un’agonia, assistere allo strazio di dolori insopportabili che non porteranno mai a una guarigione?». Per questo, conclude, «non ho nulla di rimproverare a me stesso. L’ho sempre fatto di fronte a situazioni che non avevano altra via d’uscita». Saba aveva rilasciato dichiarazioni analoghe nel 2007 in un’intervista a La Nuova Sardegna, quando sui giornali si parlava di Giovanni Nuvoli, l’algherese malato di Sla che - come qualche anno prima Piergiorgio Welby - aveva chiesto di morire. Saba si era detto favorevole a una legge che, in casi particolari e accertata la volontà del malato, consentisse la dolce morte. E aveva confermato di aver aiutato dei malati terminali di cancro a morire: «Soffrivano le pene dell’inferno, sono stati loro a domandarmi di aumentare la dose di analgesico perché non volevano più restare in quelle condizioni».
Ferma la proposta di legge
Il dibattito sul fine vita è stato riacceso dopo le dichiarazioni di Mario Sabatelli, neurologo del Policlinico Gemelli, sulla libertà del malato di poter interrompere trattamenti sanitari invasivi. Ma il tema non è all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, nonostante l’invito rivolto a marzo al Parlamento dal presidente della Repubblica e le 70mila firme di cittadini che chiedono una legge che ne regolamenti gli aspetti principali. La proposta di legge di iniziativa popolare depositata dall’Associazione Luca Coscioni il 13 settembre si è arenata alla Camera: si propone di normare il testamento biologico, ovvero la possibilità di lasciare disposizioni per indicare quali trattamenti sanitari applicare in caso di coma irreversibile del paziente, e l’eutanasia, ovvero l’intervento medico volto ad abbreviare l’agonia di un malato terminale, ad oggi assimilata all’omicidio volontario. «È un grande tabù per gli italiani mentre molti altri Paesi europei sono avanti - commenta Mina Welby, co-presidente dell’associazione Coscioni, che ha inviato una lettera a Renzi sul tema -. L’Italia è sorda e chiediamo al premier di spingere affinché il Parlamento calendarizzi la proposta ferma da 300 giorni». Sono oltre 120 i comuni che hanno adottato autonomamente il testamento biologico e altri si stanno attrezzando per farlo. Sul tema esistono anche altri tre disegni di legge in questa legislatura, di cui però non è mai iniziato l’esame in Commissione: due al Senato, ovvero quelle di Di Francesco Palermo (Aut-Psi-Maie) e di Luigi Manconi (Pd) e uno alla Camera, quello di Titti Di Salvo (Sel). A questi si aggiunge il testo cui sta lavorando il Movimento 5 stelle. «Non è all’ordine del giorno tra le priorità, ma stiamo già lavorando a una proposta di legge. I tempi non saranno brevi, perché deve passare il vaglio della rete», spiega Andrea Cecconi, presidente del gruppo Movimento 5 Stelle in Commissione Affari Sociali della Camera.

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