Per chi non ama “I BUONI”, ed i buonismi
Il romanzo di Luca Rastello incontra l’approvazione di quanti già erano perplessi di fronte al “Culto della legalità”.
Il Fatto, 29.3.14, p.15. Daniela Ranieri [citata da Rastello nel precedente articolo GRAF] recensisce, previa lettura, una storia di preti, di ultimi e di missioni: la Parigi umida dei nuovi miserabili sta oggi nel sottosuolo della metro di Bucarest; è un popolo di reietti, creature degli scoli, annusatori di colla, ragazzine sventrate al quarto mese di gravidanza. Luca Rastello li racconta assediati dal demone del degrado e dal demone della salvezza, molto più subdolo, nel suo I BUONI [Chiarelettere]. Tutti devastati dall’Aids, unica eredità in terra; visitati da gente della superficie: falsi samaritani che vengono a dire “colla ti fa male, prendono ragazza, dicono “vieni” e invece picchiano”. Tra questi, i buoni, operatori sociali venuti a redimere la loro vita di spine. Uno di loro porta Aza, ragazza dal corpo segnato dal grafismo delle ferite, in Italia, nel rivitalizzante fiorire di progetti della Ong per cui lavora. E’ la parola magica, progetto: l’opera di bene che si trasforma in marketing, in start-up, nel generale passaggio dalla beneficenza all’industria della carità. La accoglie don Silvano, prete leader cinto dall’aura del carisma, impegnato nella lotta alle “mafie“ e nella torsione delle coscienze sotto l’etichetta di buono di professione. Dei miserabili è padre padrone, oltre che dio che agita il feticcio della compassione: il fardello del prestigio che già fu dell’uomo bianco; il crocifisso brandito come un’arma del bene che invece fa il male, come Faust; la logica annichilente del Grande Inquisitore di Dostoevskij, non a caso citato in epigrafe. Dal tanfo della fogna i miserabili accedono al falso biancore di quello scandalizzare i fanciulli a cui la tonaca ha offerto spesso la miglior copertura. Qui, come si confà al clero pop e barricadero, la tonaca è un maglione scucito, che fa il paio col tono da rapper evangelico e un narcisisismo da toreri del bene. Difficile non vedere nella figura di don Silvano il travestimento di don Ciotti, con cui Rastello ha collaborato negli anni di volontariato presso il Gruppo Abele, allontanandosene poi con delusione. Che Rastello abbia levigato il sasso della sua esperienza facendone una scoria nera è una supposizione che il lettore fa sulla base della sua biografia anche se non autorizzato a farlo, come avvisa l’autore attribuendo tutto alla sua fantasia. Ma non si può non sentire l’attuale che strilla sotto le sue analogie.
Negli ultimi anni l’attivismo sociale si è concentrato attorno a figure di leader telegenici; la santità ha scoperto la via del glamour. Si è creata una linea al di là della quale i buoni operano e sono incriticabili, e al di là si staglia la massa degli indifferenti e dei complici. Oltre la tradizione, poggiata sull’egemonia consolidata dell’oratorio e dell’aiuto ai poveri, si fonda una nuova mitologia dissidente, popolare, apparentemente meno scaltrita dell’istituzione su cui fonda la sua credibilità, ma anche più croccante e seducente. Che spesso si persegua il bene (o la sua faccia imbiancata) facendo il male non appartiene solo all’epica. Gli abusi suscitano riprovazione, ma poche volte si sottolinea l’ambiguità della denuncia e dello sdegno. Di chi si dichiara buono, e avanza tutto bianco contro il nero, tutto integro contro la corruzione. L’ha fatto Leonardo Sciascia, parlando dei professionisti dell’antimafia. Rastello scrive dei mestieranti della carità, santi di una missione pret-à-porter che se produce reali e lodevoli opere buone, sostiene anche quel dispositivo dell’indignazione a comando che finisce per anestetizzare e fornire alibi alla cattiva coscienza.
Il male può essere assoluto. L’acido che scioglie i bambini vittime della mafia non può essere anche buono, oltre che cattivo. Ma non tutti i mezzi per contrastarlo sono leciti: il male minore è un alibi dei sistemi totalitari. L’encomio per le battaglie di legalità, spesso condotte coi toni assolutisti e perciò violenti di chi sa di aver la verità in tasca, occulta che la complessità dei rapporti tra una società disillusa e cinica e la psiche spesso divorata dalla cocente volontà di piacere e di autoassolversi, porta, come scriveva Nietzsche, a indossare la più scontata e feroce delle maschere: quella dell’eroe civico, del compassionevole furbo. Così, nel bel libro di Rastello, don Silvano maneggia il potere attraverso la creazione di una potente retorica dei valori: la speranza, il futuro, la responsabilità, l’azione. Tutti tesi a ricattare e colpevolizzare chi non si sporca le mani, chi vive una vita di non-militanza e che non combatte con l’assolutismo maiuscolo e trafelato del Fondatore. Di colui che, apparentemente in pace con la propria coscienza, ingaggia una lotta individuando un nemico, prende posizioni eterodosse rispetto a una qualche dottrina ufficiale o crea una setta che lo riconosce come Capo. L’uso dei media, del corpo, della tv, di Internet, perfeziona la credibilità del Santo in vita, del Paladino del Bene che urla la propria apologia insieme a quella dei deboli che vuole salvare e assorbire. La stessa parola missione ha squadernato la sua ambiguità nel secolo dell’imperialismo e della conversione coatta dei selvaggi. Ogni crociata, pure quella della legalità, – che non può mai essere un valore astratto – necessita di un’arma, e l’arma dei buoni è da sempre la più pericolosa.
Il viaggio di Aza dall’Est Europa alla comunità torinese di don Silvano. Aza è una ragazzina che vive nei cunicoli di una città dell’est europeo dove i bambini sniffano colla e la violenza è l’unico linguaggio. Fra loro si muovono Andrea, operatore umanitario di una grande Onlus italiana e Mauro, fotografo, destinati però a ripartire presto. Ma un giorno Aza va in Italia, dove sarà accolta dalla Comunità di don Silvano, il prete carismatico che, mente salva poveri e reietti, dandogli casa e lavoro, parla a tu per tu con i Potenti. Con lo sguardo di Aza, il libro racconta l’ambiguità dei buoni e le contraddizioni, che sconfinano nell’illecito, di un’organizzazione a metà tra missione e azienda. Un mondo senza utopia dove la retorica della legalità e della memoria delle vittime spesso nasconde ambizioni e fragilità (specie dei protagonisti maschili). E in cui Aza, pure venuta dall’inferno, non troverà alcuna salvezza. [Eli.Amb.]

Fonte: http://grupporadicaleadelefaccio.wordpress.com/2014/04/07/per-chi-non-ama-i-buoni-ed-i-buonismi/
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