Droga. Perché legalizzare

di Michele Minorita, da “Notizie Radicali”, 18-06-2013

Da oltre quarant’anni i radicali propongono che alla droga libera, quella che si trova dappertutto, all’angolo della strada, nelle scuole o in carcere, si sostituisca una serie di misure per regolamentarne per legge la presenza nella società. Piuttosto che fare la guerra alle piante come la canapa indiana, la foglia di coca o il papavero e ai prodotti raffinati stupefacenti, occorre affrontare il fenomeno non come un problema di ordine pubblico, bensì come un problema di salute per coloro che ne fanno un uso problematico. 

L’antiproibizionismo radicale non è una posizione esibita in campagna elettorale per sedurre gli elettori più giovani, bensì una lotta politica che, in virtù della convinzione che una legge ingiusta e liberticida debba essere disobbedita, è stata portata avanti per due decenni con referendum abrogativi, proposte di legge di iniziativa popolare, iniziative nonviolente, disobbedienze civili e mobilitazioni internazionali per una riforma delle tre Convenzioni ONU in materia di stupefacenti.

Negli ultimi vent’anni, una quarantina tra dirigenti e militanti radicali si sono fatti processare per aver distribuito gratuitamente hashish sulla pubblica piazza, 13 di loro, tra i quali Marco Pannella, Rita Bernardini e Sergio Stanzani, a causa di ciò, non possono essere candidati a elezioni regionali, comunali, provinciali; alcune sentenze di assoluzioni hanno fatto giurisprudenza e sono servite a non far finire in galera giovani colpevoli solamente di essere consumatori di sostanze oggi illegali ma certo non più dannose di alcol e tabacco liberamente acquistabili.

Nell’autunno 2005, Emma Bonino, di rientro dall’Afghanistan dove ha guidato la missione di monitoraggio elettorale dell’Unione Europea, propone al Parlamento Europeo e i 27 stati membri dell’UE di rivedere la loro politica fallimentare di eradicazione dell’oppio afgano. Questa raccomandazione, adottata a maggioranza dal PE, viene poi fatta propria per ben due volte dal governo Prodi, grazie all’iniziativa di Sergio D’Elia, deputato della Rosa nel Pugno, con delibere formali della Camera. Nell’ottobre del 2007 il PR adotta un rapporto preparato dall’eurodeputato radicale Marco Cappato. Che chiede la possibilità di utilizzare il papavero afgano per farne medicine per la cura del dolore per i paesi poveri.

L’antiproibizionismo radicale non è per la liberalizzazione delle droghe come spesso si dice banalizzando un discorso che invece richiede anche attento soppesare delle parole, dei termini, del loro significato; l’antiproibizionismo radicale propone delle misure di regolamentazione legale del fenomeno degli stupefacenti per aiutare i tossicomani ad affrontare i propri problemi di salute e per dare la possibilità a tutti di scegliere debitamente informati cosa riteniamo essere meglio per noi stessi liberi da imposizioni dogmatiche e ideologiche.

Un discorso organico sulla droga”, ci ricordava un nostro compagno che non c’è più, Giancarlo Arnao, uno dei massimi esperti in materia, “non può prescindere da una discussione sul “proibizionismo”, cioè sull’apparato legale repressivo di controllo dell’uso di droghe, ispirato e condizionato dalla “Convenzione unica del 1961”, sottoscritta da tutti i paesi aderenti all’ONU”.

Fondamentalmente il “proibizionismo” nato con tre obiettivi fondamentali (la tutela sociale, sanitaria e quella della prevenzione sull’uso-abuso di droghe), non solo ha avuto una riuscita e un esito assolutamente insoddisfacente, ma ha creato una serie di “meccanismi perversi” che hanno ulteriormente aggravato le situazioni che si proponeva di correggere.

Infatti, sul piano della tutela sanitaria, il “proibizionismo” ha aggravato:

  • 1) la salute dei tossicodipendenti, privilegiando la presenza sul mercato delle sostanze più tossiche rispetto a quelle meno tossiche;
  • 2) ha privilegiato le somministrazioni più pericolose a quelle meno pericolose perché le prime permettono una minore spesa;
  • 3) ha creato un mercato “nero” in cui la sostanza non dà alcuna garanzia di qualità e questo determina i maggiori rischi di morte per il consumatore;
  • 4) ha costretto i tossicodipendenti a modi di vita precari per l’alto prezzo delle sostanze offerte dal mercato nero, con conseguenze gravi per la loro salute.

Inoltre, osservava Arnao, il proibizionismo ha aperto le porte alla nascita e allo sviluppo delle più estese e potenti organizzazioni criminali della nostra epoca attorno al traffico di droga: “L’infiltrazione del grande business sulla droga nelle istituzioni di molti paesi è ampiamente l’elemento decisivo della sua inattaccabilità dalla repressione giudiziaria. E’ evidente invece che il proibizionismo mantiene una sua funzionalità sul piano della repressione diretta ed unilaterale. D’altra parte l’efficacia del messaggio deterrente si è progressivamente annullata, dando luogo a effetti opposti a quelli che si prefiggeva: infatti è aumentato rapidamente l’uso di massa delle sostanze proibite”.

Il proibizionismo nasce nel 1914 negli Stati Uniti, e rapidamente viene adottato da altri paesi e per altre sostanze. Salvo poche eccezioni, si può dire l’uso di droghe sia aumentato in tutti i paesi.

Come è stato possibile che un apparato di controllo creato per stroncare un’attività illegale abbia invece coagulato attorno a tale attività una gigantesca struttura organizzata? E’ avvenuto quello che si può definire il “paradosso della repressione marginale”: un meccanismo perverso il cui dato di partenza consiste nel fatto che la repressione non riesce a incidere sul traffico che in una misura marginale (gli esperti calcolano che non si superi i 15 per cento). La “marginalità” della repressione è chiaramente insufficiente come strumento di dissuasione per i livelli più alti della organizzazione del traffico; è però sufficiente per concretare per i livelli “bassi” e “medi” della distribuzione un margine di “rischio”, che si traduce in un altissimo margine di profitto. La combinazione di questi due fattori (margine di rischio + margine di profitto) privilegia la criminalità organizzata rispetto a quella “spicciola” e artigianale; potenzia le grandi organizzazioni; permette margini di profitto talmente elevati da consentire collusioni e complicità istituzionali. Le infiltrazioni del grande business della droga nelle istituzioni di molti paesi è ampiamente documentata, e costituisce l’elemento decisivo della loro inattaccabilità dalla repressione. Si perpetuano così i presupposti per cui la repressione è destinata a rimanere marginale.

E’ ormai un unanime dato acquisito che il traffico della droga sia un’arma puntata contro l’intero pianeta. Lo sostengono i documenti ufficiali di singoli governi, le indagini della Comunità europea, le relazioni dei servizi segreti statunitensi, i rapporti dell’organo di controllo sugli stupefacenti delle Nazioni Unite. A fronte di questa mole di documenti e autorevoli studi, si assiste alla tetragona politica dei governi, che non hanno il coraggio di modificare la politica di repressione penale del consumo e del commercio delle droghe adottata col massimo del rigore a partire dal 1961, anno della convenzione ONU di New York, e anzi, spesso le inaspriscono. Ammettere il fallimento del proibizionismo significherebbe per molti riconoscere un errore quasi trentennale; continuare nella politica di proibizione giustifica il passato e consente al tempo stesso di conservare gli eccezionali privilegi economici e di status che le organizzazioni sovranazionali e i singoli Stati assegnano ai professionisti dell’antidroga. E’ l’ONU stessa ad affermare con cruda chiarezza che “l’uso delle droghe illegali, tanto naturali che sintetiche, ha conosciuto una crescita così rapida negli ultimi vent’anni che minaccia oggi tutti i paesi e tutti gli strati sociali. La produzione e fabbricazione clandestina di droghe tocca un numero crescente di paesi, in numerose regioni del mondo. Tali attività, che raggiungono proporzioni allarmanti, sono finanziate e dirette da organizzazioni criminali che hanno ramificazioni internazionali e beneficiano di complicità nel sistema finanziario. Avendo a disposizione fondi pressoché illimitati, i trafficanti corrompono i funzionari, diffondono la violenza e il terrorismo, influenzano l’applicazione delle convenzioni internazionali per la lotta contro la droga ed esercitano nei fatti un vero e proprio potere politico ed economico in molte regioni del mondo”.

La Narcocrazia
Una situazione che non è esagerato definire come Narcocrazia. Sono le quotidiane cronache a documentare come gli enormi capitali che la criminalità organizzata ricava dall’industria della droga sono diventati la principale fonte di violenza, corruzione e degrado sociale; al tempo stesso costituiscono un gravissimo ostacolo allo sviluppo delle potenzialità delle zone più povere del mondo e di quelle situate all’interno dei paesi industrializzati. Una somma oscillante fra i 500 e gli 800 miliardi di dollari si riversa ogni anno nelle casse delle organizzazioni mafiose internazionali. Il denaro della droga invade gli istituti della società civile, le banche, la Borsa, le attività economiche legali ed illegali, si trasforma in corruzione, ricatto, violenza armata nei confronti delle istituzioni giudiziarie e politiche.
Una situazione perversa, un circolo vizioso: il denaro della droga alimenta la criminalità, la criminalità alimenta il mercato della droga. Il numero di tossicodipendenti da eroina aumenta di anno in anno, perché ogni nuovo arrivato è costretto, per pagarsi la dose quotidiana, a diventare immediatamente il commesso viaggiatore dell’eroina. Oppure a rubare, uccidere, prostituirsi. Ogni anno sono milioni nel mondo le vittime di una violenza insensata, che non appartiene alla natura né della droga né dei drogati, ma ad una necessità imperiosa di denaro, provocata da una legge folle e disumana. Denaro che finirà ad arricchire e rendere più forte e sempre più invincibile lo stesso nemico che la proibizione vorrebbe debellare e la cui potenza invece non riesce neppure a scalfire: ogni anno viene bloccato e sequestrato appena il 5-10% delle droghe in circolazione sui vari mercati.

La legalizzazione della produzione, commercio e vendita delle droghe oggi proibite e la loro equiparazione a “droghe” già legalizzate – almeno in molti paesi – come l’alcool (dal vino ai superalcolici) e il tabacco, comporterà che il loro prezzo diminuirà del 99 per cento; le mafie internazionali subiranno una sconfitta che neppure la coalizione di tutti gli eserciti è oggi in grado di imporre; le organizzazioni criminali perderebbero così una fonte essenziale di ricchezza, causa e principio della loro invincibilità. La legalizzazione cancellerebbe la stessa ragion d’essere di milioni di atti di violenza compiuti ai danni di persone per lo più deboli e indifese. Al tempo stesso libererebbe forze dell’ordine e magistratura dal peso di questi reati dando automaticamente ad esse efficienza e capacità di intervento a tutela della sicurezza della cittadinanza. Renderebbe disponibili denaro, risorse e mezzi per campagne di dissuasione e per il recupero dei tossicomani oggi investite in inutili caccia all’uomo.

Riflessioni sul presente e sul futuro
Riguardo a quanto abbiamo accennato sopra, sono utili le “riflessioni sul presente e sul futuro” di uno studioso, Aldo Pastore, che da tempo si dedica al problema.

Il proibizionismo aiuta le mafie
Nel quotidiano turbinio di Notizie Web, televisive e giornalistiche è passato, quasi in silenzio, “Il Rapporto War on Drugs”, pubblicato dalla Global Commission on Drug Policy; mi permetto di aggiungere che si tratta di una voce assai autorevole, essendo, essa, pronunciata da una Commissione Indipendente, voluta dalle Nazioni Unite (ONU) per esaminare nel dettaglio ed, eventualmente, rielaborare la politica globale sulla droga.

Ed allora, nel silenzio quasi assoluto di notizie che riguardano questo specifico argomento, vediamo di leggere assieme la parte iniziale di questo rapporto:

  • la guerra alle droghe è fallita
  • ha avuto conseguenze devastanti per persone e società in tutto il mondo
  • c’è bisogno urgente di un cambiamento radicale nella politica di controllo delle sostanze stupefacenti.

Si tratta di affermazioni drastiche che sconfinano nella drammaticità, ma che, purtroppo, vengono avvalorate dalla lettura dei dati, riportati nel Rapporto stesso. Pietro Greco, in un suo pregevole servizio giornalistico (datato 20 giungo 2011), ha sintetizzato il tutto in queste parole: “50 anni dopo la Convenzione dell’Onu sulle sostan ze stupefacenti e 40 anni dopo che Richard Nixon ha dichiarato la «guerra alla droga», il risultato è che le so¬stanze stupefacenti sono più diffuse che mai: dal 1998 al 2008 i consuma tori di oppiacei nel mondo sono passati da 12,9 a 17,4 milioni con un incremento del 34,5 per cento; i consumatori di cocaina sono passati da 13,4 a 17 milioni con una crescita percentuale del 27 per cento; i consumatori di cannabis, infine, sono passati da 147,4 a 160 milioni con un incremento dell’ 8,5 per cento.

Ma dall’esame del “Rapporto War on Drugs” emergono ulteriori elementi, che vengono ad aggiungersi ad altre precedenti comunicazioni (con relativi commenti); ecco in estrema sintesi, la reale situazione attualmente esistente in questo settore a livello planetario:

  • 1) Le mafie mondiali sono più ricche e potenti che mai. Malgrado non siano mancati successi, per così dire, militari e numerose bande di trafficanti siano state sgominate, le Organizzazioni Malavitose che, a livello mondiale, gestiscono il Mercato della Droga, si sono dimostrate invincibili e simili ad idre dalle cento teste: se ne toglie una e, subito dopo, ne spunta un’altra.
  • 2) Le scelte politico-economiche perseguite, sino ad ora, dall’ONU per liberare i contadini dell’Afghanistan dalla schiavitù dell’oppio, incentivando altre produzioni agricole, non hanno dato i risultati sperati, per la semplice ragione che, ad un contadino afghano, la rendita finanziaria, derivata dalla coltivazione dell’Oppio, (anche se modestissima, se noi la rapportiamo agli ampi guadagni di tutti gli altri componenti della vasta filiera di addetti allo spaccio) è, tuttavia, superiore di almeno dieci volte rispetto a quella riferita ad altre produzioni agricole, anche se fondamentali per l’alimentazione umana.

Analogo discorso può essere fatto, per quanto concerne la Colombia; d’altra parte, già nell’Anno 2008, la situazione, esistente in questa Nazione, era stata descritta dal quotidiano “The Indipendent”: “…Gli interessi del narcotraffico si inseriscono nel quadro di una situazione politica precaria, intrecciandosi a quelli dei guerriglieri rivoluzionari della FARC e dei paramilitari delle AUC. I fiumi di denaro che scaturiscono dal mercato della droga rappresentano l’elemento fondamentale che alimenta un conflitto sanguinoso di fronte al quale il governo si rivela impotente: ogni anno, circa 3.000 colombiani perdono la vita in agguati ed attentati terroristici. E’ un bilancio da guerra civile, cui si aggiungono i tre milioni di rifugiati: uomini, donne, bambini costretti ad abbandonare le loro case, comunità rurali e tribù locali, schiacciate dalla violenza dei trafficanti. La lotta per l’influenza politica e per il controllo del territorio è spietata e fa largo uso dello strumento dei sequestri: sono più di 2.000, oggi, gli ostaggi in mano ai rapitori. Ma, è una guerra che miete vittime anche con le mine, piazzate da Narcos e guerriglieri a protezione delle coltivazioni di coca; dal 1990, quasi 500.000 persone sono state uccise o mutilate dall’ esplosione di questi ordigni. Spietati e scaltri, i Narcos, per salvare la loro fonte di guadagno, invadono le riserve protette per deforestarle e convertirle in piantagioni di coca. E’ uno sfregio ambientale, che si aggiunge alla tragedia umanitaria, in uno scenario di crisi endemica che, ormai, non fa più notizia: mentre in Europa ed in America si consuma, sempre di più, coca, la verde Colombia è in ginocchio.

Per completezza d’esposizione, aggiungo a queste incontestabili considerazioni di “The Indipendent” che:

  • La Colombia è la maggior produttrice di coca al mondo (il 60 per cento del totale) la quantità di cocaina, prodotta nel 2008 è stato pari a 843 tonnellate;
  • Il prezzo approssimativo di un chilogrammo di coca in Colombia è pari a 1900-2000 dollari (dato dell’anno 2009)
  • Prezzo approssimativo di un chilogrammo di coca in Europa è pari a 40.000 dollari (dato dell’anno 2009)

Esaminata, dunque, la situazione Socio –Economica dei due maggiori produttori mondiali di oppio (Afghanistan) e di cocaina (Colombia), possiamo e dobbiamo constatare (dati alla mano) che la politica proibizionista, portata avanti a livello globale viene ad essere incompatibile (in modo drastico ed incorreggibile) con la condizione politica, ambientale ed umanitaria di entrambi i paesi.

  • 3) Ma l’approccio repressivo non ha determinato solo il fallimento nel contrasto alla diffusione della droga e all’illegalità. Vi sono state, sostiene la Global Commission on Drug Policy, altre conseguenze negative: la criminalizzazione delle persone che consuma no sostanze stupefacenti (che creano dipendenza) si è trasformato in uno marco negativo che ha concretamente impedito la pre¬venzione e la cura di malattie gravi, come l’Aids.

Nelle nazioni che hanno un approccio meno repressivo nel trattamento dei consumatori di droga (come la Germania, la Gran Bretagna, la Svizzera, l’Australia) l’incidenza della contaminazione l’Hiv tra chi si inietta stupefacenti è sempre inferiore al 5 per cento, mentre risulta superiore al 10 per cento in Francia o Malaysia, e addirittura al 15 per cento in Portogallo e negli Usa, ovvero nei Nazioni che posseggono una metodologia più repressiva.

Non a caso, a trent’anni di distanza dalla scoperta del primo caso di AIDS (6 Giugno 1981), questa affezione virale continua ad essere considerata la peggiore pandemia della storia dell’umanità, con oltre 60 milioni di infezioni, quasi 30 milioni di morti e nessuna cura definitiva in vista (Organizzazione Mondiale della Sanità).

E’ necessario dunque cambiare strategia: così sostiene la Commissione dell’ONU, composta non solo da politici, e che si avvale dell’apporto tecnico e scientifico di gruppi internazionali di esperti. D’altra parte, già in un recente passato, anche alcuni economisti si erano pronunciati per una radicale metodologia di confronto con il problema droga: in particolare, lo studio, condotto negli Stati Uniti da Gary Becker (Premio Nobel per l’Economia nell’anno 1992) e pubblicato, nel 2006, dal “Journal of Political Economy”. Ovviamente, l’argomento interessa anche (ed in misura significativa) l’Italia; In proposito è sempre utile la lettura di quanto lo stesso Pastore aveva scritto il 30 Novembre 2009:

  • Dobbiamo prendere atto dei fallimenti raggiunti dall’attuale strategia, rigorosamente proibizionista, sostenuta dal Governo Italiano; abbiamo sempre sentito parlare di linea dura e tolleranza zero nei confronti di chi fa uso di droghe (anche leggere).

Quali sono stati i risultati, assolutamente negativi, sino ad ora raggiunti? Eccoli:

  • Ulteriore diffusione, su tutto il territorio nazionale del fenomeno droga, inteso non soltanto come aumento del numero dei consumatori, ma, soprattutto, del numero degli spacciatori, i quali, con il trascorrere del tempo, hanno modificato, addirittura le loro caratteristiche tipologiche, nel senso che non si tratta più di soggetti in età minorile o di poveracci, rivestiti con abiti dimessi, ma di soggetti di alto rango, in giacca e cravatta, legati, per di più, ad altre attività illegali o, addirittura malavitose;
  • Di conseguenza, otteniamo un ulteriore aumento della criminalità, con il progressivo sorgere ed accentuarsi dei legami intercorrenti tra il mercato della droga ed il mercato dell’usura (sempre più diffuso) con il dilagante settore dell’edilizia residenziale e abitativa abusiva e con il mercato dell’esportazione illegale dei capitali in banche extra-nazionali;
  • Massiccio, ma sopratutto, irrazionale impiego delle forze dell’ordine, che ha condotto e condurrà sempre di più in avvenire, a causa dell’illogicità dell’attuale sistema repressivo, ad un aumento degli arresti e ad una diminuzione dei sequestri;
  • Straordinario sovraccarico operativo dei nostri tribunali, con evidente crisi della giustizia, che rischia di condurre alla paralisi l’intero Sistema Giudiziario; impegnato a discutere, prevalentemente, il reato di detenzione e consumo di droga;
  • Innaturale sovraffollamento delle carceri: pensiamo in proposito, che oltre un terzo dei detenuti italiani è imprigionato per spaccio o uso di sostanze stupefacenti;
  • Lo squilibrio finanziario, che l’intero mercato della droga arreca alle Casse del nostro Stato; noi tutti lo possiamo riassumere in questa complessiva tipologia di spesa (Poliziotti – Tribunali – Carceri) e possiamo facilmente immaginare quanto essa venga ad incidere sulla nostra fragile economia.

Nasce da queste considerazioni, fatte proprie dalle Nazioni Unite, l’esigenza di percorrere strade nuove: occorre favorire gli innovativi esperimenti con programmi di assistenza, in uso, ormai consolidato, in molti Paesi Europei e in Canada; occorre, soprattutto, rispettare i diritti umani dei tossicodipendenti, abolendo tutte quelle pratiche (come la Detenzione Forzata, il Lavoro Forzato, la Coercizione Fisica e Psichica) che vengono spesso utilizzate come trattamento e che, sostiene la Commissione ONU, devono essere considerate abusive.
Dobbiamo infine, avviare una NUOVA POLITICA in questo settore, partendo da questo fondamentale concetto:

I danni arrecati all’intera nostra società dal mercato della droga non derivano tanto dai consumatori, quanto, invece dagli spacciatori internazionali e nazionali che sovrintendono all’intero settore. Dobbiamo quindi dare battaglia (con concrete possibilità di vittoria) ai gestori, grandi e piccoli di questo mercato. Dobbiamo infine creare opportunità di vita(e cioè di studio, formazione professionale, lavoro, cultura e divertimento) per le giovani generazioni fondando il mondo del futuro su alti e innovativi valori etici ed ideali”.

Esistono poi accurati studi – uno per tutti: “Governing Through Crime”, del professor Jonathan Simon, docente alla Boalt Hall School of Law a Berkeley in California – che raccontano e documentano come e quando è avvenuto che la nostra quotidianità divenisse preda della paura, e che ciascuno di noi iniziasse a percepire la stretta di un controllo sempre più opprimente, quasi fossimo tutti potenziali criminali. Il discorso del professor Simon porta lontano: la percezione della “centralità” del crimine nella vita sociale ha contribuito, sostiene, a ridefinire i poteri del governo, il ruolo della famiglia, la posizione dell’individuo nella società: negli Stati Uniti prima, in tutto il mondo occidentale poi. Conclusione inquietante: l’ossessione per la criminalità avrebbe innescato politiche di controllo penale capace di minare le fondamenta stesse della convivenza democratica. Ossessione per e della criminalità in cui la questione “droga” ha giocato un ruolo non secondario, alimentato dal “proibizionismo”. Sembra un paradosso, ma assai meno di quanto possa sembrare a prima vista, l’affermazione dello psichiatra Tomas Szasz: “Nella storia del genere umano molte più persone sono state ferite ed uccise dalle leggi che dalle droghe, dai politicanti che dagli spacciatori. Noi ignoriamo questa lezione a nostro rischio e pericolo”.

Un po’ di storia. La prima legge antidroga in Italia risale al 1923: la linea era quella della penalizzazione delle condotte individuali del consumo, e non solo la produzione e lo spaccio. Poi occorre fare un “salto” di cinquant’anni, quando nel 1975 viene varata la legge 685: il consumatore che non sia anche spacciatore e non detenga grandi quantitativi di droga, viene considerato come una persona da curare e riabilitare. Ancora quindici anni e si arriva alla legge 162, più nota come Jervolino-Vassalli: legge che si muove sul solco delle politiche repressive varate negli Stati Uniti dalla presidenza Reagan; una normativa che inasprisce ulteriormente le pene . Nel 1993 un referendum promosso dai radicali abroga gli articoli più significativi della Jervolino-Vassalli: l’uso personale e la cessione finalizzata al “consumo di gruppo” non sono più puniti. E si arriva infine alla cosiddetta Fini-Giovanardi, la legge 309 del 2006: che inasprisce le sanzioni e rende l’uso e lo spaccio di qualunque sostanza equivalenti, eliminando le distinzioni tra droghe cosiddette “leggere” e droghe “pesanti”.

Qui ci aiuta un recente studio curato da Guido Mario Rey, Carla Rossi, Alberto Zuliani, “Il mercato delle droghe:
“Secondo le stime disponibili, 3 milioni di Italiani consumavano regolarmente sostanze stupefacenti, nel 2009, mentre mezzo milione erano “consumatori problematici”, ossia consumatori abituali di cocaina, oppiacei o amfetamine con una lunga storia di uso alle spalle. A queste stime si affianca la percezione di una forte diffusione del fenomeno fra i giovani, alla quale manca tuttavia spesso il fondamento di valutazioni quantitative affidabili. La stima della diffusione del consumo di droga è infatti resa difficile dalla difficoltà di definizione dei “confini” (ad esempio, fra uso e abuso), dal ricorso dei consumatori a differenti sostanze psicotrope, illegali e legali, dall’aumento del consumo senza prescrizione dei farmaci anche da parte di giovanissimi, spesso insieme all’alcol. Le carenze informative si riflettono nella difficoltà di disegnare modalità di intervento appropriate”.

Il Dipartimento per le Politiche Antidroga con L’Università di Roma “Tor Vergata”nel 2010 ha svolto un’indagine su un campione di circa 38 mila studenti delle scuole secondarie: il 27% degli alunni (di tutte le età) ha dichiarato di aver provato almeno una sostanza prima dell’intervista; il 22% negli ultimi dodici mesi, e il 14% negli ultimi trenta giorni. Un terzo di questi ultimi ha usato droghe prima dei 15 anni: cannabis sopratutto, ma anche tranquillanti e cocaina.
Per quanto riguarda il mercato della droga, le stime del fatturato fino al 2009 oscillavano fra 6 e 11,4 miliardi di euro. Utilizzando congiuntamente dati amministrativi e risultati di indagini è stato possibile nel 2010 aggiornare la stima in circa 24 miliardi di euro. Gran parte dei profitti vengono incassati dagli operatori delle fasi intermedie fra la produzione e la vendita al dettaglio (coordinamento della produzione, traffico internazionale, grossisti nazionali); una quota rilevante è trattenuta dai grandi spacciatori e dalle organizzazioni criminali; una parte residuale va agli spacciatori al dettaglio “di strada”, che spesso sono anche consumatori problematici e non hanno sufficienti risorse economiche per soddisfare la loro dipendenza. Buona parte dei profitti viene riciclata in attività legali producendo inquinamento e distorsione nell’economia legale.

1)Segue

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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=11457&utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=droga-perche-legalizzare

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