Commemorazione di Antonio Maccanico. Intervento di Luigi Compagna al Senato della Repubblica

Da www.senato.it pubblichiamo che il senatore Luigi Compagna, iscritto all’associazione radicale “Per la Grande Napoli”, ha tenuto l’8 maggio scorso per ricordare Antonio Maccanico, recentemente scomparso.

Senato della Repubblica, Legislatura 17ª – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 020 del 08/05/2013

LUIGI COMPAGNA (GAL). Signor Presidente, anche i senatori del nostro Gruppo si associano al ricordo di questo straordinario protagonista della storia d’Italia.

Su Antonio Maccanico l’espressione e l’immagine del grand commis d’Etat era ricorrente e probabilmente continuerà a seguirlo nelle biblioteche. Questa espressione e questa immagine traducono un desiderio di Stato e quindi di apprezzamento autentico per gli autentici servitori dello Stato, apprezzamento che storicamente è possibile far risalire alle radici del Risorgimento. Non c’era tanto, né nelle radici del Risorgimento, né nella formazione giovanile di Maccanico un desiderio di Francia in Italia o una qualunquistica contrapposizione alle cattive abitudini del grande mondo politico in nome delle buone abitudini di un piccolo mondo antico di burocrazie specializzate, quanto quello di voler essere e sentirsi civil servant, come si usa dire oggi. È una idea alla quale, nel caso di Maccanico, corrispondeva una grande passione etico-civile, quella passione che ne aveva divorato e insieme moderato l’esperienza di ragazzo in una famiglia della migliore borghesia avellinese (il papà Alfredo credo fosse un commercialista), una famiglia che al Risorgimento aveva sempre guardato con particolare commozione.

I libri di Adolfo Omodeo sui ruoli di Cavour e Mazzini nella storia europea – ruoli complementari, ricordava sempre Maccanico – erano stati i libri più importanti, forse quelli decisivi, della sua giovinezza. La cultura politica mai come cultura di parte o di partito; l’equilibrio e l’indipendenza di giudizio nel valutare aspettative, profili e procedure dello Stato di diritto (altro che Stato etico!), l’Italia in Europa e l’Europa in Italia come irrinunciabile vocazione risorgimentale del nostro avvenire: questo è stato Maccanico e in questo egli fu un autentico grand commis, nella scia di quella straordinaria ispirazione che alle origini della Repubblica era stata dei Beneduce, dei Menichella, dei Carli, dei Saraceno e dei Baffi. Costoro erano dei grandi tecnici ma, proprio per questo, erano politici di prim’ordine ed erano caratterizzati da un sentimento di rispetto e di amore, mai di avversione, per l’attività politica. Non è vero quindi che Maccanico avesse scoperto la politica a più di sessanta anni e che fino ad allora fosse stato soltanto un funzionario di rango altissimo – lei, Presidente, lo ha ricordato – ai vertici della Camera, del Quirinale e di Ministeri importantissimi, ma soprattutto un funzionario. No. È vero piuttosto che di quella sua straordinaria dedizione allo Stato e di quella sua nitida intelligenza politica aveva dato prova e testimonianza esemplare nella primavera del 1996. Gli era stato conferito allora dal Capo dello Stato l’incarico di formare il Governo e Maccanico aveva puntato su una maggioranza che avesse riferimenti programmatici e politici di centrosinistra, insieme a riferimenti politici e programmatici di centrodestra.

Il suo Governo non nacque: incomprensioni degli uomini sradicarono la lungimiranza delle intenzioni. In quel senso vorrei raccogliere, signor Presidente, il suo riferimento ad un filo riformatore, ad una aspirazione al dialogo, evidente in quella intervista del 2007 da lei citata. Quel suo tentativo fu dettato dalla necessità di uscire finalmente dalle macerie di Tangentopoli, ma anche dai luoghi comuni, dai «catechismi» sbagliati nati a Tangentopoli, per non inaridirci in queste inutili guerriglie, berlusconiani, antiberlusconiani, e via dicendo. Maccanico anticipava, nella sua generosa inattualità, allora un tentativo che proprio nei giorni scorsi è tornato all’ordine del giorno: ha avuto successo. Senza rinnegare il voto di fiducia e di speranza in quel successo che il nostro Gruppo ha avuto modo di esprimere la settimana scorsa, lei, Presidente, ci consentirà una qualche malinconia, visto che ci è toccato veder realizzare quel tentativo proprio nel momento in cui Antonio Maccanico usciva dalla cronaca e andava altrove.

Ora i ricordi che si affollano sono tantissimi. In me personalmente ci sono quelli storici, politici, amicali, ma moltissimi sono sportivi: risalgono ai campi da tennis, agli Internazionali del Foro italico. Ci è anche capitato di trovarci nel 1992 «colleghi»: io giovane senatore liberale di Napoli, lui autorevolissimo senatore repubblicano di Milano.

Non posso dire che Maccanico appartenesse al filone liberale. No. Nel dopoguerra la scelta della forma repubblicana dello Stato a scapito della monarchia costituzionale gli era parsa irrinunciabile e quindi la riteneva indispensabile: non tanto per virare a sinistra, colleghi (dal PCI aveva preso assai presto le distanze), quanto perché – torniamo al Risorgimento – la scuola di pensiero democratico (quella di De Sanctis) non fosse soffocata dall’Italia liberale di Spaventa, come gli era parso fosse avvenuto nell’età successiva al Risorgimento, in età giolittiana. Maccanico aveva quindi un’avversione al giolittismo nitidamente democratica e assai poco liberale.

Da studente al liceo di Avellino era arrivato a correre i 100 metri in meno di undici secondi (il che era ragguardevole nell’Italia di allora) e aveva pure, e forse soprattutto, studiato tanto e bene: si era laureato a Pisa, aveva vinto il concorso per consigliere parlamentare e, a suo modo, aveva partecipato alla Costituente.

L’altro ieri scompare Andreotti, oggi ricordiamo Maccanico.

Anche Maccanico era stato, a suo modo, un uomo della Costituente. Aveva conosciuto Croce, Orlando, Nitti, aveva apprezzato l’Italia prefascista (e ne era stato apprezzato). Non si era mai ritrovato molto a suo agio nel mondo socialista e meno ancora in quello comunista. Si era riconosciuto in quel filone della democrazia repubblicana di Ugo La Malfa ed aveva sempre saputo guardare, forte dell’esperienza di sua madre, al cattolicesimo, ad un cattolicesimo al quale l’Italia democratica doveva guardare senza quei pregiudizi che una certa Italia liberal-massonica un po’ antiquata aveva avuto.

Ma, soprattutto, Maccanico aveva amato il Parlamento, l’idea di Parlamento. Aveva vissuto con passione il funzionamento delle istituzioni rappresentative.

Lei, signor Presidente, ha citato molti suoi testi. Per concludere mi permetterò di aggiungerne un altro: il testo di legge che era riuscito a far votare in quest’Aula nel febbraio del 1993, non tanto (colleghi del PD, avete sempre equivocato) sulla concessione dell’autorizzazione a procedere, ma sulla sospensione del procedimento penale, caratterizzato da un meccanismo di silenzio-assenso che riusciva ad armonizzare il vecchio articolo 68 della Costituzione con le norme del nuovo codice di procedura penale. Quel testo ci avrebbe risparmiato tante risse, tante storture e tanti squilibri.

Nella scorsa legislatura lo avevo ripresentato, insieme alla collega Chiaramonte, e in questa, insieme ai colleghi Bruno e Caliendo. Mi sarebbe piaciuto farglielo sapere, ma – come ebbi a sapere – non c’era più tempo.

Di qui un motivo ulteriore di gratitudine e di affetto per la memoria di Antonio Maccanico. (Applausi).

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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=10772&utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=commemorazione-di-antonio-maccanico-intervento-di-luigi-compagna-al-senato-della-repubblica

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