Camere Penali: un superprocuratore Presidente del Senato

Comunicato della Giunta della Unione delle Camere Penali Italiane

Roma, 18 marzo 2013 (da www.camerepenali.it/)

L’esito delle elezioni e i contestuali avvenimenti che hanno caratterizzato la cronaca giudiziaria degli ultimi tempi – non solo con l’avvento di quella che taluni commentatori definiscono una nuova tangentopoli ma anche la riproposizione di un conflitto aperto tra politica e magistratura – impongono una riflessione sia per l’importanza in sé rispetto ai temi della giustizia sia per gli ovvi riflessi sulla nuova fase che si è aperta.

* * *

Di giustizia, durante la campagna elettorale, si è parlato poco e male. Come plasticamente confermato nel corso dell’incontro organizzato dall’Unione delle Camere Penali a Bologna, l’analisi dei mali del pianeta giudiziario è stata effettuata dalla politica sulla scorta di una sorprendente carenza di informazioni e con adesione ai clichè imperanti. Ciò è risultato particolarmente vero sul problema più spesso evocato, la durata dei processi (esaminato prescindendo dai dati statistici, senza distinzione tra penale e civile ed ignorando persino il contenuto delle norme già in vigore) ma si è ripetuto puntualmente sulla riforma costituzionale, banalizzata ed ingessata da contrapposizioni pregiudiziali ed astratte, così come sulla riforma delle impugnazioni, dove improvvisati legislatori appena traslocati da poltrone di procuratori – locali o nazionali – della Repubblica non hanno trovato di meglio che suggerire l’abolizione del grado di appello.

* * *

Persino sugli argomenti che negli ultimi tempi erano stati oggetto di significative aperture – come il carcere, l’abuso della custodia cautelare, le intercettazioni, la regolamentazione dell’elettorato passivo da parte dei magistrati – non si è ascoltato altro che proposte generiche ed analisi parziali. E così, anche quando a sinistra si è condivisa la necessità di modificare l’assetto carcero-centrico del sistema, nondimeno si è rifiutata una discussione sulla posizione ordinamentale del giudice, senza comprendere che una giurisdizione sbilanciata verso le istanze di difesa sociale finirebbe comunque per vanificare qualsiasi indirizzo di politica legislativa. Mentre a destra, pur ammettendo l’evidente fallimento delle politiche securitarie seguite negli ultimi anni, si è continuato a rifiutare l’idea di un diritto penale minimo e non reattivo. Per farla breve, ciò che l’Unione denuncia da anni, cioè la mancanza di un approccio complessivo ai temi di giustizia, si è puntualmente confermata anche in questa occasione laddove – di fronte alla crisi del sistema istituzionale e politico che i risultati elettorali hanno poi pienamente confermato – sarebbe stato logico aspettarsi una inversione di rotta.

* * *

Il quadro che si è delineato dopo il voto ha reso la situazione ancor più complessa. L’eccezionalità della congiuntura da un lato ha spinto la coalizione prevalente – nel demagogico tentativo di rincorrere il consenso perduto – verso un’ulteriore semplificazione in base alla quale il termine legalità assume l’approssimativo significato di un irrobustimento dell’apparato repressivo (vedi le ricette semplicisticamente repressive contenute negli otto punti del PD) e, d’altro lato, ha arroccato lo schieramento di destra, nuovamente, attorno alle vicende giudiziarie di Berlusconi. Nel giro di un mese si è bruscamente tornati al passato con la strumentalizzazione di singole vicende giudiziarie, utilizzate nell’agone politico dagli uni contro gli altri con l’effetto primario di lasciare sul campo, come vittima sacrificale di cui nessuno si interessa, proprio la prospettiva di una riforma ordinata e condivisa; e con l’effetto collaterale, non meno deleterio, di spianare la strada al rinnovato protagonismo – oggettivamente politico – di uffici giudiziari o di magistrati in cerca di notorietà. La “giustizia” utilizzata come arma dagli uni, o come alibi dagli altri, a tutto danno dei cittadini, che abbiamo sperimentato dall’inizio della seconda repubblica, ha ripreso saldamente il campo.

* * *

Sarebbe inutile, al proposito, ripetere quello che i penalisti dicono da vent’anni. I processi, a carico di tutti, vanno celebrati, e le manifestazioni dei parlamentari dentro i palazzi di giustizia, o peggio ancora gli insulti generalizzati alla giurisdizione fatti dagli esponenti politici, sono una anomalia solo italiana. I politici, come qualsiasi cittadino, se hanno da muovere appunti contro le singole decisioni giudiziarie possono farlo criticandole con asprezza, questo è lecito, anzi è coessenziale alla divisione dei poteri, quel che non è consentito è tentare di determinare l’esito dei processi per via politica, cambiando le regole mentre la partita – una singola partita – è in corso oppure reclamando una impunità, più che una immunità, dalle responsabilità penali che la Costituzione non riconosce. L’escalation che ha portato un intero gruppo parlamentare a sciamare fuori dalle aule assembleari, dove dovrebbero esercitare il proprio ruolo istituzionale, per portarsi in un tribunale per premere su di un singolo processo è cosa inaccettabile per quest’ultima circostanza, non certo perché in democrazia non si possa criticare o manifestare anche sui temi giudiziari. Chi tollera ed anzi sollecita le proteste collettive contro o a favore di questa o quella sentenza all’interno delle aule, così come chi ha organizzato negli anni manifestazioni a favore di questo o quel procuratore abbracciando interi palazzi giudiziari, più che scandalizzarsi dovrebbe, semmai, riflettere sulla deriva che ha innescato. Noi, che difendiamo la giurisdizione e la sua libertà senza distinzioni, rimaniamo sulla stessa posizione di sempre: criticare è sacrosanto ma si deve rispettare la libertà della giurisdizione, chi porta la piazza in tribunale non lo fa, e non solo a Milano.

* * *

Da parte sua la magistratura deve agire non solo con il rispetto delle regole del processo, come per qualsiasi cittadino, ma anche con il “rispetto delle istituzioni politiche e delle forze che le rappresentano”, per dirla con le parole del Presidente Napolitano, il quale si é trovato a dover rivolgere un appello “affinché in occasione dei processi si manifesti da ogni parte ‘freddezza ed equilibrio’ e affinché da tutte le parti in conflitto – in particolare quelle politiche, titolari di grandi responsabilità nell’ordinamento democratico – si osservi quel senso del limite e della misura, il cui venir meno esporrebbe la Repubblica a gravi incognite e rischi”. Un equilibrio nello svolgimento delle funzioni invocato senza esito dal Capo dello Stato, che nasce dal riconoscimento di confini propri dei poteri dello Stato e stigmatizza la strumentalizzazione dell’attività giudiziaria rispetto agli esiti politici della stessa che nel nostro paese sono saltati da tempo. Insomma, non è solo questione di impedimenti negati o riconosciuti – peraltro con la aleatorietà ed il parossistico tasso di discrezionalità che la giurisprudenza riserva non solo a Berlusconi ma a qualsiasi cittadino italiano – o di processi nati morti poiché relativi a fatti ormai prossimi alla prescrizione e forzatamente rivitalizzati con riti immediati al solo fine di produrre condanne buone per la politica, che si parla, ma di un conflitto che trova le sue ragioni nella mancata riforma del sistema che la magistratura ha avversato e la politica non ha saputo e voluto realizzare. Un copione vecchio e stantio, da entrambe le parti recitato a soggetto e che oggi si ripropone.

* * *

Peraltro, la precarietà degli orizzonti politici e la difficoltà della situazione economico-sociale del paese stanno producendo un altro fattore di complicazione, dato dalla profonda e sempre più diffusa sfiducia verso i meccanismi propri di una democrazia parlamentare, visti come un rituale di casta incomprensibile e comunque lontano dal comune sentire, che in tema di giustizia può aprire la strada a soluzioni ancor più discutibili che in altri campi. Dopo aver osservato i guasti della legislazione ad personam si può ben immaginare ciò che potrebbe significare una legislazione demagogicamente ad tablet, con la piazza telematica in collegamento diretto con il parlamento e la politica ostaggio di un consenso emozionale che dileggia le soluzioni accolte dalla costituzione, come l’assenza del vincolo di mandato, ovvero il voto segreto. Una preoccupazione che si fa ancor più netta ove si consideri che la debolezza dei numeri parlamentari spinge ineluttabilmente verso soluzioni, e compromessi, dettati solo dalla necessità di sopravvivenza, che finiscono per rappresentare la negazione della politica e coinvolgono, senza alcuna consapevolezza, delicati equilibri.

* * *

La scelta che ha portato Piero Grasso dalla poltrona di Procuratore Nazionale antimafia alla presidenza del Senato, ad esempio, incarna meglio di qualsiasi analisi la mortificazione del primato della politica e la mancata comprensione – una vera debacle intellettuale – della tematica dei rapporti tra poteri dello Stato. Non soddisfatta del disastroso reclutamento a suo tempo di Di Piero, incapace di riflettere sulle rivendicate ragioni politiche legate all’attività giudiziaria di personaggi come De Magistris o Ingroia – che pure ha patito anche dal punto di vista elettorale – la coalizione di sinistra ha utilizzato come un escamotage tattico, destinato a spaccare un altro partito, una soluzione che simboleggia una sorta di commissariamento delle istituzioni. E’ stupefacente registrare come la indiscutibile forza evocativa dell’immagine di una persona – più che rispettabile – che passa nel volgere di alcuni mesi dal coordinamento di inchieste delicatissime, con il corredo di strumenti di indagine che esse comportano, alla seconda carica dello Stato, non sia stata neppure presa in considerazione dallo schieramento politico che si appresta ad esprimere il Premier incaricato. Se in altre democrazie il capo di un organismo equivalente alla DNA avesse fatto lo stesso repentino percorso la cosa avrebbe prodotto perlomeno qualche interrogativo. Ed invece è sorprendente che nessuno, non solo nello schieramento di sinistra, si sia interrogato sul fatto che un nuovo passo verso la democrazia giudiziaria, immaginata dagli adoratori delle procure, sia stato mosso nonostante il fallimento elettorale dei suoi alfieri. Ciò, ovviamente, nella speranza che tutto ciò non sia stato, al contrario, uno scotto deliberatamente pagato all’unico potere forte attualmente in circolazione. Un pensiero che il discorso di insediamento del presidente del Senato, obiettivamente più simile a quello di neoministro dell’Interno, finisce per rafforzare.

* * *

Al momento della candidatura dell’allora Procuratore Nazionale Antimafia avevamo segnalato come fosse discutibile un passaggio repentino tra cariche giudiziarie ed agone politico non solo nel caso di personaggi che avevano strumentalizzato a fini politici la loro vita giudiziaria, come i PM che senza alcuna censura disciplinare da parte del CSM avevano fatto i comizi con la toga sulle spalle, ma anche da parte di chi – come Piero Grasso– avevano tenuto un comportamento misurato; oggi dobbiamo constatare che avevamo visto giusto e qualcuno finirà per comprenderlo, magari, solo nel momento in cui la crisi politica coinvolgerà in ruoli più diretti la seconda carica dello Stato. Allora chi non lo ha fatto oggi rifletterà sulla circostanza che far passare il capo di un ufficio giudiziario “dalle cattedre di un Tribunale” (o di una Procura Nazionale) ai vertici dello Stato è una idea buona per risolvere l’empasse del momento e superare momentaneamente i guai di una leadership, ma non per la democrazia.

* * *

La cosa sconfortante è che, come sempre avviene, la cattiva moneta ha finito per scacciare quella buona. Tutti i problemi che, faticosamente, erano riusciti ad emergere negli ultimi mesi della legislatura, le aperture che si erano registrate, ivi incluse le autocritiche sulle soluzioni errate che negli anni scorsi erano state adottate, sono scomparsi dal dibattito. E con esse sono scomparse le realtà che dietro a quei problemi si celano, come quella del carcere, come l’abuso della custodia cautelare o delle intercettazioni, tutte cose accantonate ma che urlano l’urgenza della loro risoluzione.

E’ questo il vero scandalo che ci fa dire che governare sui temi di giustizia è un’altra cosa.

La Giunta

Condividi

Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=10176&utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=camere-penali-un-superprocuratore-presidente-del-senato

Sostieni i Radicali Italiani con almeno 1 € - Inserisci l'importo » €