L’inferno delle carceri e una norma, spesso violata, che spersonalizza e umilia detenuti e famiglie
di Fabrizio Ferrante, da www.epressonline.net, 09-02-2013
Dal 2 febbraio del 2001 è in vigore nell’ordinamento penitenziario un Decreto del Presidente della Repubblica – il 230\00 emesso da Carlo Azeglio Ciampi – che è forse fra i primi responsabili di tutta una serie di situazioni ambigue e talvolta penalizzanti per detenuti e famiglie. In questo numero segnaliamo alcune situazioni di disagio che negli anni si sono verificate nelle nostre carceri e che sono al centro di numerose rivendicazioni da parte di molti familiari di detenuti, in coda per accedere al carcere di Poggioreale.
Le cause dei disagi che andremo ad esaminare – ben inteso, si tratta solo di alcune situazioni fra tantissime criticità – dipendono non solo da un testo che, forse, non tiene presenti le reali condizioni che si vivono nei penitenziari ma anche da alcune applicazioni che lasciano spazio a più di una perplessità. Punto primo: la rappresentanza dei detenuti e degli internati, composta da tre persone. La legge, dunque, prescrive all’interno dei penitenziari una sorta di relazione di tipo “sindacale” fra i dirigenti degli istituti e i suoi “ospiti”. Questo genere di rappresentanza dovrebbe presenziare a tutte le fasi di preparazione del vitto, ad esempio, garantendone una salubrità e una qualità che, a sentire quanto riferito dai familiari dei detenuti, sarebbe ben lungi dall’esserci così come una qualunque forma di interlocuzione coi dirigenti. Sempre in tema di vitto, la legge stabilisce che i prezzi dei beni in vendita presso gli spacci, debbano tenere conto dei prezzi di mercato applicati all’esterno per beni di uguale natura. Anche in questo caso, nonostante la norma parli chiaro, esistono incredibili forbici di prezzo fra i costi applicati nello spaccio di Poggioreale – ma non solo, evidentemente – e quelli praticati negli esercizi commerciali esterni. Questo, sempre denunciato dai parenti, rappresenta uno spread ulteriore che pesa sui bilanci di famiglie in taluni casi ai limiti dell’indigenza.
La domanda è, dunque, che fine faranno i proventi extra che – forse indebitamente – vengono ricavati dalla vendita dei beni all’interno del carcere? Di certo questi non vengono impiegati – sempre ammesso che ci siano, specifichiamo – nel miglioramento delle condizioni di vita dei carcerati, nel tempo privati di lavoro, socialità, pulizia e dignità. Situazioni ambigue, che tendono a rendere i penitenziari dei posti avulsi dalle città e rese ancora più irte dall’estrema difficoltà nell’ottenere riscontri da dirigenti che, spesso, rifiutano ogni forma di interlocuzione. A Napoli, l’associazione radicale Per la grande Napoli ha chiesto invano un incontro coi direttori dei penitenziari cittadini, con lo scopo di sollecitare la necessità di garantire l’esercizio di voto per i detenuti.
Incontri che non si verificheranno, dato che le strutture sostengono di essere già all’opera in materia, dopo la circolare che ha reso operativa la risoluzione Bernardini, approvata alcune settimane fa in Parlamento. Meglio così, sperando che il dato di affluenza superi quel 10% medio a livello nazionale, che negli anni ha contraddistinto la misera soglia di detenuti votanti nel nostro paese. Altra questione regolamentata dal DpR di cui ci stiamo occupando, è quella dell’accesso di beni in carcere dall’esterno. Questi possono essere solo vestiario, alimentari e generi di prima necessità per un totale di quattro pacchi al mese. Ogni pacco non può pesare oltre cinque chili e non si può riceverne più di uno alla settimana. Inoltre, il detenuto non può accumulare scorte di cibo che superino il proprio fabbisogno di una settimana. Norme che cozzano col buon senso.
Ad esempio, come pensare di equiparare il peso dei pacchi per dodici mesi all’anno, senza tenere conto del peso differente che ogni indumento invernale ha, rispetto a uno estivo? Dunque, per ogni maglione che entra, resta fuori un genere alimentare o uno di prima necessità. Di conseguenza, se resta fuori un genere alimentare pagato un euro all’esterno è verosimile che lo stesso bene costi al detenuto presso lo spaccio, una cifra maggiorata rispetto a quella vigente all’esterno. Allo stesso modo, fatte salve le ovvie ragioni di spazio e di deperibilità degli alimenti, risulta bizzarro prevedere un peso standard per tutti stabilendo addirittura un fabbisogno che non tiene presente neanche il fatto che tutti gli individui sono diversi l’uno dall’altro. Ennesima prova di un carcere che spersonalizza, prima ancora di umiliare e degradare cittadini che, una volta usciti, potranno dirsi “laureati” in delinquenza. Non può essere altrimenti, in un luogo che cela verità spesso irraggiungibili se non attraverso qualche lamento che fuoriesce dalle catacombe, da quelle celle buie e sotterranee, impermeabili finanche alle visite ispettive.
Poggioreale come paradigma della mala giustizia, anche ascoltando la storia di una signora in coda per la visita settimanale al congiunto. “Sono in coda dalle 7 – ha detto la donna a un militante radicale presente sul posto, intorno alle 8 di venerdì mattina – ma non dalle 7 di stamattina, ma da quelle di ieri sera. Ho passato la notte qui, la mattina devo andare a lavorare presto e non posso fare diversamente per evitare di fare tardi”. Questa donna, questa lavoratrice, non ha commesso alcun reato ma sta ugualmente scontando una pena contraria alla dignità umana. È in buona e nutrita compagnia questa donna, a giudicare dalle scene di ordinaria inciviltà che, ancora ieri, i radicali napoletani hanno avuto modo di verificare coi propri occhi, in una Poggioreale sempre meno umana e sempre più “non luogo”. A proposito del penitenziario napoletano, Rita Bernardini sarà presente martedì, 12 febbraio, in visita ispettiva a Poggioreale. Al termine, intorno alle 13:30, la deputata radicale uscente risponderà alle domande dei giornalisti. Sarà l’occasione per aggiornare l’opinione pubblica sia sulle condizioni generali del carcere che, verosimilmente, sullo stato di avanzamento delle procedure a garanzia dell’esercizio di voto in capo ai detenuti che ne detengono tuttora la facoltà nonostante la carcerazione.
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