Benedetto Croce. “Per uno Stato unitario”

Discorso di Benedetto Croce tenuto all’Assemblea Costituente nella seduta dell’11-3-1947 [1]
            Dopo l’ampia discussione generale di questo disegno di Costituzione, dopo la critica di cui è stato oggetto – nella quale si direbbe che le censure hanno soverchiato i consensi – dopo che si è udita la parola di tanti esperti giuristi, permetterete a me che, quando tento di sottrarmi al nome impopolare di filosofo mi rifugio in quello di letterato, di osservare che forse una delle cagioni per cui l’opera non è felicemente riuscita proviene dall’essere stata scritta da più persone in concorso. Né un libro, né una pagina si compone se non da una singola mente che sola compie la sintesi necessaria e, avvertendo e schivando anche le più piccole dissonanze, giunge alla scrupolosa logicità e all’armonia delle parti nell’unità. Veramente gli autori questa volta sono stati troppi; ma fossero stati, invece di 75, dieci, cinque o tre, sempre, avrebbero dovuto, naturalmente, dopo eseguito il loro lavoro specifico e fissate le conclusioni a cui erano pervenuti, dare mandato a uno solo di loro di rimeditarle e formularle, il quale poi le avrebbe ripresentate agli altri e, raccolte le loro osservazioni ed obiezioni, rinnovato tante volte quante bisognava il suo atto sintetico, correggendo le incoerenze e contraddizioni che gli fossero per caso sfuggite e aggiungendo parti integrative, e tutto ciò sempre sotto la sua responsabilità intellettuale, col suo diretto riesame e con la sua interiore approvazione e soddisfazione personale. Una scrittura diversamente condotta, per valenti che sieno i suoi molti e molteplici autori, lascia più o meno scontento ciascuno di essi; laddove, condotta a quel modo, ottiene il loro consenso, come ammiriamo e facciamo nostra una bella poesia senza essere intervenuti a scriverla. Tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere. In effetto, dello Statuto albertino del Regno di Sardegna lo scrittore fu il giurista Des Ambrois, come la relazione ricorda, e di quello napoletano dello stesso anno l’avvocato e filosofo Bozzelli; e così sempre che si sia fatta o si voglia fare una cosa organica, perché in questo riguardo non v’è luogo a distinguere tra Statuto concesso e Statuto che il popolo chiede e approva.
       Ma a questa prima cagione della mancanza di coerenza e di armonia del presente disegno si è aggiunta un’altra ben più grave: che i molti suoi autori non solo non potevano portarvi un’unica mente di scrittore, ma non vi perseguivano un medesimo fine pratico, perché ai tre partiti che ora tengono il Governo, non già in una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti, ha corrisposto una commissione di studi e di proposte della stessa disposizione di animo, nella quale ciascuno di quei partiti ha tirato l’acqua al suo mulino e tutti hanno fatto come nella classica novella spagnola del cieco e del ragazzo che gli serve da guida e compagno, della quale qui leggerei ad ammonimento qualche tratto se non temessi la giustificata accusa di troppa frivolezza o distrazione letteraria. Da tale procedere è noto quel che l’onorevole Relatore chiama eufemisticamente «carattere intermedio» della proposta o «diversità di accento», ossia i ben trasparenti negoziati accaduti tra i rappresentanti dei partiti che hanno messo capo ad un reciproco concedere ed ottenere; appagando alla meglio o alla peggio le richieste di ciascuno, ma giustificando le richieste oggettive dell’opera che si doveva eseguire. La quale opera era semplicemente e severamente questa: di dare al popolo italiano un complesso di norme giuridiche che garantissero a tutti i cittadini, di qualsiasi opinione politica, categoria economica e condizione sociale, la sicurezza del diritto e l’esercizio della libertà, la quale porta con sé come logica sua conseguenza (e nobilmente ce lo ha rammentato l’onorevole Orlando), con la crescente civiltà la giustizia sociale che le si lega.
       Un esempio, e insieme la diretta prova, del metodo tenuto è (e sebbene già altri parecchi ne abbiano altamente parlato, qui non posso tacerne neppure io) nella proposta di includere nella Costituzione i Patti lateranensi e l’impegno contro una possibile legge del divorzio. E che cosa c’è di comune tra una Costituzione statale e un trattato tra Stato e Stato, e come mai a questo trattato in sede di Costituzione si può aggiungere l’irrevocabilità, cioè l’obbligo di non mai denunciarlo o (che vale lo stesso) di modificarlo solo con l’accordo dell’altra parte, mentre l’una delle due, cioè l’altro Stato, non interviene e non può intervenire come contraente in quest’atto interno e quell’obbligo resta unilaterale, ossia appartiene a uno di quei monologhi che, come argutamente è stato osservato, nel testo presente si alternano coi dialoghi.
       Parlai io solo in Senato, nel 1929, contro i Patti lateranensi; ma anche allora dichiarai nettamente che non combattevo l’idea delle conciliazioni tra Stato e Chiesa, desiderata e più volte tentata dai nostri uomini di Stato liberali, perché la mia ripugnanza e opposizione si riferiva a quel caso particolare di conciliazione effettuato non con una Italia libera, ma con un Italia serva e per mezzo dell’uomo che l’aveva asservita e che, fuori di ogni spirito di religione come di pace, compieva quell’atto per trarne nuovo prestigio e rafforzare la sua tirannia. (Vivissimi applausi). Ma nelle presenti terribili difficoltà, nell’affannosa problematica di tutta la vita italiana, nessuno e neppure io penso a riaprire quella questione, né penso ad agitare l’altra del divorzio che non attecchì le altre volte in cui fu proposta, sicché si direbbe che il costume italiano non ne senta il bisogno e la convenienza, e d’altronde l’indissolubilità del matrimonio sta nel Codice civile. Si dirà che la strana inclusione nella Costituzione vuol essere una assicurazione verso l’avvenire; ma quando mai parole come quelle legano l’avvenire? Lo legano così poco quanto il famoso biglietto di impegno che Ninon de Lenclos fece a Le Chastre allorché partì per la guerra. E se mi consente l’onorevole Togliatti che più volte mi ha fatto segno dei suoi motti satirici, che lo ricambi col semplice motto scherzoso, io quasi sospetto che la parte di Ninon De Lenclos abbia in mente di farla questa volta lui coi comunisti, che un giorno sperano di poter dire ai loro colleghi democristiani, i quali invano punteranno il dito su un articolo qualsiasi della Costituzione da loro consentito: «Oh, le bon billet qu’a là Le Chastre!» E fin da ora si direbbe che egli abbia l’occhio a una particciuola di uscita, perché ammette l’indissolubilità del matrimonio fino a quando una nuova anima civile non si sarà formata in Italia; e dipende evidentemente da lui di accelerare questa formazione o di annunziare che è avvenuta; e allora poveri Patti lateranensi, povera indissolubilità matrimoniale e povera Costituzione! Dunque, se quella inclusione, che è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico, è troppo fragile o illusorio riparo verso l’avvenire, perché offendere il senso giuridico che è stato sempre così alto in Italia e che solo il fascismo ha osato calpestare?
       Simili compromessi, sterili, o fecondi solo di pericoli e concetti vaghi o contraddittori, abbondano, come s’è detto, nel disegno di Costituzione, e saranno opportunamente rilevati e discussi, quando si passerà all’esame dei titoli e degli articoli. Ma un altro di essi voglio qui accennare di volo, che sta a cuore a molti tra noi, di vari e diversi opposti partiti, liberali e socialisti o comunisti, dall’onorevole Nitti agli onorevoli Nenni e Togliatti: la tendenza a istituire le regioni, a moltiplicarne il numero ed armarle di poteri legislativi e di altri di varia sorte. L’idea delle regioni come organismi amministrativi apparve già nei primi anni dell’unità, con la quale erano state superate le concezioni federalistiche che non avevano avuto mai molto vigore in Italia, vagheggiate da solitari o da piccoli gruppi, o fugate dalla fulgida idea dell’unità che Giuseppe Mazzini accolse dal pensiero di Niccolò Machiavelli, dall’anelito secolare dell’Italia e dai concetti dei nostri patrioti delle repubbliche suscitate dalla Rivoluzione francese, tra i quali tenne uno dei primi posti un politico meridionale, dal Mazzini in gioventù studiato, Vincenzo Cuoco. Ma ora, dopo la parentesi fascistica e la guerra sciagurata al seguito della quale vecchi malanni si risvegliano, come in un organismo che ha sofferto una grave malattia, contrasti di Nord e di Sud, di Italia insulare e di Italia continentale, pretese e gelosie regionali e richieste di autonomie, si son fatti sentire, con gran dolore di chi, come noi, crede che il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento sia l’unità statale che dobbiamo mantenere saldissima se anche nel presente non ci dia altro conforto (ed è pure un conforto) che di soffrire in comune le comuni sventure. (Vivi applausi).
       So bene che certe transazioni e concessioni di autonomie sono state introdotte e che, al giudizio o alla rassegnazione di molti, questo era inevitabile per stornare il peggio; ma il favoreggiamento e l’istigazione al regionalismo, l’avviamento che ora si è preso verso un vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento statale e amministrativo, andando incontro all’ignoto con complicate e inisperimentate istituzioni regionali, è pauroso. Sembra che tutto si debba rifare a nuovo, che tutto sia da mutare o da distruggere della precedente Costituzione, alla quale si attribuisce la colpa di aver aperto la via al fascismo; laddove il vero è che la via fu aperta dall’inosservanza e violazione della Costituzione, che non era nemmeno più «octroyée», concessa da un re, perché sanzionata poi dai plebisciti. Lo Statuto del 1848 ha regolato e reso possibile lo splendido avanzamento dell’Italia in ogni campo di operosità per oltre settant’anni, e non rigido come questo nuovo che ci vien proposto – di quella rigidezza che improvvisamente scoppia o invita a mandarla in pezzi – ma flessibile, consentì a grado a grado, col modificarsi dei pensieri, degli animi e dei costumi, il diritto di sciopero agli operai e l’allargamento del suffragio, fino al suffragio universale, tutte cose che abbiamo trovate già fatte e preparate per la nostra ulteriore costruzione, quando, abbattuto il fascismo, abbiamo riavuto il nostro vecchio Statuto. Si ode ora spesso faziosamente ingiuriare gli avversari politici col nome di fascisti; ma io ritrovo l’effettivo fascismo, tra gli altri cattivi segni, in questa imitazione del dispregio e del vituperio che i fascisti versarono sull’Italia quale fu dal 1848 al 1922. Di quell’età io mi sento figlio; nella benefica, nella santa sua libertà ho potuto educarmi e imparare; e mi si perdoni questa digressione, perché è dovere, io credo, che i figli difendano l’opera e l’onore dei padri. (Applausi).
       Ma io odo sussurrare da più di uno che la discussione che ora si fa nell’Assemblea Costituente è piuttosto figurativa che effettiva, perché i grossi partiti hanno, come che sia, transatto tra loro e si sono accordati attraverso i loro rappresentanti nella Commissione di studio e di proposte. Avremo, dunque, anche all’interno una sorta di Diktat, come quello che tanto ci offende e ci ribella, impostoci dalle tre potenze nel cosiddetto trattato di pace, al quale l’Italia cobelligerante non ha partecipato e non vi ha veduto accolta nessuna delle richieste necessarie alla sua vita? Ma quel Diktat, venuto dal di fuori, se ci offende e ci danneggia, pure unisce tutti noi italiani nel proposito di scuoterlo da noi con tutte le forze del nostro pensiero e della nostra volontà, con tutte le virtù del nostro lavoro, col valerci delle occasioni favorevoli che non potranno non presentarsi nel mutevole corso della Storia; ma questo, invece, al quale ci piegheremmo oggi nel governo delle nostre cose interne, essendo opera e colpa nostra, ci disunirebbe o ci corromperebbe; e perciò non è da sopportare e bisogna provvedere affinché non eserciti la sua insidiosa prepotenza. In qual modo? si dirà. Il modo c’è e dipende da noi, né sta solo nel fatto che, oltre i grossi partiti ci sono gli altri, numericamente forse ma non idealmente inferiori, sebbene anche e soprattutto in ciò che i partiti sono utili strumenti di azione per certi fini contingenti e non sono il fine universale, non sono la legge del bene alla quale solamente si deve ubbidire, perché, come Montesquieu diceva di se stesso, egli prima che francese si sentiva europeo e prima che europeo si sentiva uomo.
       La partitomania, che ingenuamente si esprime nella formula che fu già del fascismo ed è ora la tromba (ahi quanto diversa!) che il tassesco Rinaldo «udia dall’Oriente», nella formula verbalmente assurda del «partito unico», vorrebbe invertire questa scala di valori e porre lo strumento di sopra allo spirito umano che deve adoprarlo e collocare ciò che è ultimo al posto di ciò che è primo. Contro cotesta distorsione della vera gerarchia bisogna stare in guardia e ad essa opporsi in modo assoluto e radicale. Ciascuno di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso. Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime:
«Veni, creator spiritus,
Mentes tuorum visita;
Accende lumen sensibus;
Infunde amorem cordibus!».
Soprattutto a questi: ai cuori. (Vivissimi applausi – Moltissime congratulazioni).

[1] ” Si tratta dell’unico intervento dell’On. Benedetto Croce  in Assemblea Costituente nell’ambito della discussione sul progetto di Costituzione”.

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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=9225&utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=benedetto-croce-per-uno-stato-unitario

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