La profezia penitenziaria:
La profezia penitenziaria: se il carcere diventa un laboratorio sociale
Pietro Buffa, Direttore della Casa Circondariale di Torino
I paradigmi e la loro evoluzione
La vita di un uomo è troppo breve per consentirgli di percepire pienamente gli elementi di un cambiamento epocale.
Solo a chi è dato vivere in prossimità di un momento di questo genere è possibile coglierne gli effetti e, anche in questo caso, manca la necessaria serenità e distanza per poterne apprezzare le dimensioni e le conseguenze.
In genere ci pervade una sensazione di relativa immodificabilità, in particolare dei paradigmi fondanti le istituzioni basilari della società.
In tal senso è illuminante la tesi di Angela Davis che, trattando della schiavitù in America nel periodo precedente alla Guerra Civile, evidenzia come fosse impossibile anche solo immaginare che l’economia di quel Paese potesse fare a meno di quella forma di sfruttamento produttivo.
Il paradigma economico e sociale di quel momento guidava le riflessioni e le considerazioni escludendo implicitamente ogni possibile alternativa alla luce della sua efficacia, resa concreta e palese dai risultati economici e dalla pace sociale ad essa connessa.
Il fatto che milioni di schiavi venissero sacrificati non scuoteva le coscienze e l’equilibrio ottenuto. In campo epistemologico, e in relazione all’evoluzione scientifica, sono ben note le tesi di Khun secondo il quale il progresso scientifico non procede gradualmente verso la verità bensì attraverso veri e propri slittamenti di paradigma, ovvero quell’insieme di teorie, leggi e strumenti che definiscono una tradizione di ricerca universalmente accettata in un certo momento storico.
Per quanto sia consolidato un paradigma, continua Kuhn, nel corso della sua applicazione si verificheranno delle anomalie, ossia eventi che il suddetto quadro di riferimento non riesce a risolvere.
Quando tali fallimenti sono evidenti e frequenti il quadro vigente entra in crisi e si genera una nuova fase in cui iniziano a proliferare altri paradigmi che tentano di spiegare le anomalie irrisolte.
Tale proliferazione genera, a sua volta, una discussione all’interno della comunità scientifica volta a decidere quale dei nuovi modelli debba essere accettato.
Secondo l’Autore il paradigma che riuscirà a cogliere il maggiore interesse e la fiducia degli appartenenti della comunità scientifica prevarrà dando così inizio ad una nuova fase.
Le riflessioni riguardanti l’evoluzione scientifica possono essere traslate a quella sociale ed il contributo della Davis, precedentemente citato, va in questa direzione.
È allora interessante considerare che le stesse considerazioni relative alla modificabilità dell’economia schiavista vengono riproposte anche per la questione penitenziaria con riferimento alla possibilità di un suo superamento.
Si tratta di una prospettiva oggi apparentemente improponibile, tanto è radicato l’assioma punitivo fondato sulla detenzione.
La letteratura abolizionista, e soprattutto i tentativi di applicazione concreta, non sono riusciti a modificare la richiesta di maggiore penalità di questo genere. Garland ha mirabilmente tratteggiato il percorso storico e socio-economico che ha portato il mondo occidentale a dotarsi di un paradigma sociale sempre più orientato alla punizione e, da parte loro, Autori come la Davis, e prima ancora Christie , hanno sottolineato la funzionalità del sistema penitenziario dal punto di vista economico, rappresentando un investimento proficuo e, allo stesso tempo, da quello più generale della tenuta sociale, accogliendo strati marginali che, in ragione della progressiva carenza di risorse economiche, non possono essere più gestite da un welfare sempre più in difficoltà.
Sono questi i contorni del paradigma sicuritario che pervade la nostra cultura e l’agenda politica di tutte le forze politiche con poche eccezioni.
Non è una novità sostenere che alla diminuzione delle risorse destinate alla spesa sociale aumentano quelle relative a quella sanitaria e quella penitenziaria.
La novità è costituita dal fatto che anche in questi settori, almeno in Italia, le risorse si stanno assottigliando a vista d’occhio e stanno subendo tagli sempre più evidenti e, di questo passo, anche’essi denunceranno una scarsa tenuta di fronte all’impatto che devono reggere.
Questa, in termini kuhniani, potrebbe essere definita una delle anomalie che si sono incistate nel paradigma sociale punitivo e carcerario vigente.
Ma è opportuno sottolinearne un’altra, più subdola, ma non per questo meno importante, ovvero lo snaturamento del penitenziario che dal modello della detenzione penale, connessa al paradigma trattamentale si è, via via, traslato in quello della detenzione sociale .
Dalla detenzione penale alla detenzione sociale
Certamente l’attuale consistenza numerica della popolazione detenuta è un dato macroscopicamente preoccupante. L’Italia registra un alto tasso di sovraffollamento e, ad oggi, le presenze che, nei mesi scorsi, sono arrivate a superare quota 69.000, si sono attestate alla fine del mese di aprile, a quota 67.510, anche grazie alla legge 26 novembre 2010 n. 199, cosiddetta svuota carceri varata proprio per deflazionare le presenze all’interno degli istituti di pena.
In ogni modo anche queste presenze rappresentano diverse migliaia di unità in più del totale dei presenti il giorno prima dell’indulto del 2006. La congestione del sistema ha determinato il governo italiano a varare un piano straordinario per la realizzazione di nuovi posti letto mentre, per contro, la minoranza parlamentare chiede misure diverse anche se, per la verità, poche sono le sponde politiche che parlano espressamente di provvedimenti indulgenziali.
Ma non è tanto sulle attuali condizioni “fisiche” della carcerazione in Italia che si intende argomentare quanto, piuttosto, proporre una riflessione più profonda che va al cuore del senso stesso della pena detentiva odierna.
Il carcere del ’75 aveva una composizione umana molto più omogenea di quello attuale e la riforma penitenziaria si attagliava a questo tipo di popolazione. Negli anni successivi quest’ultima si è progressivamente segmentata grazie all’ingresso di persone diverse dal solito milieu che, sino a quel momento, aveva caratterizzato il sistema penitenziario italiano, ad iniziare dai tossicodipendenti. Dagli anni ’80 in poi una significativa fetta della popolazione detenuta è costituita da persone con problemi di dipendenza da sostanze psicotrope per le quali il Testo Unico 309/90 ha introdotto misure alternative al carcere e modalità detentive differenziate .
Se il loro numero pare non aumentare, tuttavia molte di queste persone si sono via via bruciate le opportunità terapeutiche alternative alla detenzione e la loro propensione a recidivare impedisce l’accesso ad altre analoghe misure. Il resto della storia è nota. La necessità di contrapporsi al terrorismo prima, e alla criminalità organizzata poi, hanno successivamente indotto modifiche normative che hanno modificato l’ordinamento penitenziario e determinato suddivisioni dei detenuti, diversamente classificati in ragione del loro presunto livello di pericolosità. Fu proprio dall’area della massima sicurezza, in particolare da quello che espresse la propria dissociazione dalla lotta armata, che scaturì il tessuto sul quale prese le mosse la riforma dell’86 con il suo generale ampliamento dell’accesso alle misure alternative dal carcere . Si realizzò in questo modo la massima espressione attuativa del mandato costituzionale. L’Amministrazione penitenziaria non era ancora compiutamente riformata per affrontare tale compito, lo sarà solo dopo il ’90, ma furono quelli gli anni di punta per la sperimentazione di percorsi e progetti trattamentali. Con gli anni ’90 si inaugurò una nuova stagione caratterizzata dall’emergenza determinata dalla lotta contro la criminalità organizzata che frammentò ulteriormente l’insieme della popolazione detenuta, sia creando separazioni fisiche all’interno degli istituti, sia escludendo dalle misure alternative i detenuti rientranti nell’elencazione prevista dall’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario. Successivamente videro la luce una serie di provvedimenti normativi che intendevano affrontare il fenomeno crescente dell’immigrazione dal sud e dall’est del mondo. Da quel momento il numero di stranieri negli istituti penali ha iniziato ad aumentare costantemente. Se prima il numero di detenuti non italiani si era mantenuto mediamente sotto il 10% del totale degli ingressi , oggi rappresenta il 37.15% con situazioni di maggior concentrazione nei grandi istituti metropolitani con punte che De Vito stima anche del 70% del totale. La grande maggioranza di questi risulta clandestino ed illegittimamente sul territorio nazionale. Uno studio interno dell’Amministrazione penitenziaria ha recentemente evidenziato anche un altro fenomeno, foriero di importanti conseguenze, ovvero il fatto che una larga fetta delle attuali presenze permangono per pochi giorni e settimane. Così, ad esempio, nel corso del 2007 delle 94.237 persone che hanno fatto ingresso ben 69.826 sono state scarcerate entro i dodici mesi successivi. Tra queste, 35.009 hanno lasciato l’istituto entro undici giorni e addirittura si rileva un cospicuo numero di carcerazioni definite brevissime. E’ dato disponibile quello riguardante il fatto che, ad esempio, nello stesso periodo, sull’intero territorio nazionale circa 29.000 persone, pari al 32% del totale degli ingressi, sono state rimesse in libertà entro i tre giorni successivi. Il nostro sistema produce il carcere per molti ma per poco tempo. L’ingresso in carcere di una massa di persone appartenenti alle categorie testé citate, in misura ormai prevalente sul totale dei presenti, determina conseguenze strutturali importanti e questo costituisce il punto focale di qualunque ragionamento sulla pena e sul carcere che si voglia dare un respiro prospettico. Una quota vicina ai due terzi della popolazione detenuta italiana non possiede più le caratteristiche utili per poter ragionevolmente presentare istanza per fruire di una qualsivoglia misura alternativa o modificativa della pena detentiva e ottenerne una valutazione favorevole. Sicuramente la conduzione in carcere di questa larga fetta di persone ingolfa il sistema penitenziario senza avere, per altro verso, poter attivare alcuna attività trattamentale socialmente. L’ingresso in massa di persone che, di fatto e di diritto, non possono fruire delle opportunità per sperimentare un percorso trattamentale alternativo alla detenzione, costituisce un grave impedimento all’esercizio pieno del mandato istituzionale che la Costituzione e l’Ordinamento penitenziario demandano all’Amministrazione Penitenziaria. Il carcere continua ad essere frammentato in varie differenziazioni e l’abito arlecchino che veste vede la sostituzione di sempre un maggior numero di pezze colorate con altre scure ed opache. Potremmo giungere ad affermare che esistono ormai misure alternative d’autore, mutuando concetti dottrinari penalistici, per far riferimento al fatto che le caratteristiche personali dei condannati fanno la differenza non solo nelle valutazioni degli operatori penitenziari e successivamente in quelle della magistratura di sorveglianza ma, soprattutto, per generare a priori un processo selettivo decisamente centrato su logiche di autotutela istituzionale ed affidabilità che fa sì che le persone meno dotate non riescano a fruire delle misure alternative perché escluse o limitate in partenza. In tal senso sono da interpretare criticamente i dati di Leonardi che vengono spesso citati per provare l’inefficacia del carcere nell’attività di reinserimento rispetto, a contrario, dell’efficacia delle misure alternative. I dati in questione ci dicono che il 68.45% delle persone che hanno espiato la loro pena in un carcere, e ne sono state scarcerate senza fruire di una misura alternativa, ne hanno poi fatto rientro. Per contro si registra una percentuale pari al 19% di recidivi tra coloro i quali hanno, viceversa, fruito della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. E’ d’obbligo riconoscere che la ricerca in questione è rigorosa nello svolgimento ma, a mio parere, pecca nella logica deterministica impiegata nelle conclusioni laddove si giunge ad affermare che “dal confronto con la recidiva dei detenuti sembra che la finalità di reinserimento sia raggiunta in misura maggiore quando l’esecuzione della pena avviene all’esterno del carcere, come a confermare che la prisonizzazione, intesa quale adattamento al mondo informale penitenziario, comporta minori possibilità di risocializzazione”. Vi è, in questa considerazione finale, l’idea di un carcere infettivo e totale, che soverchia e determina le volontà delle persone ad esso soggetto attraverso il processo adattivo dell’uomo all’istituzione e alla cultura che vi viene praticata. E’ il carcere leviatano, tanto caro alle punte più critiche del sistema carcerario nel suo complesso, che parlano di un carcere carcerogeno non tenendo sufficientemente conto che sono le leggi ad essere carcerogene laddove prevedono esclusivamente la risposta detentiva e cancellano la possibilità di un’alternativa esterna. In questo modo si rischia di perdere completamente di vista l’influenza delle caratteristiche di base delle persone. Lo stesso Autore ha dovuto precisare che il fatto che non fossero disponibili i dati relativi alle condizioni soggettive, sia personali che sociali, che indubbiamente possono influire sul comportamento criminale delle persone, ha determinato una analisi meramente descrittiva del fenomeno. In queste condizioni si compie un salto logico di non poco conto. Da un lato si soggettivizza l’istituzione penitenziaria, imputandogli capacità modificative e permanenti sulle persone ad essa soggette e, contestualmente, si oggettivizzano i suoi occupanti spogliandoli delle loro caratteristiche umane in termini di potenzialità e volontà, intendendoli quindi in modo indistinto, e deresponsabilizzandoli nelle scelte e nei comportamenti. Tuttavia neppure questo approccio riesce ad affermare che le caratteristiche di base della persona siano ininfluenti nei comportamenti. Basti citare il fatto che gli affidati ordinari risultino essere meno recidivi di quelli particolari nella misura del 21% dalla detenzione e per il 16% dalla libertà. L’onestà dell’Autore è indubbia perché riconosce che “è bene ricordare che le persone ammesse alle misure alternative sono selezionate con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati” . Tra l’altro la presunta carcerogeneità del carcere non regge ad un altro recente dato spesso citato quale elemento validante dell’opzione della decarcerizzazione, per quanto puntiforme ed estemporaneo, finalizzato alla mera decompressione del sistema penitenziario più che ad una politica di più ampio respiro. Ci si riferisce alla legge 31 luglio 2006 con la quale è stato concesso il provvedimento d’indulto per tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006, che ha scatenato, successivamente, grandi polemiche politiche sulla base di timori, più o meno indotti, nell’opinione pubblica, circa l’aumento della criminalità a seguito della scarcerazione in massa di oltre 27.000 detenuti. Da questi timori e dalle conseguenti polemiche è nato l’interesse a monitorare l’andamento della recidiva degli indultati che, alla luce delle ricerche condotte da Torrente , è risultata essere del 26.97% fra gli ex detenuti e del 18.57% tra quelli che erano in misura alternativa al momento dell’indulto. Al di là del fatto che non pare che tale provvedimento possa giustificare le paure dell’opinione pubblica, è evidente a tutti che lo stesso si è limitato a produrre la scarcerazione di migliaia di persone senza una particolare progettualità che non fosse rientrare nel proprio contesto di provenienza. Ciò nonostante il tasso di recidiva è nettamente inferiore alla media calcolata da Leonardi. Torrente si pone il problema di capire quali variabili possono aver contribuito a determinare tale andamento ma è costretto, come Leonardi, a desistere dall’approfondimento a causa della scarsa qualità dei dati a disposizione, tentando tuttavia alcuni riflessioni con quelli macroscopici a disposizione. In tal senso il non essere alla prima carcerazione e avere, proporzionalmente, un maggior numero di detenzioni pregresse, un più basso livello di scolarizzazione, una condizione occupazionale assente e di straniero, paiono essere, seppur con un certo grado di approssimazione, elementi significativi tra coloro i quali hanno fatto reingresso in carcere. Queste ultime riflessioni rinforzano la nostra convinzione che sia il processo selettivo intracarcerario a determinare la possibilità di praticare percorsi trattamentali diversi e che il loro successo sia fortemente connesso alla dotazione umana e sociale delle singole persone. Tuttavia non esistono percorsi per tutti, nel senso che non solo le risorse sono limitate ma, come abbiamo visto, per alcune categorie l’attuale sistema non è più attrezzato per fornire risposte, se non adeguate quantomeno plausibili, in ragione di scelte politiche e legislative che impediscono che il carcere tenti quello che gli è stato demandato dalla Carta Costituzionale. Vale ancora oggi quello che De Vito ha detto con riferimento al carcere degli anni ’50 che è stato descritto come un sistema che “proprio perché popolato da quegli individui socialmente “invisibili” era radicalmente rimosso dal dibattito pubblico e finiva per rispecchiare in maniera amplificata l’incapacità della classe politica di dare vita ad un progetto politico coerentemente riformatore”. Al carcere di oggi vengono demandati compiti di contenimento di fenomeni socio politici molto più ampi che non gli competerebbero, quali l’immigrazione e la gestione delle tossicodipendenze, e che meriterebbero ben diverse attenzioni e strumenti. Rispetto a queste nuove funzioni, lontane da quelle originarie, questo carcere si trova in grandi difficoltà a causa della transitorietà, della numerosità, delle caratteristiche delle persone che vi vengono condotte, non per intraprendere un percorso di reinserimento ma per scopi che hanno più a che vedere con la mera loro incapacitazione e neutralizzazione. Il carcere di oggi è un carcere sempre più senz’anima e mandato e questo ha effetti importanti per chi ci lavora e vi opera soprattutto se si coniuga il processo involutivo del mandato istituzionale descritto con l’evoluzione organizzativa dell’Amministrazione penitenziaria.
L’anomia del sistema penitenziario e le derive professionali
L’evoluzione organizzativa dell’Amministrazione penitenziaria ha generato un ampio numero di articolazioni organizzative e una maggiore complessità che, secondo De Vito , ha posto fine a quello che ha definito il modello familiare che aveva caratterizzato il sistema penitenziario ante la riforma del 1990. Ad una impostazione organizzativa semplice e paternalistica si è sostituito un processo di burocratizzazione che ha inciso profondamente nell’assetto organizzativo del sistema penitenziario determinando il rafforzamento delle strutture gerarchiche e corporative del personale e una progressiva frammentazione di interessi e visioni nell’ambito di quest’ultimo, a tutti i livelli, ordine, grado e funzione. Nell’ambito di questo quadro organizzativo vanno inseriti alcuni elementi precipitanti. Abbiamo accennato allo snaturamento della funzione penitenziaria che, di conseguenza, si riverbera sul senso che gli operatori penitenziari cercano di dare alle proprie pratiche quotidiane. Non trovare ragione nel proprio lavoro è una delle peggiori condizioni di alienazione rispetto ad una sfera fondamentale per i propri meccanismi di gratificazione e di identità, al punto che la loro frustrazione, a lungo andare, fa perdere di vista gli obiettivi istituzionali, così ridotti alla vacuità e generanti profonde frustrazioni, per frammentarsi alla ricerca di condizioni migliori dal punto di vista individuale o di categoria. Il fatto poi che la parte addetta alla sicurezza, tra l’altro maggioritaria, abbia un trattamento economico e giuridico migliore, induce elementi di frustrazione nella restante parte del personale, appartenente ai ruoli amministrativi ed educativi, e stimola la ricerca, da parte di questi ultimi, di riforme contrattuali finalizzate all’allineamento con i primi. Da un lato alcuni tentano un’assimilazione contrattuale alla polizia penitenziaria. Con la legge 27 luglio, n. 154 la categoria dei direttori è riuscita ad ottenere ope legis l’inquadramento nella dirigenza pubblica. Anche tra gli altri ruoli, educativi ed amministrativi, serpeggiano, in particolare nell’ultimo periodo, istanze, per ora minoritarie, che chiedono l’accesso negli organici della polizia penitenziaria e la configurazione di ruoli tecnici della stessa. Su questo punto il Coordinamento nazionale penitenziari della C.g.i.l. - Funzione Pubblica ha sottolineato che la politica della diversificazione ha favorito conflittualità e malessere tra le diverse professionalità. Secondo questa componente sindacale, percorrere la via dell’assimilazione, per quanto allettante possa essere e generativo di indubbie forti aspettative, è una pericolosa china involutiva dal punto di vista culturale ma anche una scelta snaturante il mandato costituzionale di tutto il sistema dell’esecuzione penale. La componente sanitaria, da parte sua, è ormai transitata alle dipendenze del Servizio Sanitario Nazionale così come gli psicologi incardinati nei ruoli dell’Amministrazione penitenziaria, ma non così gli esperti ex art. 80 dell’ordinamento penitenziario, che pure svolgono analoghe funzioni e che tanto si sono battuti per poter passare nei ruoli del servizio sanitario nazionale, con l’argomentazione, in parte opinabile, che la loro attività fosse di natura sanitaria, trasformando anche la funzione osservativa effettuata per conto di una amministrazione in un approccio terapeutico in favore del detenuto. Tutte queste considerazioni evidenziano tendenze centrifughe, rispetto al disegno originario previsto dallo stesso ordinamento penitenziario, fondate sia su motivazioni economiche e di trattamento giuridico che da sull’autonoma ridefinizione dei compiti e delle funzioni che si ritiene, categoria per categoria, di dover o poter svolgere. Tali pulsioni hanno favorito derive che rendono difficile il coordinamento dell’azione amministrativa e la realizzazione dell’ideale penitenziario fissato nel ’75. Lo stesso ex Direttore Generale del Personale, Massimo De Pascalis, ha ammesso che il sistema penitenziario italiano risente grandemente delle questioni attinenti alla gestione del suo personale, al punto che il servizio istituzionale registra quello che viene definito un obnubilamento . Sempre secondo De Pascalis le nuove condizioni detentive, segnate dal sovraffollamento, dalla mutazione strutturale delle caratteristiche della popolazione detenuta e, più in generale, dal diverso approccio politico e sociale verso l’esecuzione penale ha indebolito l’autostima professionale che, a sua volta, ha generato una corrispondente perdita di efficienza dell’intero sistema penitenziario. Oggi il tema in agenda non è più, o quantomeno non è più principalmente, la contrapposizione, particolarmente sentita sino all’inizio degli anni ’90, tra diverse idealizzazioni della detenzione, dei suoi fini e dei metodi da impiegare per realizzarli, bensì il tentativo di rendere compatibili i diritti e le aspettative del personale con le esigenze organizzative e dei detenuti . Ogniqualvolta si tratta di modificare il regime detentivo mobilitando risorse umane, il vaglio riguarda sempre meno il modello d’intervento e le finalità che questo si propone e sempre più i carichi di lavoro connessi, i livelli di responsabilità, la perdita di posizioni di rendita e il cambiamento delle prassi e, laddove tale confronto non è adeguatamente gestito, il processo è destinato a bloccarsi o a limitare la sua portata. Il sistema penitenziario non sfugge alla dinamica della traslazione dell’onere sul terzo soggetto all’organizzazione stessa, fenomeno ben descritto da Friedberg secondo cui gli aggiustamenti cooperativi e i giochi tra i componenti dell’organizzazione che sono alla base dello scambio politico interno, dipendono anche dalla facilità con cui le parti in causa possono trasferirne i costi su terzi esterni ai loro scambi. Nel nostro caso i terzi non sono solo le persone detenute ma anche tutte le altre figure che chiedono, dipendono, collaborano e fanno riferimento all’istituzione penitenziaria; dai famigliari dei detenuti, agli avvocati, dai fornitori ai magistrati, dagli operatori e professionisti convenzionati ai servizi pubblici esterni. Il soddisfacimento delle esigenze e degli interessi di questi stakeholder dipende dall’atteggiamento e dal comportamento dei singoli componenti dell’istituzione e dalla loro percezione di onerosità e sacrificio a scapito di una qualche propria posizione legittima o anche solo di rendita. L’incrocio tra la modificazione e la frammentazione della popolazione detenuta, la diminuzione di alternatività al carcere e dal carcere, l’anomia e le derive professionali, costituisce, a mio modo di vedere, il nucleo essenziale della questione penitenziaria attuale e pone sul tavolo del confronto questioni ben più complesse del già pur difficile sforzo teso all’aumento dei posti letto a disposizione, richiedendo viceversa provvedimenti normativi e organizzativi di più ampio respiro che presuppongono, tuttavia, riferimenti e visioni oggi difficili da affermare e perseguire. Come abbiamo già accennato possiamo assumere che queste criticità siano il diretto effetto dei modelli sociali, economici e politici esterni e, soprattutto, della tendenza a dislocare altrove i risultati dell’incapacità di tali quadri di riferimento nel far fronte a fenomeni diffusi e, per certi versi, epocali. Come reagisce l’ambito penitenziario? In modo molto variegato e per nulla uniforme, al punto che qualche Autore ha parlato esplicitamente di relativismo penitenziario per dare conto di un insieme di situazioni tra loro molto diverse e comprese tra un certo grado di efficiente applicazione dello spirito riformatore e una tendenza all’immobilismo burocratico. Gli Autori citati, per certi versi non a torto, classificano questo spettro di azioni come un deprecabile fenomeno del sistema penitenziario, sintomo di un’arbitraria, frammentata e particolaristica gestione che genera inique differenze di trattamento nei vari istituti penali che lo compongono. Quel relativismo, in realtà, è il segno evidente che le parti che compongono ogni istituto penitenziario hanno giocato diversamente le loro partite ottenendone risultati diversi in ragione di atteggiamenti e comportamenti variamente composti ed orientati. Neppure l’iperegolamentazione può cambiare questo stato di cose anzi, per certi versi, una scelta di tal genere può addirittura peggiorare la situazione. È fatto assodato che l’ipertrofia regolamentare non porta miglioramenti nel contesto detentivo e, in particolare, non garantisce una maggiore fruibilità dei diritti da parte dei detenuti, semmai, alimenta una maggiore attenzione al formalismo da parte dell’amministrazione che è chiamata ad applicare quelle norme. Il fatto che ogni norma, in realtà, non riesca a coprire tutte le fattispecie concretamente possibili e che la struttura semantica e sintattica delle stesse norme lascia spazi ad interpretazioni spesso molto diverse, complica ulteriormente le cose. Il risultato può essere una cavillosa, a volte bizantina, applicazione finalizzata più alla dimostrazione dell’ottemperanza che al risultato finale. Peraltro che il mondo penitenziario sia ormai saturo di norme al punto che sia diventato impossibile conoscerle tutte per gli stessi operatori è ormai un dato riconosciuto dalla stessa letteratura specializzata . Sarzotti è uno degli Autori che ritengono che, nonostante le modalità dell’esecuzione della pena siano state oggetto di una regolamentazione statalistica sempre più dettagliata, il tentativo di sottrarre l’esecuzione della pena alla dinamica, che lui definisce privata, tra custodi e custoditi, non può dirsi ancora pienamente riuscito. Tale dinamica si sostanzierebbe nella continua negoziazione tra le parti degli spazi e delle opportunità che genera, utilizzando le parole dell’Autore, un “sistema localistico di gestione dei conflitti materiali e delle relazioni informali”. Tale sistema sarebbe espressione di quell’ambito che Carbonnier definisce l’infra-diritto delle pratiche detentive, ovvero “l’insieme delle relazioni sociali sottese ai rapporti giuridici che, nel caso dell’ambito penitenziario, ricomprendono tutte le relazioni formali ed informali, che hanno a che fare con messaggi di tipo giuridico, che si generano tra i detenuti, gli operatori penitenziari e i soggetti esterni al carcere”. È in questo contesto che si colloca il percorso che può consentire una proficua azione riformatrice all’interno di un settore così critico quale quello penitenziario che, a nostro parere, non può che fondarsi sulla ricomposizione di tutti gli interessi in gioco. Prima di approfondire questo aspetto, tuttavia, vorrei sottolineare che il carcere, proprio in ragione della sua crisi, può diventare un luogo istituzionale molto interessante perché, seppur con il clangore della sua imperfezione si deve fare tutti i giorni i conti con questioni che in nuce sono esattamente frutto ed espressione del fallimento esterno. Proprio perché i problemi socio – economici e politici non risolti vengono de localizzati all’interno di quelle mura il carcere è costretto ad affrontarli quotidianamente al proprio interno. E’ infatti nel fallimento e nell’inefficacia delle istituzioni che si coglie più evidentemente la difficoltà di far rientrare la capacità di comprensione e di sociale e politica di un’epoca in un modello che dovrebbe trovare, proprio in quelle istituzioni, organizzazione e concretizzazione. La maggiore densità dei problemi li evidenzia con maggiore risalto e ne consente una migliore definizione. Il carcere diventa così un luogo privilegiato anche perché, a fronte dell’urgente e quotidiana necessità di affrontare i suddetti problemi, costringe tutti gli appartenenti alla sua comunità a ricercare nuove modalità di sopravvivenza che, in debito rapporto, potrebbero essere adottate all’esterno. Il carcere, paradossalmente, può diventare un laboratorio di idee e di esperimenti sociali che possono contribuire alla definizione di un nuovo paradigma non solo penitenziario ma, addirittura, sociale.
La ricomposizione degli interessi
Gli interessi e il potere, che ognuna delle componenti dell’organizzazione, nessuna esclusa, penitenziaria esprime, hanno un peso nel processo decisionale e quindi nelle scelte e negli effetti concreti che queste hanno sul tipo e sulla qualità di pena che quell’insieme organizzativo esprime. E’ ancora Sarzotti che ci fornisce gli elementi teorici per articolare il ragionamento . Egli propone una classificazione dei messaggi normativi di tipo giuridico regolanti l’ambito penitenziario. Tralasciando il percorso teorico svolto dall’Autore mi limito a riportare il dualismo che ne costituisce il punto di arrivo. Secondo Sarzotti la scienza giuridica concorda che gli attuali ordinamenti, a seguito del processo di costituzionalizzazione del diritto moderno, non si compongano solo di norme o regole ma anche di un altro tipo di messaggi normativi denominati principi. Riprendendo la definizione di Alexy , Sarzotti afferma che le regole “sono norme che nel costruire una fattispecie predispongono una conseguenza giuridica definitiva, e cioè nel costruire determinati presupposti ordinano, vietano o permettono qualcosa”. I principi, viceversa, sarebbero “precetti di ottimizzazione” ovvero “prescrivono che qualcosa deve essere realizzato nella misura più ampia possibile compatibilmente con le possibilità giuridiche e di fatto”. Ispirandosi a Zagrebelsky , Sarzotti conclude sostenendo che le regole si differenziano dai principi in quanto esprimono dei precetti precisi sul tipo di comportamento da adottare rispetto a determinate e specifiche situazioni previste dalle norme stesse mentre, per converso, i principi ci mettono a disposizione dei criteri per prendere posizione a fronte di situazioni a priori indeterminate laddove queste vengano a concretizzarsi. Riportiamo ora questa dicotomia al contesto penitenziario per verificare quale delle due opzioni risulti più efficace. Il modello razionale, rappresentato dalle vecchie burocrazie meccaniche era fondato su norme e procedure stringenti. L’evoluzione organizzativa e la riflessione teorica che l’ha accompagnata hanno dimostrato che quel modo di procedere e i suoi rigidi strumenti non funzionano in casi di imprevisti operativi e turbolenze . Lippi e Morisi , ad esempio, hanno evidenziato l’inefficienza e l’inefficacia di quel modo di procedere allorquando i compiti da affrontare assumono la connotazione gestionale di un servizio. Tanto più, aggiungiamo noi, se il servizio è quello penitenziario deputato, contemporaneamente, alla gestione amministrativa di una pena, alla cura delle persone ad esso affidate e alla progettazione di un percorso sociale di reinserimento. Il grado di imprevedibilità e turbolenza che un siffatto servizio vive e deve affrontare è sufficientemente chiaro a tutti e quindi, a fronte di questa che riteniamo essere una evidenza inoppugnabile, la maggiore utilità di un quadro di riferimento di principi piuttosto che di regole per orientarsi nella quotidianità operativa e nei percorsi negoziali correlati, per i motivi più sopra riportati, dovrebbe essere altrettanto palese. Per altro verso vogliamo ricordare che un altro dualismo efficacemente sintetizzato da Friedberg in uno dei suoi lavori. Egli, trattando del fare organizzativo, ha messo in parallelo il potere e la regola elaborando una visione dell’organizzazione che la equipara ad una vera e propria microsocietà irrimediabilmente legata alle interazioni e ai processi di scambio tra i membri che la compongono, ognuno dei quali si orienta per il tramite della propria razionalità. La convergenza dei vari punti di vista, e delle diverse razionalità che ne stanno alla base, non è un fatto spontaneo ma il risultato di scambi e confronti che rispondono a singole strategie di potere e di negoziazione politica che non può vedere l’ autoesclusione di nessuno. In un contesto organizzativo di questo genere le regole sono solo uno degli elementi negoziali da agire nei vari sistemi di attori e nei loro costrutti di gioco. Alle regole vanno aggiunti molti altri elementi quali le caratteristiche tecniche, economiche, strutturali dei problemi da risolvere e i flussi di dati e di informazioni a disposizione. Tra l’altro la regolazione formale, composta da una elaborazione di regole rigide e stringenti offre smagliature incolmabili e, grazie a queste ultime, paradossalmente, apre spazi inaspettati alle pratiche informali che cerca di limitare ed annullare. In tal senso è proprio la regola che alimenta i giochi politici creando situazioni di incertezza e di squilibrio che generano aggregazioni di potere informale. Ma dobbiamo terminare la riflessione sul parallelismo tra i dualismi citati, regola-principio afferente al mondo giuridico e regola-potere afferente al mondo organizzativo. Pensiamo che tra i due assi prospettati, rispetto alla concreta organizzazione penitenziaria, in termini di utilità pratica, funzionalità, efficacia ed efficienza, prevalgano il principio giuridico e il potere infraorganizzativo rispetto alla somma delle regole giuridico – organizzative nel senso che quest’ultimo insieme costituisce il presupposto del primo ma la possibilità di realizzazione dei principi costituzionali e legislativi del penitenziario passano attraverso l’intimo fraseggio proprio del suddetto primo insieme. Tutto ciò, a maggior ragione, in un contesto in cui le carenze di risorse di varia natura fanno si che l’Amministrazione spesso si veda in affanno rispetto ai propri obblighi. Questa fragilità la espone ogniqualvolta gli altri attori penitenziari richiedono il rispetto delle regole a loro favore, costringendola a compromessi che limitano la possibilità di chiedere, a sua volta, il corrispondente rispetto dei doveri degli altri. È lo stesso Sarzotti a confortare questa visione laddove, trattando delle funzioni normative del direttore dell’istituto, riconosce la sua centralità e la funzione di snodo tra il livello dei principi e quello delle regole. Ma è una centralità relativa in quanto necessariamente negoziata, pena il possibile disconoscimento e la disubbidienza dei suoi ordini, se non addirittura di incremento della conflittualità all’interno del sistema se non riconosciuti dai riceventi in termini di interessi e valori. Per Sarzotti, e noi concordiamo pienamente, “il direttore dovrà farsi interprete (del) contesto ed elaborare un messaggio normativo che possieda un elevato grado di adeguamento alla situazione particolare e che, quindi, venga percepito dal ricevente quanto più possibile come un messaggio accettabile in quanto vicino ai propri interessi e valori”. Si configura, in tal modo, una sorta di sussidiarietà penitenziaria che traduce i principi in atti di concreto dettaglio attraverso un processo di negoziazione con gli attori che compongono il sistema carcerario. L’Autore relativizza il livello di negoziabilità affermando che il direttore “non potrà sfuggire a qualche tipo di messaggio normativo “partecipato” e “specificatamente situato”. In realtà la quotidianità ci porta a dire che più che a qualche tipo di messaggio si dovrebbe far riferimento a quasi tutti i messaggi normativi di dettaglio prodotti, nel senso che o attraverso i processi formali e palesi di coinvolgimento o a quelli informali ed indiretti, le disposizioni regolative tengono necessariamente conto dei riceventi. In ogni modo, il solo riconoscere che il direttore deve negoziare le sue disposizioni in ragione delle esigenze di un contesto significa ammettere che, nel processo regolativo e organizzativo, il direttore deve tener conto da un lato dei principi e dall’altro degli interessi ma anche del potere che i riceventi possono mettere in campo come elemento facilitatore o dissuasore delle volontà del vertice, anche quando queste sono espressione diretta ed esclusiva di una norma. Questo processo, posto in essere dal vertice organizzativo, può essere assimilato ad un vero e proprio processo creativo che tiene conto dei riferimenti generali ma sceglie, combina, media, indirizza, convince, contrasta, le spinte e le controspinte provenienti dall’interno e, a volte, anche dall’esterno del sistema che governa. Nell’introdurre l’elemento della creatività occorre, tuttavia, chiarire che questo non deve essere confuso con l’arbitraria discrezionalità. E’ stato infatti fatto notare che “il criterio dell’originalità, presente in ogni attività creativa, non è un criterio sufficiente, se è disgiunto da una legalità generale che consente all’attività creativa di essere riconosciuta da altri individui. L’accadere della creatività secondo regole è ciò che la distingue dall’arbitrarietà ”. Torna il riferimento ai principi normativi che devono essere rispettati pena il fallimento di ogni tentativo maldestro di imporre azioni organizzative non condivise o riconosciute da coloro i quali ne sono destinatari. Ma se le regole e i principi si intrecciano con la negoziazione tra i rapporti di potere tra le varie parti e la creatività, nel rispetto di una sussidiarietà organizzativa legata a condizioni particolari di contesto, allora si deve riconoscere, senza preconcetti, che i risultati potranno essere diversi da istituto ad istituto e da momento a momento e che questo fatto è naturale in tutte le organizzazioni, quella penitenziaria compresa, e senza che questo possa essere valutato come una specifica distorsione del sistema carcerario. Morgan, su tale aspetto, è stato molto netto affermando che “la scelta tra i diversi possibili corsi di azione dipende, generalmente, dai rapporti di potere esistenti tra gli attori interessati” . Se in una organizzazione nessuno può chiamarsi fuori, così come ci insegna Friedberg , è anche vero che Bonazzi ci ricorda che non si può parlare di carcere senza sentire il punto di vista dei detenuti, e De Vito li ricomprende, ovviamente, tra gli attori dell’organizzazione penitenziaria. Questo significa che tra le pieghe dell’interdipendenza forzosa degli attori serpeggia anche la sofferenza penale dei detenuti che il carcere amministra e che passa tra le relazioni umane e i giochi organizzativi delle varie cricche.
Interessi e giochi a somma superiore di zero
I giochi in questione sono finalizzati a spuntare il massimo del profitto in ragione dei diversi interessi delle varie parti e della volontà di tutelare le rendite di posizione eventualmente già godute da ognuna di esse. Introdotto il tema della sofferenza ed evidenziato il fatto che questa si intreccia instancabilmente nelle relazioni tra custodi e custoditi e all’interno di ognuna delle componenti di queste due macro categorie penitenziarie, ci viene spontaneo pensare che un carcere che soffre è un carcere che fa soffrire ma anche che un carcere che fa soffrire è un carcere destinato a soffrire a sua volta, in una terribile spirale senza fine di traslazione dei problemi approfondita, tra gli altri, da Strati . E il nostro carcere, in generale, è una istituzione che, come abbiamo visto, indubbiamente soffre. Questo genera un certo grado di frustrazione tra il personale al quale ognuno reagisce in modo diverso. Assenteismo, disinteresse, scarso coinvolgimento professionale, tentativi di allontanarsi dai compiti istituzionali per svolgerne altri ritenuti più gratificanti, sono solo alcune delle strategie possibili che possono contribuire, nel loro complesso, a rendere ancor più difficile il raggiungimento degli obiettivi istituzionali minimi. In generale Garland ha evidenziato che negli ultimi anni le agenzie statuali del controllo, e tra queste quelle carcerarie, hanno reagito alle critiche relative alla loro inadeguatezza con la ridefinizione dei propri obiettivi e la puntualizzazione dei loro limiti. Nel caso dei sistemi penitenziari si conferirebbe sempre più importanza alla funzione custodiale e neutralizzante a scapito di quella rieducativa. Se questo è vero è anche vero che non si può dimenticare che nel 1975, data di promulgazione dell’attuale ordinamento penitenziario italiano, dal mondo anglosassone, che già lo aveva implementato da qualche anno, giungevano già gli echi del fallimento dell’impianto rieducativo trattamentale che invece informava la riforma italiana . D’altra parte, le scelte organizzative che avrebbero dovuto parallelamente seguire la scelta del modello penitenziario sono giunte con grave ritardo e sono state comunque frutto di compromessi che non hanno aiutato lo sviluppo armonico del mandato istituzionale , che si è sempre trascinato tra alti e bassi. Questo ci porta a sostenere che le derive disgregative che caratterizzano l’attuale sistema penitenziario discendono non solo dalla già citata ridefinizione del mandato, occorsa dapprima in modo strisciante e negli ultimi anni in modo sempre più palese, ma anche da scelte di fondo incerte e frutto di mediazioni complesse e poco coraggiose effettuate già a partire dagli anni ’70 che, tra l’altro, hanno fatto sì che, caso più unico che raro in Occidente, il sistema penitenziario italiano, improntato formalmente ad un modello trattamentale e alternativo avanzato, veda dal punto di vista organizzativo un’Amministrazione per larga parte rappresentata da un Corpo di polizia affiancato da una esigua minoranza di operatori sociali , in barba alle direttive europee in materia . La dissonanza delle premesse e la ridefinizione strisciante del mandato originario, hanno fatto sì che l’evoluzione organizzativa ed operativa scontasse una serie di criticità. Ad esempio, i dati testimoniano un senso di transitorietà relativamente diffuso tra il personale afferente a tutti i profili professionali, per motivi diversi che possono variare dall’interesse a lasciare la sede di assegnazione per raggiungerne un’altra più vicina al paese d’origine, al fatto che il carcere può costituire un accesso al mondo del lavoro in attesa di un occupazione più ambita e remunerata. Sentirsi transitori in un luogo può voler significare, per gli stessi operatori, sentirsi tali anche nelle cose che si fanno tutti i giorni con un riflesso, in termini di prodotto, scadente e svalutante. Deboli e scarse sono le leve per un governo del personale che rinforzi le parti positive e limiti quelle negative. Anche a livello generale Astarita e coll. hanno rilevato l’effettiva carenza di strumenti di gestione, controllo ed incentivazione del personale con l’aggravante che ad esse è stata segnalata la frequente tutela dei “pessimi soggetti” e il mancato riconoscimento per chi invece svolge correttamente il proprio lavoro. L’incentivazione è ingessata da regole e prassi massificanti, più rivolte a livellare i riconoscimenti che a premiare i risultati ottenuti al fine di evitare le proteste di coloro i quali, più o meno strumentalmente, vedono, costantemente quanto a torto, nelle differenze il segno dell’abuso e del clientelismo. Si sacrifica, in questo modo, una delle poche possibilità di rinforzare il merito e questo può determinare il progressivo affievolimento dell’iniziativa, dell’entusiasmo e della buona volontà anche negli operatori migliori ed efficienti. Considerazioni analoghe possono essere svolte per la valutazione. Un’organizzazione che non riesce ad incentivare e valutare adeguatamente i propri componenti genera, almeno nella parte che si ritiene penalizzata, frustrazione e un diffuso senso di ingiustizia. Il rischio è che una parte di questo personale decida di limitare il proprio coinvolgimento riparametrandolo al livello di gratificazione che percepisce. Se questo è ritenuto basso o nullo sarà difficile contare su queste persone per ottenere i risultati che ci si aspetta a fronte di un atteggiamento e di strategie che saranno sempre più caratterizzate da un disinvestimento emotivo e dall’evitamento delle incombenze loro assegnate. Il tema della mancanza di gratificazione e della percezione negativa della giustizia interna al sistema non è cosa di poco conto se solo si pensa che Friedberg ha sottolineato che il risultato soddisfacente di una organizzazione dipende dalla congruenza tra le sue strutture e i suoi modi di funzionamento e lo stato di cura e sviluppo dei bisogni dei suoi addetti. La limitata partecipazione dei suoi addetti pone a rischio la stessa sopravvivenza dell’organizzazione se questa, come propone Bonazzi , viene vista come nulla più del risultato contingente della partecipazione umana. Ma quest’ultima si genera solamente se l’organizzazione riesce, a sua volta, ad incentivare adeguatamente i suoi membri e tra i rinforzi positivi si contemplano non solo quelli materiali del guadagno ma anche quelli morali, ideali e simbolici. Lo stesso Autore ci avverte che mutando i contributi muta l’efficacia nel raggiungere i fini stabiliti e talvolta i fini stessi in quanto vengono ridefiniti dai membri stessi dell’organizzazione. D’altra parte la stessa percezione esterna non aiuta in termini di gratificazione. Già qualche Autore ha avuto modo di affermare che nell’immaginario comune ogni cosa ruoti intorno al carcere è sentita di basso profilo culturale. Lo stesso lavoro degli operatori penitenziari è spesso vissuto come un opzione dequalificante e di ripiego nella vita delle persone che la praticano. Secondo un recentissimo studio il mondo penitenziario è per gli italiani una realtà largamente sconosciuta, e la sua percezione risulta essere approssimativa, contraddittoria, lacunosa, al punto che vi è addirittura incertezza sul riconoscimento delle stesse figure professionali operanti all’interno del sistema L’efficienza di questo sistema è valutata gravemente insufficiente e le finalità riabilitative proprie del suo mandato, per il 72% degli intervistati, sarebbero da considerarsi irrealizzate. La polizia penitenziaria, per parte sua, soffrirebbe di una insufficiente visibilità e sconterebbe, rispetto all’opinione pubblica, un debito di riconoscibilità e di immagine e godrebbe di una fiducia inferiore a quella degli altri corpi di pubblica sicurezza. È un quadro frutto di opinioni in larga parte mediate dalla tematizzazione tracciata dai mezzi di comunicazione di massa, a sua volta associata, in modo pressoché esclusivo, a episodi di cronaca a sfondo violento e drammatico come i suicidi, le aggressioni, le evasioni. Lo studio non fa che confermare le opinioni del personale che si raccolgono nel quotidiano e che, in sintesi, coniugano un senso di inferiorità rispetto ad altri corpi di polizia o amministrazioni dello Stato ad una percezione di inefficienza generale del sistema. Da questo stato di cose ci si difende, sostanzialmente, attraverso il forte corporativismo e la sindacalizzazione, e lo scatenarsi di derive centrifughe alla ricerca di Amministrazioni diverse da quella attuale, accusata di una incapacità manifesta nella gestione e nella tutela dei diritti delle proprie risorse umane. Tra l’altro tali richieste sono in assoluta controtendenza rispetto alle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa che, dalla fine degli anni ’80, ha imposto agli Stati membri di trasferire le proprie amministrazioni penitenziarie ai rispettivi Ministeri della Giustizia in modo da separare nettamente il servizio penitenziario da quelli di polizia . Tutto questo incide sulla stessa unitarietà dell’organizzazione che viene così ulteriormente posta in crisi. Il segno evidente di queste affermazioni è rappresentato dalle sempre più alte aspettative che vengono avanzate, in genere dirette ad allontanarsi dal centro della sofferenza penitenziaria, costituito dal detenuto con le sue difficoltà e le rispettive aspettative, oppure a trarre il maggior livello di riconoscimento economico e di posizione. L’esplicarsi di tutto questo può significare porre le premesse per un conflitto tra custodi e custoditi che si attivi non più su posizioni ideologiche, relative al modo di intendere ed interpretare la gestione penitenziaria e le finalità della pena, quanto piuttosto sul timore che uno spazio concesso ad una delle due parti possa costituire una proporzionale perdita di uno spazio dell’altra parte. C’è il serio rischio di innescare una serie di giochi a somma zero tra le parti che rigidamente si contrappongono con risultati autoelidenti. Sono tatticismi forse utili nel breve momento e rispetto agli interessi particolari, certamente non riescono a rimediare alla sofferenza del sistema e il loro corto respiro, quindi, non consente di mettersi al riparo in modo stabile dai disagi derivanti dal contesto organizzativo. Il tentativo di dislocare altrove responsabilità, da un lato, ed oneri, dall’altro, non fa che alimentare costantemente le spinte e le controspinte finalizzate a modificare le rendite di posizione acquisite da alcuni a dispetto delle posizioni penalizzate degli altri, in un moto perpetuo che non lascia pace a nessuno. In questo senso un carcere che soffre fa soffrire esponendosi, in tal modo, a nuove sofferenze. Per modificare questo stato di cose occorre, evidentemente, spezzarne la logica. La dinamica conflittuale, da cui si genera la spirale che abbiamo descritto, è espressione di energie che si contrappongono, ognuna delle quali è orientata da un particolare indirizzo. È questo il nocciolo della riflessione. Occorre, in altri termini, individuare la fonte di tali energie, ovvero i protagonisti, i loro particolari obiettivi, gli elementi organizzativi che apprezzano e quelli da cui tendono a sfuggire, in modo da tracciare una mappa di interessi positivi e negativi che consenta di incanalare tali energie secondo una vision più generale che alcune volte può fare riferimento ad una piccola particella organizzativa ed altre ad un insieme più allargato. Procedendo in questo modo le varie tattiche costituiscono gli elementi di una nuova strategia finalizzata alla riduzione della sofferenza complessiva dell’organizzazione e delle sue componenti. Uno dei primi passi compiuti presso l’istituto che dirigo, a Torino, è stato quello di riconoscere, sull’onda delle suggestioni di Bonazzi, che i detenuti non solo sono meritevoli dell’ascolto del loro punto di vista, ma anche del riconoscimento del fatto che costituiscono una risorsa importante per il buon andamento della stessa comunità penitenziaria. Riconoscere questo significa modificare profondamente il modo di vedere il carcere che tradizionalmente, invece, percepisce dei detenuti solamente il peso gestionale e la dimensione numerica. Non è un caso che anche nel dibattito attuale sul sistema penitenziario italiano, sia a destra che a sinistra, la quantità sia l’elemento su cui si concentra il focus di qualunque ragionamento o proposta. Per certi versi questo è assolutamente comprensibile ma nel contempo rischia di fuorviare qualunque tentativo finalizzato a migliorare la precaria condizione detentiva. La nostra esperienza evidenzia che appena si include il detenuto nel legame comunitario e lo si converte da oggetto a soggetto, da peso inerte e fonte di rischi a titolare di idee, competenze ed energie, si liberano forze ed opportunità utili per la stessa comunità, passando dalla negatività inerte della quantità alla positività del riconoscimento delle qualità. I detenuti sono una risorsa nel senso che le loro stesse caratteristiche personali possono diventare appetibili per la società esterna che viene attirata quindi dal carcere che li detiene, portando con se nuovi modi di vedere che svolgono una funzione di stimolo al cambiamento e di riqualificazione delle stesse attività penitenziarie. Ma la possibilità di impegno svolge anche altri effetti benefici per il sistema perché attiva un’azione calmierante dell’ozio e della tensione. Il coinvolgimento e la restituzione di una “umanità” al detenuto non è una novità. Ovunque si è tentata tale operazione ha dato i suoi frutti, anche in situazioni molto più complesse e degradate della nostra. Significativo, ad esempio, è quanto è avvenuto nel carcere di Nuova Delhi, Tihar, enorme nelle sue dimensioni fisiche, circa 200 acri, ed umane, 9.700 detenuti stipati in condizioni di profonda misera e degrado, ma dove nei primi anni ’90 si è iniziato a tener conto delle loro idee e proposte oltre che delle loro capacità e competenze per migliorare la struttura e la sua organizzazione . Tra le varie riflessioni e i passi intrapresi nel corso del lavoro quotidiano presso l’istituto di pena torinese, quello del riconoscimento dell’importanza della componente detenuta nell’ambito della comunità penitenziaria è stata solamente una e ad essa si sono aggiunte altre considerazioni e decisioni che sono andate verso un vero e proprio salto culturale. L’accesso, nelle sue varie forme e modalità, continuo e costante della società civile, sino a sfiorare la soglia delle celle; il dialogo con le persone ristrette ma anche il confronto con il personale hanno sicuramente stemperato le tensioni ma anche limitato,”fisicamente” le opportunità per una relazione conflittuale e violenta tra le parti interne. L’ingresso di opportunità di lavoro concrete, con le relative necessità indotte quali il rispetto degli orari, degli impegni, del risultato atteso, hanno “educato” il carcere, almeno quella parte più direttamente interessata, ad una nuova cultura del lavoro. Si sono dovuti affrontare problemi sino a quel momento neppure mai pensati e, nel farlo, si è proceduto con modalità molto diverse da quelle proprie della burocrazia pubblica. Tutto questo ha potenziato la legalità all’interno del carcere. Ciò ha permesso di approfondire molti aspetti della quotidianità che, seppur presenti, sfuggivano alla discussione e, soprattutto, creato le premesse per stimolare l’implementazione di iniziative pensate dal basso e, come tali, più sentite dagli attori di quel contesto. È aumentata, di conseguenza, la partecipazione, se non di tutti, di molti operatori. Questo ha, in alcuni casi, fatto emergere le contraddizioni e le carenze del sistema nel suo complesso ma, di per sé, ha assunto un valore positivo, considerata la tendenza istituzionale ad accettare supinamente alcune anomalie come inevitabili. L’aumento del confronto interpersonale e la comparazione degli interessi in campo hanno consentito la soluzione di alcuni di questi problemi. Il processo in questione ha consentito una maggiore efficacia delle soluzioni proporzionalmente al radicamento di queste nel suddetto confronto e al numero di interessi contemporaneamente soddisfatti e, allo stesso tempo, al riconoscimento degli sforzi intrapresi, delle soluzioni adottate e, da questo, all’aumento della gratificazione professionale. Si è, in altre parole, invertito una parte del processo decisionale, tentando di rivitalizzare la base dell’organizzazione, responsabilizzandola rispetto alle azioni ritenute necessarie per il miglioramento della vita professionale. Questo tentativo ha permesso alle parti di scambiarsi opinioni, saperi, timori, difficoltà rispetto al rapporto professionale e umano, idee e soluzioni, scoprendo nuove modalità di collaborazione. Se in alcune circostanze tale relazione non ha fatto grossi passi in avanti, in altre questo ha significato prendere coscienza che l’unione generava una ricchezza, spesso si è compreso che in un ambito carente di risorse materiali si può ovviare con la risorsa dell’ingegno personale e della reciproca collaborazione Tendenzialmente si può affermare che il percorso descritto si è interposto ad una serie di difficoltà organizzative che, sino a quel momento, avevano caratterizzato l’istituto, quali lo scarso reciproco riconoscimento tra i vari operatori, il basso livello di comunicazione interprofessionale, strategie decisionali verticistiche poco attente al coinvolgimento della base. Inutile dire che questo stato di cose generava un diffuso senso di frustrazione e di anomia. Il nuovo modello organizzativo ha generato una inversione nel modo di operare ma anche di percepire ed affrontare le questioni in campo. Il detenuto è stato quasi sempre al centro delle discussioni e, come abbiamo accennato, si è rivelato una tra le risorse possibili. È balenata l’idea, seppure non sempre così chiara e netta, che spesso le risorse non si presentano in modo palese ma che, a volte, occorre procedere ad un vero e proprio processo creativo che, ribaltando un modo di vedere standardizzato ed acritico, ridefinisce un problema in una opportunità. Come già accennato la quantità di persone incarcerata può essere vista come un pesante fardello o come un dato interessante per la ricchezza delle diversità umane che consente la possibilità di programmare nuove iniziative proprio a partire dalle competenze e dai bisogni di questi gruppi. Gli stessi spazi possono essere riconvertiti percettivamente in questo modo. In un istituto formato da cinque o sei sezioni non vi è la stessa possibilità di creare aree omogenee quanto quella di un istituto con oltre quaranta reparti, in ragione della necessità di riunire i detenuti che frequentano alcuni corsi scolastici o che sono impegnati in attività o progetti. Culture considerate povere e arretrate celano una ricchezza in termini di competenze desuete e per questo rare e ricercate nella nostra società, senza contare che dalla comunità detenuta possono arrivare richieste, opinioni, sollecitazioni utili al miglioramento delle condizioni complessive dell’istituzione carceraria che, indirettamente, significa migliorarle anche per le persone che in quell’istituzione vi lavorano. La cura della parte coatta quindi, secondo questo modo di interpretare le cose, diventa un interesse primario anche per la parte che la custodisce e la tratta. Se dovessimo estendere il principio alla società esterna sarebbe come dire che perdere i vinti significa perdere noi stessi. Una visione di questo genere è quella che ha consentito la realizzazione di una serie di iniziative interne che hanno liberato le energie delle componenti umane e professionali del sistema. Per fare questo si è dovuto superare e reintepretare alcune delle sue rigidità. In particolare si è dovuto uscire dalle secche dei giochi a somma zero legati alle logiche corporativistiche del tutti contro tutti in difesa delle rendite di posizione della propria parte. Quando si è riusciti a far comprendere che le stesse rendite potevano essere difese ancor meglio semplicemente modificando le vecchie prassi e introducendo innovazioni che, pur cambiando gli assetti, garantivano le posizioni e introducevano un guadagno ulteriore per tutti, si è assistito ad un proliferare di nuove ipotesi. La liberazione di idee ed energie ha generato un processo virtuoso che, mutuando un vecchio adagio, potremmo definire da cosa nasce cosa. Molte delle iniziative poste in essere hanno costituito la premessa per farne nascere altre, in un percorso che ha reso credibile l’istituto da tanti punti di vista. Questa credibilità ha attirato l’esterno per motivi diversi, dalla partecipazione sociale a quella finanziaria ed industriale, al punto che alcuni settori, da alcuni anni, sono gestiti direttamente da soggetti diversi da quelli che tradizionalmente ed istituzionalmente dovrebbero occuparsene. Questo ha dato spazio a quello che abbiamo definito l’insourcing penitenziario, processo non semplice dal punto di vista dei percorsi di inserimento e collaborazione tra le parti coinvolte, ma sicuramente molto educativo e stimolante rispetto al tema del cambiamento della cultura degli operatori di una Amministrazione pubblica ancora nel mezzo di un guado che, dai crismi della burocrazia meccanica, vuole indirizzarsi a quelli degli obiettivi perseguibili e dei risultati ottenuti. Quella dell’insourcing è una visione nettamente diversa da quella propria delle ipotesi che danno per auspicabile il trasferimento di una serie di funzioni e competenze dal penitenziario al livello del governo locale e regionale . Personalmente sono convinto che “importare” forze nuove all’interno del sistema lo arricchisca, lo educhi costringendolo a modificare il suo modo di ragionare e lo induca a cambiare il suo modo di agire. Ma il processo di inserimento di queste forze è un percorso molto delicato e abbisognevole di cure adeguate e puntuali in modo da amalgamare e rendere gestibile il sistema dopo l’innesto. Spesso si accusa il sistema penitenziario di essere un sistema chiuso ed impenetrabile. Probabilmente è più corretto dire che questo, come ogni sistema, pone delle condizioni alla sua intrusione in ragione, non tanto per motivi ideologici, quanto per gli effetti modificativi, percepiti o reali, che questo può determinare in una o più delle sue componenti. Tale tensione all’autodifesa, tuttavia, di questi tempi, è sempre più messa in crisi dalla necessità di attingere dall’esterno risorse, umane, specialistiche e progettuali, non presenti all’interno dello stesso sistema. Questa necessità, per essere soddisfatta, comporta il rispetto di una serie di esigenze che, viceversa, assumono l’aspetto di altrettanti ostacoli, a volte insormontabili. Il successo dell’inserimento e dell’accettazione parte dall’utilità che lo stesso determina per il sistema e per le sue componenti più immediatamente coinvolte. Tale utilità deve intendersi sia in termini negativi che positivi; in genere le prime precedono le seconde nel processo di cambiamento. Nel primo caso, infatti, si avrà una utilità in ragione dello sgravio di compiti od oneri che questa comporta. Carico di lavoro e responsabilità connesse sono tra quelle di immediato apprezzamento. Realizzare che la nuova modalità non comporta ulteriori rischi ma, addirittura, può risultare più conveniente, da questo punto di vista, è un elemento essenziale per la riuscita dei processi di modificazione e miglioramento delle prassi penitenziarie. Rientrano tra le utilità positive quelle legate al miglioramento delle condizioni di lavoro dei soggetti istituzionali coinvolti, sia a livello individuale che collettivo, e queste non possono che apprezzarsi con l’andar del tempo. Ambienti di lavoro migliori, procedure più efficaci, allentamento delle tensioni nella relazione umana, ma anche la visibilità e la valorizzazione delle proprie mansioni, il sentirsi centrale rispetto ad un processo di miglioramento, la gratificazione che ne deriva, soprattutto se ci sente al riparo dai rischi che tali innovazioni possono comportare, costituiscono ulteriori elementi che consolidano il processo. Da queste prime considerazioni si ricava in negativo il fatto che si riesce ad incardinare nuove forme di collaborazione e di professionalità se queste non sono di ostacolo o addirittura foriere di un aggravio delle condizioni precedenti. Le novità devono portare con sé un processo di semplificazione per poter essere effettivamente realizzate. Occorre, in altre parole, generare intorno al nuovo un consenso che passa attraverso gli elementi testé descritti. È un consenso che non si ottiene una volta per tutte. È una condizione che può e deve essere riverificata periodicamente e ogni qualvolta sia ritenuto necessario. Lo sviluppo delle nuove attività ridetermina equilibri che continuano a mutare nel tempo e questo comporta la modificazione dinamica degli interessi e dei poteri che li supportano. Il rischio è che le utilità che hanno consentito la fase iniziale si trasformino in disutilità e che questo metta in crisi il processo. Abbiamo detto della componente percettiva del proprio ruolo e della propria gratificazione. È sufficiente che questa non venga adeguatamente coltivata nel corso dell’azione perché ne consegua una negativizzazione con il conseguente ritiro di quella risorsa dal processo stesso. È quindi necessario una continua azione di monitoraggio e di coordinamento dei processi innovativi implementati. Lo stesso spirito dell’innovazione può modificarsi in ragione del fatto che gli obiettivi originali si modifichino o perché completamente raggiunti o perché non più attuali per una modificazione del contesto stesso. In un caso come nell’altro è necessario una ridefinizione periodica degli obiettivi e, con questa, una ridefinizione tra le parti delle nuove utilità che questa può determinare. Si tratta, cioè, di ricontrattare il consenso anche se l’istituzione si tiene ben stretto il potere di coordinamento. Se questo non avviene il rischio è che le iniziative, tanto faticosamente create attraverso l’intuizione, lo studio, il confronto e la mediazione politica tra i vari interessi, semplicemente, cessino un bel giorno di esistere senza un preavviso, quasi d’inedia, per desuetudine. Per descrivere questo processo si è coniato il termine risacca istituzionale che ben descrive, in punta di metafora, quel processo che è in grado di cancellare progressivamente anche gli impianti organizzativi più strutturati . La causa di questa progressiva degenerazione organizzativa si compone di una miriade di atteggiamenti e comportamenti individuali in genere finalizzati ad arginare il crescere delle proprie incombenze e all’aumentare il proprio benessere. Ne fanno parte, ad esempio, la tendenza di conferire deleghe in bianco, ad adottare una visione particolare a scapito di una generale, a non misurare e valutare il proprio e l’altrui lavoro, a non tener conto dei programmi generali, ad evitare l’imbarazzo del confronto e del dissenso, ad evitare coinvolgimenti emotivi rispetto alle proprie incombenze, ecc. Tutto questo produce, a lungo andare, sfilacciamenti organizzativi di non lieve momento. La comunicazione si sclerotizza e si standardizza riducendo la connessione tra i vari operatori che quindi finiscono, nel complesso, per sentirsi più soli nell’affrontare le questioni più spinose in un contesto percepito in modo impersonale ed ostile. Da questo deriva l’incremento degli spunti ansiogeni e il ritiro in più tranquillizzanti e deresponsabilizzanti prassi già consolidate nel tempo seppur più orientate al rispetto delle procedure che alla soluzione dei problemi concreti. Ma l’istituzione non deve solo svolgere questa continua funzione di stimolo e negoziazione continua del consenso. Essa deve anche dimostrare di saper difendere i risultati ottenuti attraverso i cambiamenti. Il patrimonio di utilità non può essere messo a rischio perché è a questo patrimonio che fanno riferimento tutti gli appartenenti all’organizzazione, indipendentemente da quale sia il titolo di appartenenza, per trovare le risorse e le motivazioni per continuare a contribuire al buon andamento generale . La percezione che il patrimonio sia non adeguatamente gestito e difeso, da chi ha il potere e l’onere di farlo, induce insicurezza che, come è ovvio, costituisce una disutilità pericolosa, capace di indurre fenomeni di disinvestimento, disgregazione, autodifesa dello status quo, rarefazione della collaborazione, frammentazione dell’organizzazione e, prima ancora, della volontà degli operatori coinvolti. Viceversa la capacità di concretizzare le iniziative e di consolidarle stabilizza il sistema, lo rende credibile agli occhi degli operatori coinvolti e li rassicura rispetto al continuo dilemma polarizzato tra le decisioni di lasciarsi coinvolgere o meno. E non si ferma qui. La capacità di concretizzare e consolidare contribuisce a trasformare un carcere, da voce di spesa e oggetto di interventi assistenziali, a partner affidabile in attività produttive, culturali e sociali. Questo, a sua volta con un effetto volano, richiama iniziative, richieste di collaborazione e progetti che possono essere utili per incrementare il processo di contaminazione e coinvolgimento descritto. L’afflusso di energie di questo genere e le collaborazioni che si riescono ad attivare tra le componenti interne ed esterne del sistema generano spunti di vitalità essenziali per modificare il concreto regime di vita detentiva e, in questo modo, il senso e la qualità della pena. In questo senso la contaminazione con realtà istituzionali e private esterne contribuisce fortemente a ridare vigore a quell’attività trattamentale evocata dall’Ordinamento del ’75 che, troppo spesso, nel tempo, si è poi tradotta in attività para burocratiche o di mero intrattenimento. L’impegno continuo in attività, lavorative, scolastico – formative e culturali, sostanzialmente eguali a quelle normalmente condotte nella vita libera, aiutano il detenuto a misurarsi con le regole, le difficoltà e le gratificazioni che queste offrono e, in tal senso, lo stesso diventa meglio intellegibile all’osservatore che ha l’onere di esprimere giudizi e valutazioni utili per il percorso modificativo della pena. Ma l’osservatore istituzionale può andare in crisi se coglie nel processo un suo ruolo marginale e poco gratificante rispetto a quello degli altri membri. L’idea di outsourcing prospettata da Astarita e coll. prevederebbe, viceversa, “la moltiplicazione dei centri di gestione del sistema penitenziario” al fine di “rompere il senso di monolicità e opacità proprio dell’attuale amministrazione penitenziaria”, prevedendo, ad esempio, il passaggio delle dipendenze funzionale e gerarchica degli operatori trattamentali, quali gli assistenti sociali, gli psicologi e gli educatori, dal livello ministeriale a quello locale. Crediamo che la concretizzazione di tale ipotesi non determinerebbe un miglioramento del sistema ma, a contrario, il peggioramento del suo governo e dei suoi risultati. La letteratura organizzativa ha ampiamente dimostrato che la creazione di più centri gestionali genera un pari numero di mondi separati l’un dall’altro, ognuno con i propri obiettivi, linguaggi e metodologie e questo non migliora di certo l’efficacia del sistema. Il recente passaggio della sanità penitenziaria a quella nazionale è un esempio di quanto appena affermato. In secondo luogo una siffatta riforma legherebbe i modelli e le pratiche trattamentali alle contingenze politiche e finanziarie dei vari enti locali chiamate a gestirle. Nel nostro caso, viceversa, pur tenendo fermo il coordinamento e la responsabilità dell’indirizzo si è lavorato per integrare le visioni e i contributi e questi hanno reso più ricco il sistema. Nella realizzazione di questo progetto organizzativo l’applicazione delle regole è sempre stata subordinata a quella dei principi normativi generali, soprattutto ogni qualvolta ci si è trovati di fronte ad una rigida contrapposizione di interessi, ognuno dei quali, in genere, risultava perfettamente tutelato da regole formali che apparentemente non lasciavano spazio di azione. In quei casi solo la creatività informata dai principi generali ha consentito di uscire dalle secche di percorsi che facevano riferimento ad un insieme di razionalità diverse tra loro e che, nel complesso, rendevano l’intero sistema irrazionale e campo privilegiato per giochi di alleanza e di scontro tra le parti. Solo una politica attenta ad individuare le corrispondenze di interessi utili a tessere alleanze virtuose stabilite dai principi guida ha consentito l’evoluzione del sistema scongiurandone l’implosione. Complessivamente crediamo di aver dimostrato che attraverso una riflessione di stampo marcatamente organizzativo si può modificare un certo modo di far carcere sino ad aumentare il benessere delle parti che lo compongono, e, nel contempo, migliorando la qualità della vita e della legalità interna. Dal punto di vista normativo grande speranza deriva dalle indicazioni europee in materia penitenziaria già citate. La Raccomandazione del Comitato dei Ministri degli Stati membri sulle Regole Penitenziarie Europee, adottata nel 2006 , per quanto mai recepita dal Governo italiano, è un formidabile strumento per orientare le azioni degli operatori penitenziari in quanto indica degli obiettivi generali lasciando a chi deve interpretalo l’onere di trovare le soluzioni più adeguate. E’ un corpus di principi e, come tale, è un assoluto punto di riferimento rispetto ad un lavoro organizzativo che voglia essere attento alle dinamiche “politiche” prese in considerazione nel presente contributo. Di fronte alla difficoltà di creare consenso ed ottenere collaborazione tra le componenti variegate di una organizzazione complessa, qual è quella penitenziaria, e alla necessità di mediare e negoziare tra i loro diversi punti di vista, un corpus giuridico di questo genere costituisce una risorsa importante. Con questo non si vuole sostenere che il nostro ordinamento e il suo regolamento di esecuzione non siano validi. Più semplicemente si vuole sottolineare che, nel loro dettagliato articolato, procedono per regole spesso minute che, come tali, lasciano spazio alla mentalità burocratica del rispetto pedissequo delle procedure e dell’adempimento per l’adempimento, più che a quella del risultato. In un contesto difficile e turbolento, soprattutto se aggravato come nell’attuale crisi generale, la prima mentalità ha buon gioco nel dimostrare che, pur nel rispetto dei passaggi dovuti, poco è possibile realizzare. In tal senso amministrare la sofferenza può voler significare produrne di ulteriore. Non è certo un caso se Luigi Manconi, nella prefazione all’edizione italiana delle Regole penitenziarie europee , sottolinea che le stesse sono perfettamente aderenti ad una idea di pena razionale e intelligente, risocializzante e non degradante e, contestualmente, fa notare che l’articolo 4 delle stesse Regole afferma che la mancanza di risorse non può giustificare condizioni di detenzione che violino i diritti umani e, subito dopo, all’articolo 5 prescrive che la vita in carcere si allinea quanto più rigorosamente possibile agli aspetti positivi della vita all’esterno del carcere. Prendere atto di questi così come di tutti gli altri principi può significare cercare, tra le potenzialità e i meccanismi del proprio contesto di lavoro, quelle forze che consentono di tendere ad essi sino a raggiungerli in un percorso creativo che utilizzi e rispetti le regole senza divenirne schiavo e in virtù dei predetti obiettivi. E se Coyle giunge a definire il sistema penitenziario come “la componente più negletta della giustizia penale, così come peraltro già ricordava Nicolò Amato negli anni ’80, è pur vero che lo stesso Autore sottolinea come il Comitato dei Ministri Europei ha riconosciuto agli operatori penitenziari il fatto che il lavoro nelle carceri costituisce una sfida che, a nostro modo di vedere, si può vincere a partire dalla riflessione minuta e attenta dell’organizzazione penitenziaria, dei suoi meccanismi più intimi e propri dei processi negoziali e “politici” che essa, come ogni altra organizzazione, pone in essere nel corso del suo esplicarsi quotidiano. Il risultato della combinazione tra questo genere di riflessione e quella parallela sul senso giuridico del lavoro in carcere, crediamo, possa fare in modo che amministrare la sofferenza non debba più essere necessariamente sinonimo negativo della nota tesi di Kristoffersen secondo il quale la sostanza della carcerazione equivarrebbe ad un a vera e propria tirannia delle inezie, quanto, piuttosto, quello dello sforzo quotidiano per ridurre le varie sofferenze indebite della pena, oggi tutt’al più elencate come qualcosa di risaputo, dato per scontato ed imputato, spesso e troppo semplicisticamente, all’incapacità di chi lavora in carcere.
Conclusioni
Avviandoci alle conclusioni possiamo tornare alle riflessioni della Davis. Quello che oggi è inimmaginabile lo potrebbe essere in un futuro più o meno prossimo. Il carcere, nella sua funzione di ultima stanza ove relegare le questioni sociali irrisolte, esprime segni di crisi profonda ai quali si aggiungono i noti problemi finanziari che affliggono l’Amministrazione pubblica italiana. Ma tutte le ultime stanze, per quanto possano essere stipate di detenuti, pazienti, utenti, hanno costi finanziari che, in un futuro più o meno prossimo, non potranno più essere sostenuti, e la questione sarà ancora più aggravata dalla logica stessa di questi luoghi, assimilabili a veri e propri capolinea sociali che non prevedono ulteriori possibilità di dislocazione dei problemi che trattano e gestiscono. È molto probabile che, soprattutto per questo motivo, si giungerà alla ridefinizione dei compiti e delle funzioni del carcere orientandosi a forme diverse. D’altra parte altri costi si aggiungono a quelli più squisitamente economici. Ci si riferisce a quelli connessi all’inefficacia degli interventi trattamentali assistenziali e terapeutici che non fanno che stabilizzare identità devianti e processi di separazione ed espulsione con costi sociali molto alti in termini di aumento della marginalità e della corrispondente percezione di insicurezza e paura sociale. Questa è un’altra contraddizione che, prima o poi, esploderà e dovrà essere affrontata con strumenti diversi da quelli ad oggi utilizzati. Nei prossimi anni, quindi, è molto probabile che si giocheranno partite importanti per la ridefinizione dei paradigmi penali e penitenziari. È quindi essenziale attivare un dibattito che evidenzi le anomalie e proponga modelli diversi che siano in grado di rispondere ai gravi e sempre meno risolvibili problemi d’ordine metodologico e finanziario. In giro per il mondo ci sono esempi di questo genere, come ad esempio l’esperienza sudafricana della Commissione per la verità e la riconciliazione o ai programmi di mediazione penale che, in giro per l’Europa, rispondono all’esigenza di deflazionare le corti di giustizia e le carceri, abbreviando i termini della ricomposizione delle fratture al patto sociale che il mancato rispetto delle norme producono. Illuminante è la posizione della Davis che propone di riflettere su una questione semantica che ha tuttavia un importante riflesso pratico. Dice la Davis: oggi il paradigma penale associa al concetto di colpa quello di castigo con le conseguenze che vediamo nei tribunali e negli istituti penali ma se noi sostituissimo al primo concetto quello alternativo di responsabilità questo richiamerebbe, quasi per assonanza, quello della risarcimento. È un mondo completamente diverso quello che si può così prospettare. Ricomposizione, risarcimento, riconciliazione, tre R che possono fondare un nuovo paradigma con costi e risultati potenzialmente migliori di quelli oggi praticati. Questo significa anche uscire, per una certa parte, dalla logica dagli approcci e dalle istituzioni specialistiche, oggi trasformate in ultime stanze, per ampliare l’applicazione di un tipo di approccio sociale e generalista. L’ordinamento penitenziario italiano del ’75 sottolinea questa prospettiva laddove prevede che l’attività trattamentale non riguardi esclusivamente i ruoli professionali organici dell’Amministrazione penitenziaria ma anche tutta la rete sociale, pubblica e privata, intorno all’istituto di pena. Laddove questo è stato realizzato e nella misura in cui è stato possibile, si è potuto notare un sensibile scarto nelle relazioni, nel clima interno, nell’organizzazione, nella gratificazione degli operatori e dei detenuti, nell’abbassamento delle tensioni, nei risultati individuali e sociali ottenuti. Credo che la base di tutti questi sforzi sia da individuarsi in un cambio dell’ottica con il quale è osservato e trattato il deviante. Oggi siamo abituati a pensare alle persone in carcere come una questione numerica. Questo approccio si infila nei nostri pensieri e dal numero si passa all’indifferenziazione e a considerare questa massa di individui con le categorie stereotipate dello straniero, del tossicodipendente, del vuoto a perdere. Si parla indifferentemente di marocchini, di tossici, di delinquenti, di marginali, di pazzi e si prospettano soluzioni dislocative quali la costruzione di nuovi istituti o le espulsioni dal territorio nazionale o il ricovero in comunità terapeutiche o in ambulatori dei servizi territoriali. Gli stessi detenuti soggiacciono a questa logica cogliendone ed accettandone lo stigma che rimane un elemento identitario secondo quel processo di prisonizzazione che Clemmer ha delineato . Ma a questo si può ovviare se si introduce un processo di ridefinizione delle persone in termini di risorse. Procedere in tal senso implica generare una sorta di effetto pigmalione fondato sul fornire opportunità alle persone che, gradualmente, riscoprono le proprie capacità e la propria dignità . La stessa istituzione scopre competenze, creatività, impegno in persone, viceversa, confuse nella massa indistinta. Non è solo una questione di occupazione lavorativa o di percorsi scolastici e formativi. Si colgono segnali importanti di persone e gruppi che, in carcere, danno la loro disponibilità per aiutare quella parte del carcere più povera in competenze, capacità e possibilità o, come già sperimentato in Inghilterra rispetto a quelle persone a rischio auto lesivo. Tale scoperta e soprattutto l’applicazione di quelle competenze da lustro all’Amministrazione penitenziaria che ottiene un certo grado di visibilità e credibilità che si riflette anche sulla gratificazione professionale dei suoi operatori. Non ovunque questo è avvenuto o, addirittura è stato tentato ma, al di là di questo, non potrebbe essere questo un processo duplicabile anche all’esterno? Invece di espellere non sarebbe meglio accogliere? Invece di zittire non sarebbe meglio far esprimere? Far partecipare significa arricchire tutti, dentro come fuori dalle mura di un carcere che oggi, paradossalmente, mostra segnali profetici che non dovrebbero rimanere inascoltati.
Pietro Buffa, Direttore della Casa Circondariale di Torino
I paradigmi e la loro evoluzione
La vita di un uomo è troppo breve per consentirgli di percepire pienamente gli elementi di un cambiamento epocale.
Solo a chi è dato vivere in prossimità di un momento di questo genere è possibile coglierne gli effetti e, anche in questo caso, manca la necessaria serenità e distanza per poterne apprezzare le dimensioni e le conseguenze.
In genere ci pervade una sensazione di relativa immodificabilità, in particolare dei paradigmi fondanti le istituzioni basilari della società.
In tal senso è illuminante la tesi di Angela Davis che, trattando della schiavitù in America nel periodo precedente alla Guerra Civile, evidenzia come fosse impossibile anche solo immaginare che l’economia di quel Paese potesse fare a meno di quella forma di sfruttamento produttivo.
Il paradigma economico e sociale di quel momento guidava le riflessioni e le considerazioni escludendo implicitamente ogni possibile alternativa alla luce della sua efficacia, resa concreta e palese dai risultati economici e dalla pace sociale ad essa connessa.
Il fatto che milioni di schiavi venissero sacrificati non scuoteva le coscienze e l’equilibrio ottenuto. In campo epistemologico, e in relazione all’evoluzione scientifica, sono ben note le tesi di Khun secondo il quale il progresso scientifico non procede gradualmente verso la verità bensì attraverso veri e propri slittamenti di paradigma, ovvero quell’insieme di teorie, leggi e strumenti che definiscono una tradizione di ricerca universalmente accettata in un certo momento storico.
Per quanto sia consolidato un paradigma, continua Kuhn, nel corso della sua applicazione si verificheranno delle anomalie, ossia eventi che il suddetto quadro di riferimento non riesce a risolvere.
Quando tali fallimenti sono evidenti e frequenti il quadro vigente entra in crisi e si genera una nuova fase in cui iniziano a proliferare altri paradigmi che tentano di spiegare le anomalie irrisolte.
Tale proliferazione genera, a sua volta, una discussione all’interno della comunità scientifica volta a decidere quale dei nuovi modelli debba essere accettato.
Secondo l’Autore il paradigma che riuscirà a cogliere il maggiore interesse e la fiducia degli appartenenti della comunità scientifica prevarrà dando così inizio ad una nuova fase.
Le riflessioni riguardanti l’evoluzione scientifica possono essere traslate a quella sociale ed il contributo della Davis, precedentemente citato, va in questa direzione.
È allora interessante considerare che le stesse considerazioni relative alla modificabilità dell’economia schiavista vengono riproposte anche per la questione penitenziaria con riferimento alla possibilità di un suo superamento.
Si tratta di una prospettiva oggi apparentemente improponibile, tanto è radicato l’assioma punitivo fondato sulla detenzione.
La letteratura abolizionista, e soprattutto i tentativi di applicazione concreta, non sono riusciti a modificare la richiesta di maggiore penalità di questo genere. Garland ha mirabilmente tratteggiato il percorso storico e socio-economico che ha portato il mondo occidentale a dotarsi di un paradigma sociale sempre più orientato alla punizione e, da parte loro, Autori come la Davis, e prima ancora Christie , hanno sottolineato la funzionalità del sistema penitenziario dal punto di vista economico, rappresentando un investimento proficuo e, allo stesso tempo, da quello più generale della tenuta sociale, accogliendo strati marginali che, in ragione della progressiva carenza di risorse economiche, non possono essere più gestite da un welfare sempre più in difficoltà.
Sono questi i contorni del paradigma sicuritario che pervade la nostra cultura e l’agenda politica di tutte le forze politiche con poche eccezioni.
Non è una novità sostenere che alla diminuzione delle risorse destinate alla spesa sociale aumentano quelle relative a quella sanitaria e quella penitenziaria.
La novità è costituita dal fatto che anche in questi settori, almeno in Italia, le risorse si stanno assottigliando a vista d’occhio e stanno subendo tagli sempre più evidenti e, di questo passo, anche’essi denunceranno una scarsa tenuta di fronte all’impatto che devono reggere.
Questa, in termini kuhniani, potrebbe essere definita una delle anomalie che si sono incistate nel paradigma sociale punitivo e carcerario vigente.
Ma è opportuno sottolinearne un’altra, più subdola, ma non per questo meno importante, ovvero lo snaturamento del penitenziario che dal modello della detenzione penale, connessa al paradigma trattamentale si è, via via, traslato in quello della detenzione sociale .
Dalla detenzione penale alla detenzione sociale
Certamente l’attuale consistenza numerica della popolazione detenuta è un dato macroscopicamente preoccupante. L’Italia registra un alto tasso di sovraffollamento e, ad oggi, le presenze che, nei mesi scorsi, sono arrivate a superare quota 69.000, si sono attestate alla fine del mese di aprile, a quota 67.510, anche grazie alla legge 26 novembre 2010 n. 199, cosiddetta svuota carceri varata proprio per deflazionare le presenze all’interno degli istituti di pena.
In ogni modo anche queste presenze rappresentano diverse migliaia di unità in più del totale dei presenti il giorno prima dell’indulto del 2006. La congestione del sistema ha determinato il governo italiano a varare un piano straordinario per la realizzazione di nuovi posti letto mentre, per contro, la minoranza parlamentare chiede misure diverse anche se, per la verità, poche sono le sponde politiche che parlano espressamente di provvedimenti indulgenziali.
Ma non è tanto sulle attuali condizioni “fisiche” della carcerazione in Italia che si intende argomentare quanto, piuttosto, proporre una riflessione più profonda che va al cuore del senso stesso della pena detentiva odierna.
Il carcere del ’75 aveva una composizione umana molto più omogenea di quello attuale e la riforma penitenziaria si attagliava a questo tipo di popolazione. Negli anni successivi quest’ultima si è progressivamente segmentata grazie all’ingresso di persone diverse dal solito milieu che, sino a quel momento, aveva caratterizzato il sistema penitenziario italiano, ad iniziare dai tossicodipendenti. Dagli anni ’80 in poi una significativa fetta della popolazione detenuta è costituita da persone con problemi di dipendenza da sostanze psicotrope per le quali il Testo Unico 309/90 ha introdotto misure alternative al carcere e modalità detentive differenziate .
Se il loro numero pare non aumentare, tuttavia molte di queste persone si sono via via bruciate le opportunità terapeutiche alternative alla detenzione e la loro propensione a recidivare impedisce l’accesso ad altre analoghe misure. Il resto della storia è nota. La necessità di contrapporsi al terrorismo prima, e alla criminalità organizzata poi, hanno successivamente indotto modifiche normative che hanno modificato l’ordinamento penitenziario e determinato suddivisioni dei detenuti, diversamente classificati in ragione del loro presunto livello di pericolosità. Fu proprio dall’area della massima sicurezza, in particolare da quello che espresse la propria dissociazione dalla lotta armata, che scaturì il tessuto sul quale prese le mosse la riforma dell’86 con il suo generale ampliamento dell’accesso alle misure alternative dal carcere . Si realizzò in questo modo la massima espressione attuativa del mandato costituzionale. L’Amministrazione penitenziaria non era ancora compiutamente riformata per affrontare tale compito, lo sarà solo dopo il ’90, ma furono quelli gli anni di punta per la sperimentazione di percorsi e progetti trattamentali. Con gli anni ’90 si inaugurò una nuova stagione caratterizzata dall’emergenza determinata dalla lotta contro la criminalità organizzata che frammentò ulteriormente l’insieme della popolazione detenuta, sia creando separazioni fisiche all’interno degli istituti, sia escludendo dalle misure alternative i detenuti rientranti nell’elencazione prevista dall’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario. Successivamente videro la luce una serie di provvedimenti normativi che intendevano affrontare il fenomeno crescente dell’immigrazione dal sud e dall’est del mondo. Da quel momento il numero di stranieri negli istituti penali ha iniziato ad aumentare costantemente. Se prima il numero di detenuti non italiani si era mantenuto mediamente sotto il 10% del totale degli ingressi , oggi rappresenta il 37.15% con situazioni di maggior concentrazione nei grandi istituti metropolitani con punte che De Vito stima anche del 70% del totale. La grande maggioranza di questi risulta clandestino ed illegittimamente sul territorio nazionale. Uno studio interno dell’Amministrazione penitenziaria ha recentemente evidenziato anche un altro fenomeno, foriero di importanti conseguenze, ovvero il fatto che una larga fetta delle attuali presenze permangono per pochi giorni e settimane. Così, ad esempio, nel corso del 2007 delle 94.237 persone che hanno fatto ingresso ben 69.826 sono state scarcerate entro i dodici mesi successivi. Tra queste, 35.009 hanno lasciato l’istituto entro undici giorni e addirittura si rileva un cospicuo numero di carcerazioni definite brevissime. E’ dato disponibile quello riguardante il fatto che, ad esempio, nello stesso periodo, sull’intero territorio nazionale circa 29.000 persone, pari al 32% del totale degli ingressi, sono state rimesse in libertà entro i tre giorni successivi. Il nostro sistema produce il carcere per molti ma per poco tempo. L’ingresso in carcere di una massa di persone appartenenti alle categorie testé citate, in misura ormai prevalente sul totale dei presenti, determina conseguenze strutturali importanti e questo costituisce il punto focale di qualunque ragionamento sulla pena e sul carcere che si voglia dare un respiro prospettico. Una quota vicina ai due terzi della popolazione detenuta italiana non possiede più le caratteristiche utili per poter ragionevolmente presentare istanza per fruire di una qualsivoglia misura alternativa o modificativa della pena detentiva e ottenerne una valutazione favorevole. Sicuramente la conduzione in carcere di questa larga fetta di persone ingolfa il sistema penitenziario senza avere, per altro verso, poter attivare alcuna attività trattamentale socialmente. L’ingresso in massa di persone che, di fatto e di diritto, non possono fruire delle opportunità per sperimentare un percorso trattamentale alternativo alla detenzione, costituisce un grave impedimento all’esercizio pieno del mandato istituzionale che la Costituzione e l’Ordinamento penitenziario demandano all’Amministrazione Penitenziaria. Il carcere continua ad essere frammentato in varie differenziazioni e l’abito arlecchino che veste vede la sostituzione di sempre un maggior numero di pezze colorate con altre scure ed opache. Potremmo giungere ad affermare che esistono ormai misure alternative d’autore, mutuando concetti dottrinari penalistici, per far riferimento al fatto che le caratteristiche personali dei condannati fanno la differenza non solo nelle valutazioni degli operatori penitenziari e successivamente in quelle della magistratura di sorveglianza ma, soprattutto, per generare a priori un processo selettivo decisamente centrato su logiche di autotutela istituzionale ed affidabilità che fa sì che le persone meno dotate non riescano a fruire delle misure alternative perché escluse o limitate in partenza. In tal senso sono da interpretare criticamente i dati di Leonardi che vengono spesso citati per provare l’inefficacia del carcere nell’attività di reinserimento rispetto, a contrario, dell’efficacia delle misure alternative. I dati in questione ci dicono che il 68.45% delle persone che hanno espiato la loro pena in un carcere, e ne sono state scarcerate senza fruire di una misura alternativa, ne hanno poi fatto rientro. Per contro si registra una percentuale pari al 19% di recidivi tra coloro i quali hanno, viceversa, fruito della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. E’ d’obbligo riconoscere che la ricerca in questione è rigorosa nello svolgimento ma, a mio parere, pecca nella logica deterministica impiegata nelle conclusioni laddove si giunge ad affermare che “dal confronto con la recidiva dei detenuti sembra che la finalità di reinserimento sia raggiunta in misura maggiore quando l’esecuzione della pena avviene all’esterno del carcere, come a confermare che la prisonizzazione, intesa quale adattamento al mondo informale penitenziario, comporta minori possibilità di risocializzazione”. Vi è, in questa considerazione finale, l’idea di un carcere infettivo e totale, che soverchia e determina le volontà delle persone ad esso soggetto attraverso il processo adattivo dell’uomo all’istituzione e alla cultura che vi viene praticata. E’ il carcere leviatano, tanto caro alle punte più critiche del sistema carcerario nel suo complesso, che parlano di un carcere carcerogeno non tenendo sufficientemente conto che sono le leggi ad essere carcerogene laddove prevedono esclusivamente la risposta detentiva e cancellano la possibilità di un’alternativa esterna. In questo modo si rischia di perdere completamente di vista l’influenza delle caratteristiche di base delle persone. Lo stesso Autore ha dovuto precisare che il fatto che non fossero disponibili i dati relativi alle condizioni soggettive, sia personali che sociali, che indubbiamente possono influire sul comportamento criminale delle persone, ha determinato una analisi meramente descrittiva del fenomeno. In queste condizioni si compie un salto logico di non poco conto. Da un lato si soggettivizza l’istituzione penitenziaria, imputandogli capacità modificative e permanenti sulle persone ad essa soggette e, contestualmente, si oggettivizzano i suoi occupanti spogliandoli delle loro caratteristiche umane in termini di potenzialità e volontà, intendendoli quindi in modo indistinto, e deresponsabilizzandoli nelle scelte e nei comportamenti. Tuttavia neppure questo approccio riesce ad affermare che le caratteristiche di base della persona siano ininfluenti nei comportamenti. Basti citare il fatto che gli affidati ordinari risultino essere meno recidivi di quelli particolari nella misura del 21% dalla detenzione e per il 16% dalla libertà. L’onestà dell’Autore è indubbia perché riconosce che “è bene ricordare che le persone ammesse alle misure alternative sono selezionate con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati” . Tra l’altro la presunta carcerogeneità del carcere non regge ad un altro recente dato spesso citato quale elemento validante dell’opzione della decarcerizzazione, per quanto puntiforme ed estemporaneo, finalizzato alla mera decompressione del sistema penitenziario più che ad una politica di più ampio respiro. Ci si riferisce alla legge 31 luglio 2006 con la quale è stato concesso il provvedimento d’indulto per tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006, che ha scatenato, successivamente, grandi polemiche politiche sulla base di timori, più o meno indotti, nell’opinione pubblica, circa l’aumento della criminalità a seguito della scarcerazione in massa di oltre 27.000 detenuti. Da questi timori e dalle conseguenti polemiche è nato l’interesse a monitorare l’andamento della recidiva degli indultati che, alla luce delle ricerche condotte da Torrente , è risultata essere del 26.97% fra gli ex detenuti e del 18.57% tra quelli che erano in misura alternativa al momento dell’indulto. Al di là del fatto che non pare che tale provvedimento possa giustificare le paure dell’opinione pubblica, è evidente a tutti che lo stesso si è limitato a produrre la scarcerazione di migliaia di persone senza una particolare progettualità che non fosse rientrare nel proprio contesto di provenienza. Ciò nonostante il tasso di recidiva è nettamente inferiore alla media calcolata da Leonardi. Torrente si pone il problema di capire quali variabili possono aver contribuito a determinare tale andamento ma è costretto, come Leonardi, a desistere dall’approfondimento a causa della scarsa qualità dei dati a disposizione, tentando tuttavia alcuni riflessioni con quelli macroscopici a disposizione. In tal senso il non essere alla prima carcerazione e avere, proporzionalmente, un maggior numero di detenzioni pregresse, un più basso livello di scolarizzazione, una condizione occupazionale assente e di straniero, paiono essere, seppur con un certo grado di approssimazione, elementi significativi tra coloro i quali hanno fatto reingresso in carcere. Queste ultime riflessioni rinforzano la nostra convinzione che sia il processo selettivo intracarcerario a determinare la possibilità di praticare percorsi trattamentali diversi e che il loro successo sia fortemente connesso alla dotazione umana e sociale delle singole persone. Tuttavia non esistono percorsi per tutti, nel senso che non solo le risorse sono limitate ma, come abbiamo visto, per alcune categorie l’attuale sistema non è più attrezzato per fornire risposte, se non adeguate quantomeno plausibili, in ragione di scelte politiche e legislative che impediscono che il carcere tenti quello che gli è stato demandato dalla Carta Costituzionale. Vale ancora oggi quello che De Vito ha detto con riferimento al carcere degli anni ’50 che è stato descritto come un sistema che “proprio perché popolato da quegli individui socialmente “invisibili” era radicalmente rimosso dal dibattito pubblico e finiva per rispecchiare in maniera amplificata l’incapacità della classe politica di dare vita ad un progetto politico coerentemente riformatore”. Al carcere di oggi vengono demandati compiti di contenimento di fenomeni socio politici molto più ampi che non gli competerebbero, quali l’immigrazione e la gestione delle tossicodipendenze, e che meriterebbero ben diverse attenzioni e strumenti. Rispetto a queste nuove funzioni, lontane da quelle originarie, questo carcere si trova in grandi difficoltà a causa della transitorietà, della numerosità, delle caratteristiche delle persone che vi vengono condotte, non per intraprendere un percorso di reinserimento ma per scopi che hanno più a che vedere con la mera loro incapacitazione e neutralizzazione. Il carcere di oggi è un carcere sempre più senz’anima e mandato e questo ha effetti importanti per chi ci lavora e vi opera soprattutto se si coniuga il processo involutivo del mandato istituzionale descritto con l’evoluzione organizzativa dell’Amministrazione penitenziaria.
L’anomia del sistema penitenziario e le derive professionali
L’evoluzione organizzativa dell’Amministrazione penitenziaria ha generato un ampio numero di articolazioni organizzative e una maggiore complessità che, secondo De Vito , ha posto fine a quello che ha definito il modello familiare che aveva caratterizzato il sistema penitenziario ante la riforma del 1990. Ad una impostazione organizzativa semplice e paternalistica si è sostituito un processo di burocratizzazione che ha inciso profondamente nell’assetto organizzativo del sistema penitenziario determinando il rafforzamento delle strutture gerarchiche e corporative del personale e una progressiva frammentazione di interessi e visioni nell’ambito di quest’ultimo, a tutti i livelli, ordine, grado e funzione. Nell’ambito di questo quadro organizzativo vanno inseriti alcuni elementi precipitanti. Abbiamo accennato allo snaturamento della funzione penitenziaria che, di conseguenza, si riverbera sul senso che gli operatori penitenziari cercano di dare alle proprie pratiche quotidiane. Non trovare ragione nel proprio lavoro è una delle peggiori condizioni di alienazione rispetto ad una sfera fondamentale per i propri meccanismi di gratificazione e di identità, al punto che la loro frustrazione, a lungo andare, fa perdere di vista gli obiettivi istituzionali, così ridotti alla vacuità e generanti profonde frustrazioni, per frammentarsi alla ricerca di condizioni migliori dal punto di vista individuale o di categoria. Il fatto poi che la parte addetta alla sicurezza, tra l’altro maggioritaria, abbia un trattamento economico e giuridico migliore, induce elementi di frustrazione nella restante parte del personale, appartenente ai ruoli amministrativi ed educativi, e stimola la ricerca, da parte di questi ultimi, di riforme contrattuali finalizzate all’allineamento con i primi. Da un lato alcuni tentano un’assimilazione contrattuale alla polizia penitenziaria. Con la legge 27 luglio, n. 154 la categoria dei direttori è riuscita ad ottenere ope legis l’inquadramento nella dirigenza pubblica. Anche tra gli altri ruoli, educativi ed amministrativi, serpeggiano, in particolare nell’ultimo periodo, istanze, per ora minoritarie, che chiedono l’accesso negli organici della polizia penitenziaria e la configurazione di ruoli tecnici della stessa. Su questo punto il Coordinamento nazionale penitenziari della C.g.i.l. - Funzione Pubblica ha sottolineato che la politica della diversificazione ha favorito conflittualità e malessere tra le diverse professionalità. Secondo questa componente sindacale, percorrere la via dell’assimilazione, per quanto allettante possa essere e generativo di indubbie forti aspettative, è una pericolosa china involutiva dal punto di vista culturale ma anche una scelta snaturante il mandato costituzionale di tutto il sistema dell’esecuzione penale. La componente sanitaria, da parte sua, è ormai transitata alle dipendenze del Servizio Sanitario Nazionale così come gli psicologi incardinati nei ruoli dell’Amministrazione penitenziaria, ma non così gli esperti ex art. 80 dell’ordinamento penitenziario, che pure svolgono analoghe funzioni e che tanto si sono battuti per poter passare nei ruoli del servizio sanitario nazionale, con l’argomentazione, in parte opinabile, che la loro attività fosse di natura sanitaria, trasformando anche la funzione osservativa effettuata per conto di una amministrazione in un approccio terapeutico in favore del detenuto. Tutte queste considerazioni evidenziano tendenze centrifughe, rispetto al disegno originario previsto dallo stesso ordinamento penitenziario, fondate sia su motivazioni economiche e di trattamento giuridico che da sull’autonoma ridefinizione dei compiti e delle funzioni che si ritiene, categoria per categoria, di dover o poter svolgere. Tali pulsioni hanno favorito derive che rendono difficile il coordinamento dell’azione amministrativa e la realizzazione dell’ideale penitenziario fissato nel ’75. Lo stesso ex Direttore Generale del Personale, Massimo De Pascalis, ha ammesso che il sistema penitenziario italiano risente grandemente delle questioni attinenti alla gestione del suo personale, al punto che il servizio istituzionale registra quello che viene definito un obnubilamento . Sempre secondo De Pascalis le nuove condizioni detentive, segnate dal sovraffollamento, dalla mutazione strutturale delle caratteristiche della popolazione detenuta e, più in generale, dal diverso approccio politico e sociale verso l’esecuzione penale ha indebolito l’autostima professionale che, a sua volta, ha generato una corrispondente perdita di efficienza dell’intero sistema penitenziario. Oggi il tema in agenda non è più, o quantomeno non è più principalmente, la contrapposizione, particolarmente sentita sino all’inizio degli anni ’90, tra diverse idealizzazioni della detenzione, dei suoi fini e dei metodi da impiegare per realizzarli, bensì il tentativo di rendere compatibili i diritti e le aspettative del personale con le esigenze organizzative e dei detenuti . Ogniqualvolta si tratta di modificare il regime detentivo mobilitando risorse umane, il vaglio riguarda sempre meno il modello d’intervento e le finalità che questo si propone e sempre più i carichi di lavoro connessi, i livelli di responsabilità, la perdita di posizioni di rendita e il cambiamento delle prassi e, laddove tale confronto non è adeguatamente gestito, il processo è destinato a bloccarsi o a limitare la sua portata. Il sistema penitenziario non sfugge alla dinamica della traslazione dell’onere sul terzo soggetto all’organizzazione stessa, fenomeno ben descritto da Friedberg secondo cui gli aggiustamenti cooperativi e i giochi tra i componenti dell’organizzazione che sono alla base dello scambio politico interno, dipendono anche dalla facilità con cui le parti in causa possono trasferirne i costi su terzi esterni ai loro scambi. Nel nostro caso i terzi non sono solo le persone detenute ma anche tutte le altre figure che chiedono, dipendono, collaborano e fanno riferimento all’istituzione penitenziaria; dai famigliari dei detenuti, agli avvocati, dai fornitori ai magistrati, dagli operatori e professionisti convenzionati ai servizi pubblici esterni. Il soddisfacimento delle esigenze e degli interessi di questi stakeholder dipende dall’atteggiamento e dal comportamento dei singoli componenti dell’istituzione e dalla loro percezione di onerosità e sacrificio a scapito di una qualche propria posizione legittima o anche solo di rendita. L’incrocio tra la modificazione e la frammentazione della popolazione detenuta, la diminuzione di alternatività al carcere e dal carcere, l’anomia e le derive professionali, costituisce, a mio modo di vedere, il nucleo essenziale della questione penitenziaria attuale e pone sul tavolo del confronto questioni ben più complesse del già pur difficile sforzo teso all’aumento dei posti letto a disposizione, richiedendo viceversa provvedimenti normativi e organizzativi di più ampio respiro che presuppongono, tuttavia, riferimenti e visioni oggi difficili da affermare e perseguire. Come abbiamo già accennato possiamo assumere che queste criticità siano il diretto effetto dei modelli sociali, economici e politici esterni e, soprattutto, della tendenza a dislocare altrove i risultati dell’incapacità di tali quadri di riferimento nel far fronte a fenomeni diffusi e, per certi versi, epocali. Come reagisce l’ambito penitenziario? In modo molto variegato e per nulla uniforme, al punto che qualche Autore ha parlato esplicitamente di relativismo penitenziario per dare conto di un insieme di situazioni tra loro molto diverse e comprese tra un certo grado di efficiente applicazione dello spirito riformatore e una tendenza all’immobilismo burocratico. Gli Autori citati, per certi versi non a torto, classificano questo spettro di azioni come un deprecabile fenomeno del sistema penitenziario, sintomo di un’arbitraria, frammentata e particolaristica gestione che genera inique differenze di trattamento nei vari istituti penali che lo compongono. Quel relativismo, in realtà, è il segno evidente che le parti che compongono ogni istituto penitenziario hanno giocato diversamente le loro partite ottenendone risultati diversi in ragione di atteggiamenti e comportamenti variamente composti ed orientati. Neppure l’iperegolamentazione può cambiare questo stato di cose anzi, per certi versi, una scelta di tal genere può addirittura peggiorare la situazione. È fatto assodato che l’ipertrofia regolamentare non porta miglioramenti nel contesto detentivo e, in particolare, non garantisce una maggiore fruibilità dei diritti da parte dei detenuti, semmai, alimenta una maggiore attenzione al formalismo da parte dell’amministrazione che è chiamata ad applicare quelle norme. Il fatto che ogni norma, in realtà, non riesca a coprire tutte le fattispecie concretamente possibili e che la struttura semantica e sintattica delle stesse norme lascia spazi ad interpretazioni spesso molto diverse, complica ulteriormente le cose. Il risultato può essere una cavillosa, a volte bizantina, applicazione finalizzata più alla dimostrazione dell’ottemperanza che al risultato finale. Peraltro che il mondo penitenziario sia ormai saturo di norme al punto che sia diventato impossibile conoscerle tutte per gli stessi operatori è ormai un dato riconosciuto dalla stessa letteratura specializzata . Sarzotti è uno degli Autori che ritengono che, nonostante le modalità dell’esecuzione della pena siano state oggetto di una regolamentazione statalistica sempre più dettagliata, il tentativo di sottrarre l’esecuzione della pena alla dinamica, che lui definisce privata, tra custodi e custoditi, non può dirsi ancora pienamente riuscito. Tale dinamica si sostanzierebbe nella continua negoziazione tra le parti degli spazi e delle opportunità che genera, utilizzando le parole dell’Autore, un “sistema localistico di gestione dei conflitti materiali e delle relazioni informali”. Tale sistema sarebbe espressione di quell’ambito che Carbonnier definisce l’infra-diritto delle pratiche detentive, ovvero “l’insieme delle relazioni sociali sottese ai rapporti giuridici che, nel caso dell’ambito penitenziario, ricomprendono tutte le relazioni formali ed informali, che hanno a che fare con messaggi di tipo giuridico, che si generano tra i detenuti, gli operatori penitenziari e i soggetti esterni al carcere”. È in questo contesto che si colloca il percorso che può consentire una proficua azione riformatrice all’interno di un settore così critico quale quello penitenziario che, a nostro parere, non può che fondarsi sulla ricomposizione di tutti gli interessi in gioco. Prima di approfondire questo aspetto, tuttavia, vorrei sottolineare che il carcere, proprio in ragione della sua crisi, può diventare un luogo istituzionale molto interessante perché, seppur con il clangore della sua imperfezione si deve fare tutti i giorni i conti con questioni che in nuce sono esattamente frutto ed espressione del fallimento esterno. Proprio perché i problemi socio – economici e politici non risolti vengono de localizzati all’interno di quelle mura il carcere è costretto ad affrontarli quotidianamente al proprio interno. E’ infatti nel fallimento e nell’inefficacia delle istituzioni che si coglie più evidentemente la difficoltà di far rientrare la capacità di comprensione e di sociale e politica di un’epoca in un modello che dovrebbe trovare, proprio in quelle istituzioni, organizzazione e concretizzazione. La maggiore densità dei problemi li evidenzia con maggiore risalto e ne consente una migliore definizione. Il carcere diventa così un luogo privilegiato anche perché, a fronte dell’urgente e quotidiana necessità di affrontare i suddetti problemi, costringe tutti gli appartenenti alla sua comunità a ricercare nuove modalità di sopravvivenza che, in debito rapporto, potrebbero essere adottate all’esterno. Il carcere, paradossalmente, può diventare un laboratorio di idee e di esperimenti sociali che possono contribuire alla definizione di un nuovo paradigma non solo penitenziario ma, addirittura, sociale.
La ricomposizione degli interessi
Gli interessi e il potere, che ognuna delle componenti dell’organizzazione, nessuna esclusa, penitenziaria esprime, hanno un peso nel processo decisionale e quindi nelle scelte e negli effetti concreti che queste hanno sul tipo e sulla qualità di pena che quell’insieme organizzativo esprime. E’ ancora Sarzotti che ci fornisce gli elementi teorici per articolare il ragionamento . Egli propone una classificazione dei messaggi normativi di tipo giuridico regolanti l’ambito penitenziario. Tralasciando il percorso teorico svolto dall’Autore mi limito a riportare il dualismo che ne costituisce il punto di arrivo. Secondo Sarzotti la scienza giuridica concorda che gli attuali ordinamenti, a seguito del processo di costituzionalizzazione del diritto moderno, non si compongano solo di norme o regole ma anche di un altro tipo di messaggi normativi denominati principi. Riprendendo la definizione di Alexy , Sarzotti afferma che le regole “sono norme che nel costruire una fattispecie predispongono una conseguenza giuridica definitiva, e cioè nel costruire determinati presupposti ordinano, vietano o permettono qualcosa”. I principi, viceversa, sarebbero “precetti di ottimizzazione” ovvero “prescrivono che qualcosa deve essere realizzato nella misura più ampia possibile compatibilmente con le possibilità giuridiche e di fatto”. Ispirandosi a Zagrebelsky , Sarzotti conclude sostenendo che le regole si differenziano dai principi in quanto esprimono dei precetti precisi sul tipo di comportamento da adottare rispetto a determinate e specifiche situazioni previste dalle norme stesse mentre, per converso, i principi ci mettono a disposizione dei criteri per prendere posizione a fronte di situazioni a priori indeterminate laddove queste vengano a concretizzarsi. Riportiamo ora questa dicotomia al contesto penitenziario per verificare quale delle due opzioni risulti più efficace. Il modello razionale, rappresentato dalle vecchie burocrazie meccaniche era fondato su norme e procedure stringenti. L’evoluzione organizzativa e la riflessione teorica che l’ha accompagnata hanno dimostrato che quel modo di procedere e i suoi rigidi strumenti non funzionano in casi di imprevisti operativi e turbolenze . Lippi e Morisi , ad esempio, hanno evidenziato l’inefficienza e l’inefficacia di quel modo di procedere allorquando i compiti da affrontare assumono la connotazione gestionale di un servizio. Tanto più, aggiungiamo noi, se il servizio è quello penitenziario deputato, contemporaneamente, alla gestione amministrativa di una pena, alla cura delle persone ad esso affidate e alla progettazione di un percorso sociale di reinserimento. Il grado di imprevedibilità e turbolenza che un siffatto servizio vive e deve affrontare è sufficientemente chiaro a tutti e quindi, a fronte di questa che riteniamo essere una evidenza inoppugnabile, la maggiore utilità di un quadro di riferimento di principi piuttosto che di regole per orientarsi nella quotidianità operativa e nei percorsi negoziali correlati, per i motivi più sopra riportati, dovrebbe essere altrettanto palese. Per altro verso vogliamo ricordare che un altro dualismo efficacemente sintetizzato da Friedberg in uno dei suoi lavori. Egli, trattando del fare organizzativo, ha messo in parallelo il potere e la regola elaborando una visione dell’organizzazione che la equipara ad una vera e propria microsocietà irrimediabilmente legata alle interazioni e ai processi di scambio tra i membri che la compongono, ognuno dei quali si orienta per il tramite della propria razionalità. La convergenza dei vari punti di vista, e delle diverse razionalità che ne stanno alla base, non è un fatto spontaneo ma il risultato di scambi e confronti che rispondono a singole strategie di potere e di negoziazione politica che non può vedere l’ autoesclusione di nessuno. In un contesto organizzativo di questo genere le regole sono solo uno degli elementi negoziali da agire nei vari sistemi di attori e nei loro costrutti di gioco. Alle regole vanno aggiunti molti altri elementi quali le caratteristiche tecniche, economiche, strutturali dei problemi da risolvere e i flussi di dati e di informazioni a disposizione. Tra l’altro la regolazione formale, composta da una elaborazione di regole rigide e stringenti offre smagliature incolmabili e, grazie a queste ultime, paradossalmente, apre spazi inaspettati alle pratiche informali che cerca di limitare ed annullare. In tal senso è proprio la regola che alimenta i giochi politici creando situazioni di incertezza e di squilibrio che generano aggregazioni di potere informale. Ma dobbiamo terminare la riflessione sul parallelismo tra i dualismi citati, regola-principio afferente al mondo giuridico e regola-potere afferente al mondo organizzativo. Pensiamo che tra i due assi prospettati, rispetto alla concreta organizzazione penitenziaria, in termini di utilità pratica, funzionalità, efficacia ed efficienza, prevalgano il principio giuridico e il potere infraorganizzativo rispetto alla somma delle regole giuridico – organizzative nel senso che quest’ultimo insieme costituisce il presupposto del primo ma la possibilità di realizzazione dei principi costituzionali e legislativi del penitenziario passano attraverso l’intimo fraseggio proprio del suddetto primo insieme. Tutto ciò, a maggior ragione, in un contesto in cui le carenze di risorse di varia natura fanno si che l’Amministrazione spesso si veda in affanno rispetto ai propri obblighi. Questa fragilità la espone ogniqualvolta gli altri attori penitenziari richiedono il rispetto delle regole a loro favore, costringendola a compromessi che limitano la possibilità di chiedere, a sua volta, il corrispondente rispetto dei doveri degli altri. È lo stesso Sarzotti a confortare questa visione laddove, trattando delle funzioni normative del direttore dell’istituto, riconosce la sua centralità e la funzione di snodo tra il livello dei principi e quello delle regole. Ma è una centralità relativa in quanto necessariamente negoziata, pena il possibile disconoscimento e la disubbidienza dei suoi ordini, se non addirittura di incremento della conflittualità all’interno del sistema se non riconosciuti dai riceventi in termini di interessi e valori. Per Sarzotti, e noi concordiamo pienamente, “il direttore dovrà farsi interprete (del) contesto ed elaborare un messaggio normativo che possieda un elevato grado di adeguamento alla situazione particolare e che, quindi, venga percepito dal ricevente quanto più possibile come un messaggio accettabile in quanto vicino ai propri interessi e valori”. Si configura, in tal modo, una sorta di sussidiarietà penitenziaria che traduce i principi in atti di concreto dettaglio attraverso un processo di negoziazione con gli attori che compongono il sistema carcerario. L’Autore relativizza il livello di negoziabilità affermando che il direttore “non potrà sfuggire a qualche tipo di messaggio normativo “partecipato” e “specificatamente situato”. In realtà la quotidianità ci porta a dire che più che a qualche tipo di messaggio si dovrebbe far riferimento a quasi tutti i messaggi normativi di dettaglio prodotti, nel senso che o attraverso i processi formali e palesi di coinvolgimento o a quelli informali ed indiretti, le disposizioni regolative tengono necessariamente conto dei riceventi. In ogni modo, il solo riconoscere che il direttore deve negoziare le sue disposizioni in ragione delle esigenze di un contesto significa ammettere che, nel processo regolativo e organizzativo, il direttore deve tener conto da un lato dei principi e dall’altro degli interessi ma anche del potere che i riceventi possono mettere in campo come elemento facilitatore o dissuasore delle volontà del vertice, anche quando queste sono espressione diretta ed esclusiva di una norma. Questo processo, posto in essere dal vertice organizzativo, può essere assimilato ad un vero e proprio processo creativo che tiene conto dei riferimenti generali ma sceglie, combina, media, indirizza, convince, contrasta, le spinte e le controspinte provenienti dall’interno e, a volte, anche dall’esterno del sistema che governa. Nell’introdurre l’elemento della creatività occorre, tuttavia, chiarire che questo non deve essere confuso con l’arbitraria discrezionalità. E’ stato infatti fatto notare che “il criterio dell’originalità, presente in ogni attività creativa, non è un criterio sufficiente, se è disgiunto da una legalità generale che consente all’attività creativa di essere riconosciuta da altri individui. L’accadere della creatività secondo regole è ciò che la distingue dall’arbitrarietà ”. Torna il riferimento ai principi normativi che devono essere rispettati pena il fallimento di ogni tentativo maldestro di imporre azioni organizzative non condivise o riconosciute da coloro i quali ne sono destinatari. Ma se le regole e i principi si intrecciano con la negoziazione tra i rapporti di potere tra le varie parti e la creatività, nel rispetto di una sussidiarietà organizzativa legata a condizioni particolari di contesto, allora si deve riconoscere, senza preconcetti, che i risultati potranno essere diversi da istituto ad istituto e da momento a momento e che questo fatto è naturale in tutte le organizzazioni, quella penitenziaria compresa, e senza che questo possa essere valutato come una specifica distorsione del sistema carcerario. Morgan, su tale aspetto, è stato molto netto affermando che “la scelta tra i diversi possibili corsi di azione dipende, generalmente, dai rapporti di potere esistenti tra gli attori interessati” . Se in una organizzazione nessuno può chiamarsi fuori, così come ci insegna Friedberg , è anche vero che Bonazzi ci ricorda che non si può parlare di carcere senza sentire il punto di vista dei detenuti, e De Vito li ricomprende, ovviamente, tra gli attori dell’organizzazione penitenziaria. Questo significa che tra le pieghe dell’interdipendenza forzosa degli attori serpeggia anche la sofferenza penale dei detenuti che il carcere amministra e che passa tra le relazioni umane e i giochi organizzativi delle varie cricche.
Interessi e giochi a somma superiore di zero
I giochi in questione sono finalizzati a spuntare il massimo del profitto in ragione dei diversi interessi delle varie parti e della volontà di tutelare le rendite di posizione eventualmente già godute da ognuna di esse. Introdotto il tema della sofferenza ed evidenziato il fatto che questa si intreccia instancabilmente nelle relazioni tra custodi e custoditi e all’interno di ognuna delle componenti di queste due macro categorie penitenziarie, ci viene spontaneo pensare che un carcere che soffre è un carcere che fa soffrire ma anche che un carcere che fa soffrire è un carcere destinato a soffrire a sua volta, in una terribile spirale senza fine di traslazione dei problemi approfondita, tra gli altri, da Strati . E il nostro carcere, in generale, è una istituzione che, come abbiamo visto, indubbiamente soffre. Questo genera un certo grado di frustrazione tra il personale al quale ognuno reagisce in modo diverso. Assenteismo, disinteresse, scarso coinvolgimento professionale, tentativi di allontanarsi dai compiti istituzionali per svolgerne altri ritenuti più gratificanti, sono solo alcune delle strategie possibili che possono contribuire, nel loro complesso, a rendere ancor più difficile il raggiungimento degli obiettivi istituzionali minimi. In generale Garland ha evidenziato che negli ultimi anni le agenzie statuali del controllo, e tra queste quelle carcerarie, hanno reagito alle critiche relative alla loro inadeguatezza con la ridefinizione dei propri obiettivi e la puntualizzazione dei loro limiti. Nel caso dei sistemi penitenziari si conferirebbe sempre più importanza alla funzione custodiale e neutralizzante a scapito di quella rieducativa. Se questo è vero è anche vero che non si può dimenticare che nel 1975, data di promulgazione dell’attuale ordinamento penitenziario italiano, dal mondo anglosassone, che già lo aveva implementato da qualche anno, giungevano già gli echi del fallimento dell’impianto rieducativo trattamentale che invece informava la riforma italiana . D’altra parte, le scelte organizzative che avrebbero dovuto parallelamente seguire la scelta del modello penitenziario sono giunte con grave ritardo e sono state comunque frutto di compromessi che non hanno aiutato lo sviluppo armonico del mandato istituzionale , che si è sempre trascinato tra alti e bassi. Questo ci porta a sostenere che le derive disgregative che caratterizzano l’attuale sistema penitenziario discendono non solo dalla già citata ridefinizione del mandato, occorsa dapprima in modo strisciante e negli ultimi anni in modo sempre più palese, ma anche da scelte di fondo incerte e frutto di mediazioni complesse e poco coraggiose effettuate già a partire dagli anni ’70 che, tra l’altro, hanno fatto sì che, caso più unico che raro in Occidente, il sistema penitenziario italiano, improntato formalmente ad un modello trattamentale e alternativo avanzato, veda dal punto di vista organizzativo un’Amministrazione per larga parte rappresentata da un Corpo di polizia affiancato da una esigua minoranza di operatori sociali , in barba alle direttive europee in materia . La dissonanza delle premesse e la ridefinizione strisciante del mandato originario, hanno fatto sì che l’evoluzione organizzativa ed operativa scontasse una serie di criticità. Ad esempio, i dati testimoniano un senso di transitorietà relativamente diffuso tra il personale afferente a tutti i profili professionali, per motivi diversi che possono variare dall’interesse a lasciare la sede di assegnazione per raggiungerne un’altra più vicina al paese d’origine, al fatto che il carcere può costituire un accesso al mondo del lavoro in attesa di un occupazione più ambita e remunerata. Sentirsi transitori in un luogo può voler significare, per gli stessi operatori, sentirsi tali anche nelle cose che si fanno tutti i giorni con un riflesso, in termini di prodotto, scadente e svalutante. Deboli e scarse sono le leve per un governo del personale che rinforzi le parti positive e limiti quelle negative. Anche a livello generale Astarita e coll. hanno rilevato l’effettiva carenza di strumenti di gestione, controllo ed incentivazione del personale con l’aggravante che ad esse è stata segnalata la frequente tutela dei “pessimi soggetti” e il mancato riconoscimento per chi invece svolge correttamente il proprio lavoro. L’incentivazione è ingessata da regole e prassi massificanti, più rivolte a livellare i riconoscimenti che a premiare i risultati ottenuti al fine di evitare le proteste di coloro i quali, più o meno strumentalmente, vedono, costantemente quanto a torto, nelle differenze il segno dell’abuso e del clientelismo. Si sacrifica, in questo modo, una delle poche possibilità di rinforzare il merito e questo può determinare il progressivo affievolimento dell’iniziativa, dell’entusiasmo e della buona volontà anche negli operatori migliori ed efficienti. Considerazioni analoghe possono essere svolte per la valutazione. Un’organizzazione che non riesce ad incentivare e valutare adeguatamente i propri componenti genera, almeno nella parte che si ritiene penalizzata, frustrazione e un diffuso senso di ingiustizia. Il rischio è che una parte di questo personale decida di limitare il proprio coinvolgimento riparametrandolo al livello di gratificazione che percepisce. Se questo è ritenuto basso o nullo sarà difficile contare su queste persone per ottenere i risultati che ci si aspetta a fronte di un atteggiamento e di strategie che saranno sempre più caratterizzate da un disinvestimento emotivo e dall’evitamento delle incombenze loro assegnate. Il tema della mancanza di gratificazione e della percezione negativa della giustizia interna al sistema non è cosa di poco conto se solo si pensa che Friedberg ha sottolineato che il risultato soddisfacente di una organizzazione dipende dalla congruenza tra le sue strutture e i suoi modi di funzionamento e lo stato di cura e sviluppo dei bisogni dei suoi addetti. La limitata partecipazione dei suoi addetti pone a rischio la stessa sopravvivenza dell’organizzazione se questa, come propone Bonazzi , viene vista come nulla più del risultato contingente della partecipazione umana. Ma quest’ultima si genera solamente se l’organizzazione riesce, a sua volta, ad incentivare adeguatamente i suoi membri e tra i rinforzi positivi si contemplano non solo quelli materiali del guadagno ma anche quelli morali, ideali e simbolici. Lo stesso Autore ci avverte che mutando i contributi muta l’efficacia nel raggiungere i fini stabiliti e talvolta i fini stessi in quanto vengono ridefiniti dai membri stessi dell’organizzazione. D’altra parte la stessa percezione esterna non aiuta in termini di gratificazione. Già qualche Autore ha avuto modo di affermare che nell’immaginario comune ogni cosa ruoti intorno al carcere è sentita di basso profilo culturale. Lo stesso lavoro degli operatori penitenziari è spesso vissuto come un opzione dequalificante e di ripiego nella vita delle persone che la praticano. Secondo un recentissimo studio il mondo penitenziario è per gli italiani una realtà largamente sconosciuta, e la sua percezione risulta essere approssimativa, contraddittoria, lacunosa, al punto che vi è addirittura incertezza sul riconoscimento delle stesse figure professionali operanti all’interno del sistema L’efficienza di questo sistema è valutata gravemente insufficiente e le finalità riabilitative proprie del suo mandato, per il 72% degli intervistati, sarebbero da considerarsi irrealizzate. La polizia penitenziaria, per parte sua, soffrirebbe di una insufficiente visibilità e sconterebbe, rispetto all’opinione pubblica, un debito di riconoscibilità e di immagine e godrebbe di una fiducia inferiore a quella degli altri corpi di pubblica sicurezza. È un quadro frutto di opinioni in larga parte mediate dalla tematizzazione tracciata dai mezzi di comunicazione di massa, a sua volta associata, in modo pressoché esclusivo, a episodi di cronaca a sfondo violento e drammatico come i suicidi, le aggressioni, le evasioni. Lo studio non fa che confermare le opinioni del personale che si raccolgono nel quotidiano e che, in sintesi, coniugano un senso di inferiorità rispetto ad altri corpi di polizia o amministrazioni dello Stato ad una percezione di inefficienza generale del sistema. Da questo stato di cose ci si difende, sostanzialmente, attraverso il forte corporativismo e la sindacalizzazione, e lo scatenarsi di derive centrifughe alla ricerca di Amministrazioni diverse da quella attuale, accusata di una incapacità manifesta nella gestione e nella tutela dei diritti delle proprie risorse umane. Tra l’altro tali richieste sono in assoluta controtendenza rispetto alle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa che, dalla fine degli anni ’80, ha imposto agli Stati membri di trasferire le proprie amministrazioni penitenziarie ai rispettivi Ministeri della Giustizia in modo da separare nettamente il servizio penitenziario da quelli di polizia . Tutto questo incide sulla stessa unitarietà dell’organizzazione che viene così ulteriormente posta in crisi. Il segno evidente di queste affermazioni è rappresentato dalle sempre più alte aspettative che vengono avanzate, in genere dirette ad allontanarsi dal centro della sofferenza penitenziaria, costituito dal detenuto con le sue difficoltà e le rispettive aspettative, oppure a trarre il maggior livello di riconoscimento economico e di posizione. L’esplicarsi di tutto questo può significare porre le premesse per un conflitto tra custodi e custoditi che si attivi non più su posizioni ideologiche, relative al modo di intendere ed interpretare la gestione penitenziaria e le finalità della pena, quanto piuttosto sul timore che uno spazio concesso ad una delle due parti possa costituire una proporzionale perdita di uno spazio dell’altra parte. C’è il serio rischio di innescare una serie di giochi a somma zero tra le parti che rigidamente si contrappongono con risultati autoelidenti. Sono tatticismi forse utili nel breve momento e rispetto agli interessi particolari, certamente non riescono a rimediare alla sofferenza del sistema e il loro corto respiro, quindi, non consente di mettersi al riparo in modo stabile dai disagi derivanti dal contesto organizzativo. Il tentativo di dislocare altrove responsabilità, da un lato, ed oneri, dall’altro, non fa che alimentare costantemente le spinte e le controspinte finalizzate a modificare le rendite di posizione acquisite da alcuni a dispetto delle posizioni penalizzate degli altri, in un moto perpetuo che non lascia pace a nessuno. In questo senso un carcere che soffre fa soffrire esponendosi, in tal modo, a nuove sofferenze. Per modificare questo stato di cose occorre, evidentemente, spezzarne la logica. La dinamica conflittuale, da cui si genera la spirale che abbiamo descritto, è espressione di energie che si contrappongono, ognuna delle quali è orientata da un particolare indirizzo. È questo il nocciolo della riflessione. Occorre, in altri termini, individuare la fonte di tali energie, ovvero i protagonisti, i loro particolari obiettivi, gli elementi organizzativi che apprezzano e quelli da cui tendono a sfuggire, in modo da tracciare una mappa di interessi positivi e negativi che consenta di incanalare tali energie secondo una vision più generale che alcune volte può fare riferimento ad una piccola particella organizzativa ed altre ad un insieme più allargato. Procedendo in questo modo le varie tattiche costituiscono gli elementi di una nuova strategia finalizzata alla riduzione della sofferenza complessiva dell’organizzazione e delle sue componenti. Uno dei primi passi compiuti presso l’istituto che dirigo, a Torino, è stato quello di riconoscere, sull’onda delle suggestioni di Bonazzi, che i detenuti non solo sono meritevoli dell’ascolto del loro punto di vista, ma anche del riconoscimento del fatto che costituiscono una risorsa importante per il buon andamento della stessa comunità penitenziaria. Riconoscere questo significa modificare profondamente il modo di vedere il carcere che tradizionalmente, invece, percepisce dei detenuti solamente il peso gestionale e la dimensione numerica. Non è un caso che anche nel dibattito attuale sul sistema penitenziario italiano, sia a destra che a sinistra, la quantità sia l’elemento su cui si concentra il focus di qualunque ragionamento o proposta. Per certi versi questo è assolutamente comprensibile ma nel contempo rischia di fuorviare qualunque tentativo finalizzato a migliorare la precaria condizione detentiva. La nostra esperienza evidenzia che appena si include il detenuto nel legame comunitario e lo si converte da oggetto a soggetto, da peso inerte e fonte di rischi a titolare di idee, competenze ed energie, si liberano forze ed opportunità utili per la stessa comunità, passando dalla negatività inerte della quantità alla positività del riconoscimento delle qualità. I detenuti sono una risorsa nel senso che le loro stesse caratteristiche personali possono diventare appetibili per la società esterna che viene attirata quindi dal carcere che li detiene, portando con se nuovi modi di vedere che svolgono una funzione di stimolo al cambiamento e di riqualificazione delle stesse attività penitenziarie. Ma la possibilità di impegno svolge anche altri effetti benefici per il sistema perché attiva un’azione calmierante dell’ozio e della tensione. Il coinvolgimento e la restituzione di una “umanità” al detenuto non è una novità. Ovunque si è tentata tale operazione ha dato i suoi frutti, anche in situazioni molto più complesse e degradate della nostra. Significativo, ad esempio, è quanto è avvenuto nel carcere di Nuova Delhi, Tihar, enorme nelle sue dimensioni fisiche, circa 200 acri, ed umane, 9.700 detenuti stipati in condizioni di profonda misera e degrado, ma dove nei primi anni ’90 si è iniziato a tener conto delle loro idee e proposte oltre che delle loro capacità e competenze per migliorare la struttura e la sua organizzazione . Tra le varie riflessioni e i passi intrapresi nel corso del lavoro quotidiano presso l’istituto di pena torinese, quello del riconoscimento dell’importanza della componente detenuta nell’ambito della comunità penitenziaria è stata solamente una e ad essa si sono aggiunte altre considerazioni e decisioni che sono andate verso un vero e proprio salto culturale. L’accesso, nelle sue varie forme e modalità, continuo e costante della società civile, sino a sfiorare la soglia delle celle; il dialogo con le persone ristrette ma anche il confronto con il personale hanno sicuramente stemperato le tensioni ma anche limitato,”fisicamente” le opportunità per una relazione conflittuale e violenta tra le parti interne. L’ingresso di opportunità di lavoro concrete, con le relative necessità indotte quali il rispetto degli orari, degli impegni, del risultato atteso, hanno “educato” il carcere, almeno quella parte più direttamente interessata, ad una nuova cultura del lavoro. Si sono dovuti affrontare problemi sino a quel momento neppure mai pensati e, nel farlo, si è proceduto con modalità molto diverse da quelle proprie della burocrazia pubblica. Tutto questo ha potenziato la legalità all’interno del carcere. Ciò ha permesso di approfondire molti aspetti della quotidianità che, seppur presenti, sfuggivano alla discussione e, soprattutto, creato le premesse per stimolare l’implementazione di iniziative pensate dal basso e, come tali, più sentite dagli attori di quel contesto. È aumentata, di conseguenza, la partecipazione, se non di tutti, di molti operatori. Questo ha, in alcuni casi, fatto emergere le contraddizioni e le carenze del sistema nel suo complesso ma, di per sé, ha assunto un valore positivo, considerata la tendenza istituzionale ad accettare supinamente alcune anomalie come inevitabili. L’aumento del confronto interpersonale e la comparazione degli interessi in campo hanno consentito la soluzione di alcuni di questi problemi. Il processo in questione ha consentito una maggiore efficacia delle soluzioni proporzionalmente al radicamento di queste nel suddetto confronto e al numero di interessi contemporaneamente soddisfatti e, allo stesso tempo, al riconoscimento degli sforzi intrapresi, delle soluzioni adottate e, da questo, all’aumento della gratificazione professionale. Si è, in altre parole, invertito una parte del processo decisionale, tentando di rivitalizzare la base dell’organizzazione, responsabilizzandola rispetto alle azioni ritenute necessarie per il miglioramento della vita professionale. Questo tentativo ha permesso alle parti di scambiarsi opinioni, saperi, timori, difficoltà rispetto al rapporto professionale e umano, idee e soluzioni, scoprendo nuove modalità di collaborazione. Se in alcune circostanze tale relazione non ha fatto grossi passi in avanti, in altre questo ha significato prendere coscienza che l’unione generava una ricchezza, spesso si è compreso che in un ambito carente di risorse materiali si può ovviare con la risorsa dell’ingegno personale e della reciproca collaborazione Tendenzialmente si può affermare che il percorso descritto si è interposto ad una serie di difficoltà organizzative che, sino a quel momento, avevano caratterizzato l’istituto, quali lo scarso reciproco riconoscimento tra i vari operatori, il basso livello di comunicazione interprofessionale, strategie decisionali verticistiche poco attente al coinvolgimento della base. Inutile dire che questo stato di cose generava un diffuso senso di frustrazione e di anomia. Il nuovo modello organizzativo ha generato una inversione nel modo di operare ma anche di percepire ed affrontare le questioni in campo. Il detenuto è stato quasi sempre al centro delle discussioni e, come abbiamo accennato, si è rivelato una tra le risorse possibili. È balenata l’idea, seppure non sempre così chiara e netta, che spesso le risorse non si presentano in modo palese ma che, a volte, occorre procedere ad un vero e proprio processo creativo che, ribaltando un modo di vedere standardizzato ed acritico, ridefinisce un problema in una opportunità. Come già accennato la quantità di persone incarcerata può essere vista come un pesante fardello o come un dato interessante per la ricchezza delle diversità umane che consente la possibilità di programmare nuove iniziative proprio a partire dalle competenze e dai bisogni di questi gruppi. Gli stessi spazi possono essere riconvertiti percettivamente in questo modo. In un istituto formato da cinque o sei sezioni non vi è la stessa possibilità di creare aree omogenee quanto quella di un istituto con oltre quaranta reparti, in ragione della necessità di riunire i detenuti che frequentano alcuni corsi scolastici o che sono impegnati in attività o progetti. Culture considerate povere e arretrate celano una ricchezza in termini di competenze desuete e per questo rare e ricercate nella nostra società, senza contare che dalla comunità detenuta possono arrivare richieste, opinioni, sollecitazioni utili al miglioramento delle condizioni complessive dell’istituzione carceraria che, indirettamente, significa migliorarle anche per le persone che in quell’istituzione vi lavorano. La cura della parte coatta quindi, secondo questo modo di interpretare le cose, diventa un interesse primario anche per la parte che la custodisce e la tratta. Se dovessimo estendere il principio alla società esterna sarebbe come dire che perdere i vinti significa perdere noi stessi. Una visione di questo genere è quella che ha consentito la realizzazione di una serie di iniziative interne che hanno liberato le energie delle componenti umane e professionali del sistema. Per fare questo si è dovuto superare e reintepretare alcune delle sue rigidità. In particolare si è dovuto uscire dalle secche dei giochi a somma zero legati alle logiche corporativistiche del tutti contro tutti in difesa delle rendite di posizione della propria parte. Quando si è riusciti a far comprendere che le stesse rendite potevano essere difese ancor meglio semplicemente modificando le vecchie prassi e introducendo innovazioni che, pur cambiando gli assetti, garantivano le posizioni e introducevano un guadagno ulteriore per tutti, si è assistito ad un proliferare di nuove ipotesi. La liberazione di idee ed energie ha generato un processo virtuoso che, mutuando un vecchio adagio, potremmo definire da cosa nasce cosa. Molte delle iniziative poste in essere hanno costituito la premessa per farne nascere altre, in un percorso che ha reso credibile l’istituto da tanti punti di vista. Questa credibilità ha attirato l’esterno per motivi diversi, dalla partecipazione sociale a quella finanziaria ed industriale, al punto che alcuni settori, da alcuni anni, sono gestiti direttamente da soggetti diversi da quelli che tradizionalmente ed istituzionalmente dovrebbero occuparsene. Questo ha dato spazio a quello che abbiamo definito l’insourcing penitenziario, processo non semplice dal punto di vista dei percorsi di inserimento e collaborazione tra le parti coinvolte, ma sicuramente molto educativo e stimolante rispetto al tema del cambiamento della cultura degli operatori di una Amministrazione pubblica ancora nel mezzo di un guado che, dai crismi della burocrazia meccanica, vuole indirizzarsi a quelli degli obiettivi perseguibili e dei risultati ottenuti. Quella dell’insourcing è una visione nettamente diversa da quella propria delle ipotesi che danno per auspicabile il trasferimento di una serie di funzioni e competenze dal penitenziario al livello del governo locale e regionale . Personalmente sono convinto che “importare” forze nuove all’interno del sistema lo arricchisca, lo educhi costringendolo a modificare il suo modo di ragionare e lo induca a cambiare il suo modo di agire. Ma il processo di inserimento di queste forze è un percorso molto delicato e abbisognevole di cure adeguate e puntuali in modo da amalgamare e rendere gestibile il sistema dopo l’innesto. Spesso si accusa il sistema penitenziario di essere un sistema chiuso ed impenetrabile. Probabilmente è più corretto dire che questo, come ogni sistema, pone delle condizioni alla sua intrusione in ragione, non tanto per motivi ideologici, quanto per gli effetti modificativi, percepiti o reali, che questo può determinare in una o più delle sue componenti. Tale tensione all’autodifesa, tuttavia, di questi tempi, è sempre più messa in crisi dalla necessità di attingere dall’esterno risorse, umane, specialistiche e progettuali, non presenti all’interno dello stesso sistema. Questa necessità, per essere soddisfatta, comporta il rispetto di una serie di esigenze che, viceversa, assumono l’aspetto di altrettanti ostacoli, a volte insormontabili. Il successo dell’inserimento e dell’accettazione parte dall’utilità che lo stesso determina per il sistema e per le sue componenti più immediatamente coinvolte. Tale utilità deve intendersi sia in termini negativi che positivi; in genere le prime precedono le seconde nel processo di cambiamento. Nel primo caso, infatti, si avrà una utilità in ragione dello sgravio di compiti od oneri che questa comporta. Carico di lavoro e responsabilità connesse sono tra quelle di immediato apprezzamento. Realizzare che la nuova modalità non comporta ulteriori rischi ma, addirittura, può risultare più conveniente, da questo punto di vista, è un elemento essenziale per la riuscita dei processi di modificazione e miglioramento delle prassi penitenziarie. Rientrano tra le utilità positive quelle legate al miglioramento delle condizioni di lavoro dei soggetti istituzionali coinvolti, sia a livello individuale che collettivo, e queste non possono che apprezzarsi con l’andar del tempo. Ambienti di lavoro migliori, procedure più efficaci, allentamento delle tensioni nella relazione umana, ma anche la visibilità e la valorizzazione delle proprie mansioni, il sentirsi centrale rispetto ad un processo di miglioramento, la gratificazione che ne deriva, soprattutto se ci sente al riparo dai rischi che tali innovazioni possono comportare, costituiscono ulteriori elementi che consolidano il processo. Da queste prime considerazioni si ricava in negativo il fatto che si riesce ad incardinare nuove forme di collaborazione e di professionalità se queste non sono di ostacolo o addirittura foriere di un aggravio delle condizioni precedenti. Le novità devono portare con sé un processo di semplificazione per poter essere effettivamente realizzate. Occorre, in altre parole, generare intorno al nuovo un consenso che passa attraverso gli elementi testé descritti. È un consenso che non si ottiene una volta per tutte. È una condizione che può e deve essere riverificata periodicamente e ogni qualvolta sia ritenuto necessario. Lo sviluppo delle nuove attività ridetermina equilibri che continuano a mutare nel tempo e questo comporta la modificazione dinamica degli interessi e dei poteri che li supportano. Il rischio è che le utilità che hanno consentito la fase iniziale si trasformino in disutilità e che questo metta in crisi il processo. Abbiamo detto della componente percettiva del proprio ruolo e della propria gratificazione. È sufficiente che questa non venga adeguatamente coltivata nel corso dell’azione perché ne consegua una negativizzazione con il conseguente ritiro di quella risorsa dal processo stesso. È quindi necessario una continua azione di monitoraggio e di coordinamento dei processi innovativi implementati. Lo stesso spirito dell’innovazione può modificarsi in ragione del fatto che gli obiettivi originali si modifichino o perché completamente raggiunti o perché non più attuali per una modificazione del contesto stesso. In un caso come nell’altro è necessario una ridefinizione periodica degli obiettivi e, con questa, una ridefinizione tra le parti delle nuove utilità che questa può determinare. Si tratta, cioè, di ricontrattare il consenso anche se l’istituzione si tiene ben stretto il potere di coordinamento. Se questo non avviene il rischio è che le iniziative, tanto faticosamente create attraverso l’intuizione, lo studio, il confronto e la mediazione politica tra i vari interessi, semplicemente, cessino un bel giorno di esistere senza un preavviso, quasi d’inedia, per desuetudine. Per descrivere questo processo si è coniato il termine risacca istituzionale che ben descrive, in punta di metafora, quel processo che è in grado di cancellare progressivamente anche gli impianti organizzativi più strutturati . La causa di questa progressiva degenerazione organizzativa si compone di una miriade di atteggiamenti e comportamenti individuali in genere finalizzati ad arginare il crescere delle proprie incombenze e all’aumentare il proprio benessere. Ne fanno parte, ad esempio, la tendenza di conferire deleghe in bianco, ad adottare una visione particolare a scapito di una generale, a non misurare e valutare il proprio e l’altrui lavoro, a non tener conto dei programmi generali, ad evitare l’imbarazzo del confronto e del dissenso, ad evitare coinvolgimenti emotivi rispetto alle proprie incombenze, ecc. Tutto questo produce, a lungo andare, sfilacciamenti organizzativi di non lieve momento. La comunicazione si sclerotizza e si standardizza riducendo la connessione tra i vari operatori che quindi finiscono, nel complesso, per sentirsi più soli nell’affrontare le questioni più spinose in un contesto percepito in modo impersonale ed ostile. Da questo deriva l’incremento degli spunti ansiogeni e il ritiro in più tranquillizzanti e deresponsabilizzanti prassi già consolidate nel tempo seppur più orientate al rispetto delle procedure che alla soluzione dei problemi concreti. Ma l’istituzione non deve solo svolgere questa continua funzione di stimolo e negoziazione continua del consenso. Essa deve anche dimostrare di saper difendere i risultati ottenuti attraverso i cambiamenti. Il patrimonio di utilità non può essere messo a rischio perché è a questo patrimonio che fanno riferimento tutti gli appartenenti all’organizzazione, indipendentemente da quale sia il titolo di appartenenza, per trovare le risorse e le motivazioni per continuare a contribuire al buon andamento generale . La percezione che il patrimonio sia non adeguatamente gestito e difeso, da chi ha il potere e l’onere di farlo, induce insicurezza che, come è ovvio, costituisce una disutilità pericolosa, capace di indurre fenomeni di disinvestimento, disgregazione, autodifesa dello status quo, rarefazione della collaborazione, frammentazione dell’organizzazione e, prima ancora, della volontà degli operatori coinvolti. Viceversa la capacità di concretizzare le iniziative e di consolidarle stabilizza il sistema, lo rende credibile agli occhi degli operatori coinvolti e li rassicura rispetto al continuo dilemma polarizzato tra le decisioni di lasciarsi coinvolgere o meno. E non si ferma qui. La capacità di concretizzare e consolidare contribuisce a trasformare un carcere, da voce di spesa e oggetto di interventi assistenziali, a partner affidabile in attività produttive, culturali e sociali. Questo, a sua volta con un effetto volano, richiama iniziative, richieste di collaborazione e progetti che possono essere utili per incrementare il processo di contaminazione e coinvolgimento descritto. L’afflusso di energie di questo genere e le collaborazioni che si riescono ad attivare tra le componenti interne ed esterne del sistema generano spunti di vitalità essenziali per modificare il concreto regime di vita detentiva e, in questo modo, il senso e la qualità della pena. In questo senso la contaminazione con realtà istituzionali e private esterne contribuisce fortemente a ridare vigore a quell’attività trattamentale evocata dall’Ordinamento del ’75 che, troppo spesso, nel tempo, si è poi tradotta in attività para burocratiche o di mero intrattenimento. L’impegno continuo in attività, lavorative, scolastico – formative e culturali, sostanzialmente eguali a quelle normalmente condotte nella vita libera, aiutano il detenuto a misurarsi con le regole, le difficoltà e le gratificazioni che queste offrono e, in tal senso, lo stesso diventa meglio intellegibile all’osservatore che ha l’onere di esprimere giudizi e valutazioni utili per il percorso modificativo della pena. Ma l’osservatore istituzionale può andare in crisi se coglie nel processo un suo ruolo marginale e poco gratificante rispetto a quello degli altri membri. L’idea di outsourcing prospettata da Astarita e coll. prevederebbe, viceversa, “la moltiplicazione dei centri di gestione del sistema penitenziario” al fine di “rompere il senso di monolicità e opacità proprio dell’attuale amministrazione penitenziaria”, prevedendo, ad esempio, il passaggio delle dipendenze funzionale e gerarchica degli operatori trattamentali, quali gli assistenti sociali, gli psicologi e gli educatori, dal livello ministeriale a quello locale. Crediamo che la concretizzazione di tale ipotesi non determinerebbe un miglioramento del sistema ma, a contrario, il peggioramento del suo governo e dei suoi risultati. La letteratura organizzativa ha ampiamente dimostrato che la creazione di più centri gestionali genera un pari numero di mondi separati l’un dall’altro, ognuno con i propri obiettivi, linguaggi e metodologie e questo non migliora di certo l’efficacia del sistema. Il recente passaggio della sanità penitenziaria a quella nazionale è un esempio di quanto appena affermato. In secondo luogo una siffatta riforma legherebbe i modelli e le pratiche trattamentali alle contingenze politiche e finanziarie dei vari enti locali chiamate a gestirle. Nel nostro caso, viceversa, pur tenendo fermo il coordinamento e la responsabilità dell’indirizzo si è lavorato per integrare le visioni e i contributi e questi hanno reso più ricco il sistema. Nella realizzazione di questo progetto organizzativo l’applicazione delle regole è sempre stata subordinata a quella dei principi normativi generali, soprattutto ogni qualvolta ci si è trovati di fronte ad una rigida contrapposizione di interessi, ognuno dei quali, in genere, risultava perfettamente tutelato da regole formali che apparentemente non lasciavano spazio di azione. In quei casi solo la creatività informata dai principi generali ha consentito di uscire dalle secche di percorsi che facevano riferimento ad un insieme di razionalità diverse tra loro e che, nel complesso, rendevano l’intero sistema irrazionale e campo privilegiato per giochi di alleanza e di scontro tra le parti. Solo una politica attenta ad individuare le corrispondenze di interessi utili a tessere alleanze virtuose stabilite dai principi guida ha consentito l’evoluzione del sistema scongiurandone l’implosione. Complessivamente crediamo di aver dimostrato che attraverso una riflessione di stampo marcatamente organizzativo si può modificare un certo modo di far carcere sino ad aumentare il benessere delle parti che lo compongono, e, nel contempo, migliorando la qualità della vita e della legalità interna. Dal punto di vista normativo grande speranza deriva dalle indicazioni europee in materia penitenziaria già citate. La Raccomandazione del Comitato dei Ministri degli Stati membri sulle Regole Penitenziarie Europee, adottata nel 2006 , per quanto mai recepita dal Governo italiano, è un formidabile strumento per orientare le azioni degli operatori penitenziari in quanto indica degli obiettivi generali lasciando a chi deve interpretalo l’onere di trovare le soluzioni più adeguate. E’ un corpus di principi e, come tale, è un assoluto punto di riferimento rispetto ad un lavoro organizzativo che voglia essere attento alle dinamiche “politiche” prese in considerazione nel presente contributo. Di fronte alla difficoltà di creare consenso ed ottenere collaborazione tra le componenti variegate di una organizzazione complessa, qual è quella penitenziaria, e alla necessità di mediare e negoziare tra i loro diversi punti di vista, un corpus giuridico di questo genere costituisce una risorsa importante. Con questo non si vuole sostenere che il nostro ordinamento e il suo regolamento di esecuzione non siano validi. Più semplicemente si vuole sottolineare che, nel loro dettagliato articolato, procedono per regole spesso minute che, come tali, lasciano spazio alla mentalità burocratica del rispetto pedissequo delle procedure e dell’adempimento per l’adempimento, più che a quella del risultato. In un contesto difficile e turbolento, soprattutto se aggravato come nell’attuale crisi generale, la prima mentalità ha buon gioco nel dimostrare che, pur nel rispetto dei passaggi dovuti, poco è possibile realizzare. In tal senso amministrare la sofferenza può voler significare produrne di ulteriore. Non è certo un caso se Luigi Manconi, nella prefazione all’edizione italiana delle Regole penitenziarie europee , sottolinea che le stesse sono perfettamente aderenti ad una idea di pena razionale e intelligente, risocializzante e non degradante e, contestualmente, fa notare che l’articolo 4 delle stesse Regole afferma che la mancanza di risorse non può giustificare condizioni di detenzione che violino i diritti umani e, subito dopo, all’articolo 5 prescrive che la vita in carcere si allinea quanto più rigorosamente possibile agli aspetti positivi della vita all’esterno del carcere. Prendere atto di questi così come di tutti gli altri principi può significare cercare, tra le potenzialità e i meccanismi del proprio contesto di lavoro, quelle forze che consentono di tendere ad essi sino a raggiungerli in un percorso creativo che utilizzi e rispetti le regole senza divenirne schiavo e in virtù dei predetti obiettivi. E se Coyle giunge a definire il sistema penitenziario come “la componente più negletta della giustizia penale, così come peraltro già ricordava Nicolò Amato negli anni ’80, è pur vero che lo stesso Autore sottolinea come il Comitato dei Ministri Europei ha riconosciuto agli operatori penitenziari il fatto che il lavoro nelle carceri costituisce una sfida che, a nostro modo di vedere, si può vincere a partire dalla riflessione minuta e attenta dell’organizzazione penitenziaria, dei suoi meccanismi più intimi e propri dei processi negoziali e “politici” che essa, come ogni altra organizzazione, pone in essere nel corso del suo esplicarsi quotidiano. Il risultato della combinazione tra questo genere di riflessione e quella parallela sul senso giuridico del lavoro in carcere, crediamo, possa fare in modo che amministrare la sofferenza non debba più essere necessariamente sinonimo negativo della nota tesi di Kristoffersen secondo il quale la sostanza della carcerazione equivarrebbe ad un a vera e propria tirannia delle inezie, quanto, piuttosto, quello dello sforzo quotidiano per ridurre le varie sofferenze indebite della pena, oggi tutt’al più elencate come qualcosa di risaputo, dato per scontato ed imputato, spesso e troppo semplicisticamente, all’incapacità di chi lavora in carcere.
Conclusioni
Avviandoci alle conclusioni possiamo tornare alle riflessioni della Davis. Quello che oggi è inimmaginabile lo potrebbe essere in un futuro più o meno prossimo. Il carcere, nella sua funzione di ultima stanza ove relegare le questioni sociali irrisolte, esprime segni di crisi profonda ai quali si aggiungono i noti problemi finanziari che affliggono l’Amministrazione pubblica italiana. Ma tutte le ultime stanze, per quanto possano essere stipate di detenuti, pazienti, utenti, hanno costi finanziari che, in un futuro più o meno prossimo, non potranno più essere sostenuti, e la questione sarà ancora più aggravata dalla logica stessa di questi luoghi, assimilabili a veri e propri capolinea sociali che non prevedono ulteriori possibilità di dislocazione dei problemi che trattano e gestiscono. È molto probabile che, soprattutto per questo motivo, si giungerà alla ridefinizione dei compiti e delle funzioni del carcere orientandosi a forme diverse. D’altra parte altri costi si aggiungono a quelli più squisitamente economici. Ci si riferisce a quelli connessi all’inefficacia degli interventi trattamentali assistenziali e terapeutici che non fanno che stabilizzare identità devianti e processi di separazione ed espulsione con costi sociali molto alti in termini di aumento della marginalità e della corrispondente percezione di insicurezza e paura sociale. Questa è un’altra contraddizione che, prima o poi, esploderà e dovrà essere affrontata con strumenti diversi da quelli ad oggi utilizzati. Nei prossimi anni, quindi, è molto probabile che si giocheranno partite importanti per la ridefinizione dei paradigmi penali e penitenziari. È quindi essenziale attivare un dibattito che evidenzi le anomalie e proponga modelli diversi che siano in grado di rispondere ai gravi e sempre meno risolvibili problemi d’ordine metodologico e finanziario. In giro per il mondo ci sono esempi di questo genere, come ad esempio l’esperienza sudafricana della Commissione per la verità e la riconciliazione o ai programmi di mediazione penale che, in giro per l’Europa, rispondono all’esigenza di deflazionare le corti di giustizia e le carceri, abbreviando i termini della ricomposizione delle fratture al patto sociale che il mancato rispetto delle norme producono. Illuminante è la posizione della Davis che propone di riflettere su una questione semantica che ha tuttavia un importante riflesso pratico. Dice la Davis: oggi il paradigma penale associa al concetto di colpa quello di castigo con le conseguenze che vediamo nei tribunali e negli istituti penali ma se noi sostituissimo al primo concetto quello alternativo di responsabilità questo richiamerebbe, quasi per assonanza, quello della risarcimento. È un mondo completamente diverso quello che si può così prospettare. Ricomposizione, risarcimento, riconciliazione, tre R che possono fondare un nuovo paradigma con costi e risultati potenzialmente migliori di quelli oggi praticati. Questo significa anche uscire, per una certa parte, dalla logica dagli approcci e dalle istituzioni specialistiche, oggi trasformate in ultime stanze, per ampliare l’applicazione di un tipo di approccio sociale e generalista. L’ordinamento penitenziario italiano del ’75 sottolinea questa prospettiva laddove prevede che l’attività trattamentale non riguardi esclusivamente i ruoli professionali organici dell’Amministrazione penitenziaria ma anche tutta la rete sociale, pubblica e privata, intorno all’istituto di pena. Laddove questo è stato realizzato e nella misura in cui è stato possibile, si è potuto notare un sensibile scarto nelle relazioni, nel clima interno, nell’organizzazione, nella gratificazione degli operatori e dei detenuti, nell’abbassamento delle tensioni, nei risultati individuali e sociali ottenuti. Credo che la base di tutti questi sforzi sia da individuarsi in un cambio dell’ottica con il quale è osservato e trattato il deviante. Oggi siamo abituati a pensare alle persone in carcere come una questione numerica. Questo approccio si infila nei nostri pensieri e dal numero si passa all’indifferenziazione e a considerare questa massa di individui con le categorie stereotipate dello straniero, del tossicodipendente, del vuoto a perdere. Si parla indifferentemente di marocchini, di tossici, di delinquenti, di marginali, di pazzi e si prospettano soluzioni dislocative quali la costruzione di nuovi istituti o le espulsioni dal territorio nazionale o il ricovero in comunità terapeutiche o in ambulatori dei servizi territoriali. Gli stessi detenuti soggiacciono a questa logica cogliendone ed accettandone lo stigma che rimane un elemento identitario secondo quel processo di prisonizzazione che Clemmer ha delineato . Ma a questo si può ovviare se si introduce un processo di ridefinizione delle persone in termini di risorse. Procedere in tal senso implica generare una sorta di effetto pigmalione fondato sul fornire opportunità alle persone che, gradualmente, riscoprono le proprie capacità e la propria dignità . La stessa istituzione scopre competenze, creatività, impegno in persone, viceversa, confuse nella massa indistinta. Non è solo una questione di occupazione lavorativa o di percorsi scolastici e formativi. Si colgono segnali importanti di persone e gruppi che, in carcere, danno la loro disponibilità per aiutare quella parte del carcere più povera in competenze, capacità e possibilità o, come già sperimentato in Inghilterra rispetto a quelle persone a rischio auto lesivo. Tale scoperta e soprattutto l’applicazione di quelle competenze da lustro all’Amministrazione penitenziaria che ottiene un certo grado di visibilità e credibilità che si riflette anche sulla gratificazione professionale dei suoi operatori. Non ovunque questo è avvenuto o, addirittura è stato tentato ma, al di là di questo, non potrebbe essere questo un processo duplicabile anche all’esterno? Invece di espellere non sarebbe meglio accogliere? Invece di zittire non sarebbe meglio far esprimere? Far partecipare significa arricchire tutti, dentro come fuori dalle mura di un carcere che oggi, paradossalmente, mostra segnali profetici che non dovrebbero rimanere inascoltati.
Fonte: http://associazioneradicalesatyagraha.blogspot.com/2012/05/la-profezia-penitenziaria.html
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