Cagliari: Graziano Mesina, 40 anni trascorsi in carcere, chiede allo Stato i salari arretrati

di Mauro Lissia
La Nuova Sardegna, 30 marzo 2012
Quarant’anni vissuti in carcere, tra evasioni avventurose e mesti ritorni: arrivato ai settant’anni di età Graziano Mesina, la primula rossa della Barbagia d’altri tempi, s’appresta a chiedere al tribunale che lo Stato gli riconosca un compenso giusto per il lavoro svolto dietro le sbarre come dipendente del ministero della giustizia. Il suo non è un azzardo e neppure una provocazione, perché una sentenza del giudice del lavoro di Cagliari che risale a ottobre del 2010 sancisce che il detenuto impegnato nel lavoro in prigione ha diritto agli aumenti stabiliti ai rinnovi contrattuali.
L’amministrazione, dice la legge, deve pagargli i due terzi del salario dovuto in base alla sua mansione. Un caso nel 2010. Il primo a ottenere il riconoscimento di questo diritto è stato Giovannino Carta, condannato nel 1993 a 26 anni di reclusione dalla Corte d’Assise cagliaritana per aver ucciso due anni prima la moglie e il figlio. Tornato in libertà 17 anni dopo grazie alla buona condotta, Carta si era rivolto all’associazione Casa dei Diritti perché il suo salario, guadagnato col lavoro di falegname svolto in carcere, non era stato mai adeguato al contratto nazionale di lavoro.
Gli avvocati Pierandrea Setzu e Renato Chiesa avevano ricorso al tribunale del lavoro, che aveva riconosciuto all’ex detenuto gli aumenti maturati negli anni. Da quel giorno i due legali hanno ricevuto una cinquantina di richieste fondate su casi analoghi e a giorni presenteranno alla cancelleria del tribunale un dossier ricco di nomi eccellenti della criminalità, tra ex ergastolani e personaggi legati a organizzazioni mafiose.
La Uno bianca. Il nome di Mesina è fra questi, con lui i famigerati fratelli Fabio e Roberto Savi, più noti come fondatori della banda della Uno Bianca che mise a segno 103 delitti in Emilia Romagna tra il 1987 e il 1994. Poi la banda che rapì Giuseppe Vinci e l’ergastolano Mario Trudu, condannato per il sequestro Gazzotti.
Tutti chiedono il riconoscimento degli aumenti contrattuali per il lavoro svolto in carcere, con gli arretrati maturati nel corso degli anni, quasi sempre decenni, trascorsi a espiare la pena. Nel caso di Carta, che ha rivendicato le differenze di retribuzione per gli anni che vanno dal 2002 al 2007, il ministero della Giustizia ha proposto un accordo di transazione che l’ex detenuto ha accettato: dodicimila euro. Ora si tratta di capire se il giudice del lavoro darà ragione anche a Mesina e a quanto ammonti l’eventuale rimborso, che andrebbe calibrato sugli anni effettivi di lavoro e non su quelli passati in stato di detenzione.
Alla differenza tra quanto percepito e i due terzi del salario dovuto in base al contratto nazionale bisognerà comunque aggiungere quanto spetta a Mesina e agli altri ex detenuti per i periodi di malattia, più le indennità previdenziali e contributive. Come dire che il più famoso bandito sardo del dopoguerra potrebbe aver maturato tra le mura delle carceri italiane in cui ha vissuto più della metà della sua vita una discreta pensione di vecchiaia. La commissione.
L’avvocato Setzu, diventato ormai con il collega Chiesa un riferimento per i detenuti che chiedono il riconoscimento dei propri diritti, ha spiegato che le mercedi - è questo il termine tecnico per indicare la retribuzione del detenuto lavorante - dei carcerati dovrebbero essere adeguate ogni anni secondo gli indici del consumo e le modifiche dei contratti collettivi nazionali di ogni categoria. Il compito è affidato a una commissione ministeriale, che però dal 1993 non ha mai più operato.
Eppure - questa la tesi sostenuta dai due legali cagliaritani - l’articolo 36 della Costituzione “si pone in netto contrasto con l’illegittima prassi dell’amministrazione penitenziaria, stabilendo che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
La norma. Ma c’è dell’altro: la Costituzione “riconosce e tutela un diritto che riguarda tutti i lavoratori, senza operare discriminazioni nei confronti di quelli detenuti”. Non solo: l’articolo 22 dell’ordinamento penitenziario riconosce al detenuto lavoratore “una retribuzione che gli consenta un tenore di vita decoroso, non inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto nazionale in vigore al tempo dell’avvenuta prestazione lavorativa”.
Ed è su questo punto che i due legali della Casa dei Diritti hanno legato la citazione in giudizio davanti al tribunal del lavoro del ministero della giustizia: “Ad ogni modifica del contratto di categoria dev’essere adeguato il trattamento retributivo dei detenuti lavoratori alle dipendenze del ministero”.
Fonte: http://www.detenutoignoto.com/2012/03/cagliari-graziano-mesina-40-anni.html
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