Carceri, il contro-primato italiano
di Sandro Gozi pubblicato su Europa, il 22/03/12
Un’altra condanna della Corte europea dei diritti umani, l’ultima di una lunga serie di richiami sulle carceri italiane, sulla lentezza dei processi e sull’inadeguatezza della legge Pinto, sui risarcimenti delle vittime di errori giudiziari, sulla custodia cautelare. A cui si aggiungono quelle della Corte di giustizia europea sulla responsabilità civile dei giudici. La giustizia italiana produce illegalità europea. Nell’era dei contagi, mentre tutti sono preoccupati per il virus finanziario greco, la malattia democratica italiana sta infettando l’Europa. E un altro sciopero della fame nella dura battaglia di Marco Pannella contro un sistema che ha spinto lo stesso segretario generale del Consiglio, Thorbjorn Jagland, ad accusare apertamente l’Italia di snaturare così il fine ultimo della Corte europea dei diritti dell’uomo. Che sarebbe quello di cessare le violazioni dei diritti fondamentali dopo una condanna, di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il rispetto. Assieme a Russia e Ucraina, infatti, siamo i più condannati in Europa.
Non una bella compagnia, non un bel primato. E la mancanza di azioni più coercitive delle istituzioni europee contro l’Italia rischiano di trasformare Consiglio d’Europa e Unione europea in complici dell’illegalità italiana. Il governo Monti ha cominciato a dare risposte, con il decreto sul “sovraffollamento delle carceri”. Un passo avanti. Ma tutti sappiamo che rispetto agli obblighi europei è una risposta parziale, insufficiente e che riguarda solo alcuni aspetti della malatissima giustizia italiana.
Ogni giorno, nelle patrie galere, viene negata la dignità personale, vengono violati i diritti fondamentali. Ma un uomo non è il suo errore. E un detenuto non è solo il crimine che ha commesso. Né un uomo deve pagare oltre misura per gli errori che ha compiuto. Le nostre prigioni ci allontanano ogni giorno di più dall’Europa: sul tema dei diritti, siamo una paese alla deriva, con uno spread elevatissimo rispetto a quell’Europa che abbiamo voluto e di cui ci piace tanto parlare.
Sono anni che l’Italia viene condannata per le sue carceri disumane. Già nel 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva stabilito nell’ormai famoso caso Sulejmanovic contro Italia che, «sebbene non sia possibile fissare in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto all’interno della propria cella, ai termini della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali , la mancanza evidente di spazio costituisce violazione dell’articolo 3 della Convenzione, relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti». Noi invece, in Italia, applichiamo le direttive Ue sullo spazio vitale dei polli da allevamento o per il trasporto degli animali, ma neghiamo lo spazio minimo vitale alle donne e agli uomini che scontano la loro pena nelle nostre carceri.
Il problema del nostro sistema giudiziario però non si limita alla mancanza di spazi adeguati. Un’altra grave anomalia è la lentezza della giustizia. Problema per il quale l’Italia è sottoposta dal 2001 (sì, avete letto bene, da 11 anni) ad un monitoraggio periodico da parte del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulle misure adottate (o meglio non adottate…) per risolverlo. Monitoraggio che ha portato a varie condanne, dopo gli scarsi risultati ottenuti dagli inviti rivolti dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa al governo italiano per modificare la cosiddetta «legge Pinto» e accelerare la corresponsione degli indennizzi per eccessiva durata dei processi previsti da tale legge.
La risoluzione faceva seguito ad un’altra sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il caso Gaglione, che ha constatato in 475 casi la violazione della Convenzione europea da parte dello stato italiano per i ritardi nella corresponsione dell’indennizzo. I processi italiani sono giudicati come irragionevoli, iniqui e troppo lunghi. Ma è arrivato il momento che ad occuparsi del “caso Italia” sia la stessa Unione europea, che ha poteri ben più stringenti rispetto al Consiglio d’Europa. Con il trattato di Lisbona, infatti, l’Ue può e deve occuparsi direttamente delle gravi violazioni dei diritti fondamentali che avvengono al suo interno.
Si potrebbe obiettare che le questioni sulla detenzione rientrano nella competenza degli stati membri e non in quella dell’Unione europea. Tuttavia, esse possono avere un impatto diretto sul buon funzionamento del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie all’interno dell’Unione. E ciò può costituire la base per un intervento da parte dell’Unione.
Non a caso, su questo tema l’attenzione delle istituzioni comunitarie negli ultimi anni è stata sempre più alta. Nel 2009 il Consiglio europeo ha adottato il programma di Stoccolma per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014, che prevede un impegno particolare dell’Europa in materia di detenzione. Nel 2011 poi la Commissione europea, con un apposito Libro verde, ha deciso di approfondire il legame tra le condizioni della detenzione e gli strumenti del riconoscimento reciproco adottati a livello europeo, come ad esempio il mandato d’arresto europeo o l’ordinanza cautelare europea, intende esaminare le misure alternative alla custodia cautelare, e stabilire norme minime Ue sulla durata massima della custodia.
Di recente, il parlamento europeo ha poi approvato una risoluzione sulle condizioni detentive nell’Ue, invitando gli stati membri a stanziare idonee risorse all’ammodernamento delle carceri e chiedendo alla Commissione europea di avanzare una proposta legislativa sui diritti delle persone private della libertà, di sviluppare regole minime per le condizioni carcerarie e di detenzione nonché standard uniformi per il risarcimento delle persone ingiustamente detenute o condannate.
Sono esattamente gli stessi punti su cui alla camera dei deputati abbiamo impegnato il governo: non possiamo chiedere agli italiani anni di sacrifici per parametri economici e tollerare ancora a lungo che lo stato violi costantemente alcuni principi fondamentali alla base della comunità europea di cittadinanza.
Ma dobbiamo pretendere un’azione più rapida e incisiva anche da parte delle istituzioni europee. E se la tolleranza dell’illegalità italiana, se l’inerzia europea continuerà, alle denunce contro l’Italia, dovranno seguire denunce contro le stesse istituzioni Ue. Sulla carta, Europa di Lisbona significa più democrazia, più libertà fondamentali, più doveri da parte degli stati membri.
Ma l’Italia, e l’Europa stessa, non sono ancora entrate in questa nuova logica. Tuttora, in Europa, la vita democratica è enunciata nei trattati ma non praticata nelle politiche. Così, la democrazia reale europea rischia di soffocare nella culla la democrazia europea che vogliamo e dobbiamo costruire.
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