La politica al tempo di twitter
l'Unità del 3 Marzo 2012
Il 2012 anno di grandi elezioni: dal voto di ieri in Russia, alla Francia, agli Stati Uniti. Il filo comune è che tutti i contendenti si stanno lanciando su Internet, in modo particolare Twitter; lo ha fatto persino Sarkozy che ha raccolto un suggerimento di Liberation. È per questo che Unitag ha scelto - dice il vicedirettore dell'Unità, Luca Landò introducendo la discussione - di analizzare il rapporto tra web e politica. Molti sono convinti che Obama deve la sua vittoria anche alla rete, Sarkozy la sta scoprendo, in Russia media-attivisti hanno svelato la regia del regime dietro alle manifestazioni pro Putin.
Attorno al tavolo di Unitag, Sara Bentivegna (docente di Comunicazione politica alla Sapienza di Roma), Arturo Di Corinto (esperto di comunicazione e consigliere presso la Presidenza del Consiglio dei ministri), Luca Nicotra (segretario di Agorà digitale), Vincenzo Smaldore (tra i fondatori di Open Polis). E Cesare Buquicchio, caposervizio di Unita.it.
Ed è giusto Smaldore che Carlo Infante, esperto di perfoming media, chiama in campo. Come si fa a studiare il livello di presenza del web nella politica? Come fa Open polis per condurre questo tipo di ricerche? «Il web è un ottimo conduttore di informazione e attivismo - dice Smaldore -: da Obama alla primavera araba è evidente che con la Rete si possono fare campagne elettorali e fund raising, si possono trasmettere informazioni e organizzare mobilitazioni. Un tema poco discusso, però, è la questione del controllo: quello dei cittadini sui politici, quello dei social network sugli utenti o quello dei gruppi di pressione sugli amministratori. Con Open polis lavoriamo sulla trasparenza delle decisioni, dei regolamenti e delle procedure. Con la gestione degli Open data i documenti di pubblico dominio: il nostro obiettivo è rendere ancora più pubblici e leggibili i dati del processo decisionale, cercandoli noi se non ci vengono dati. Un esempio? Dai resoconti delle votazioni abbiamo desunto il dato della presenza (migliore di tutti è Rosy Bindi, Pd) e dell’assenteismo (palma nera Nicolò Ghedini, Pdl) dei parlamentari. E cerchiamo di fare un monitoraggio di qualità sugli eletti: quanti progetti di legge presentano, quanti colleghi coinvolgono, se vengono portati a buon fine...».
L’intervento in Rete è variegato. «Prima di di fare il media-attivista ero ricercatore Cnr - racconta Arturo Di Corinto - ho lavorato con i centri sociali, Forte Prenestino tra gli altri, ho fatto il giornalista, l’insegnante, il consulente. Anche in questo modo certi contenuti sono arrivati fino in Parlamento. Perché le tecnologie hanno una forza d’urto sulle strutture sociali. Tanto più quando i personal media, i cellulari di ultima generazione, il software per l’editing dei video, le tariffe flat ci hanno reso tutti giornalisti per caso. Emblematica la vicenda di Genova 2001, quando le 200 mila persone del corteo hanno gestito l'informazione in real time, sono diventati produttori di informazione».
I partiti, però, sembra non se ne siano accorti, incalza Infante: abbiamo visto tutti i siti delle campagne elettorali, poi - salvo poche eccezioni - abbandonati miseramente. «Viviamo nell’era della sfiducia - sospira Sara Bencivegna - i cittadini dovrebbero essere attenti e vigili, ma i partiti sono assenti. Colpa del sistema elettorale che scoraggia il politico dal render conto pubblicamente di quel che fa. Eppure la Rete sarebbe uno strumento eccezionale per farlo. Quanto a Genova 2001, lì è avvenuto un fatto mai visto prima, il racconto e l’attività in Rete di un movimento senza organizzazione formale, senza partiti e sindacati». A Seattle, nel 1999, l’uso della Rete fece la differenza, dice Carlo Infante. Ma non basta la tecnologia: serve la creatività sociale, come nel caso della “sottosorveglianza”, la sorveglianza dal basso. Quali armi hanno associazioni e movimenti per un uso efficace delle reti? «Noi di Agorà digitale - dice Luca Nicotra - lavoriamo alla regolamentazione del web, la ricerca di buona politica, per la mobilitazione ma anche per fare proposte al governo. E anche per svelare l’uso improprio, dissimulato, del web, come è avvenuto in Russia, dove il governo ha sovvenzionato blogger per attaccare i dissidenti». Ma in Italia?
«Pochi giorni fa il Pdl ha avviato la Political digital accademy per preparare i militanti a muoversi su internet», dice Di Corinto. «Forse qualcosa sta cambiando - interviene Landò - però attenzione alla politica degli annunci: ricordate le tre “i” di Berlusconi, impresa, inglese e internet? Nella rete non basta annunciare un’accademia, ci vuole una pratica quotidiana. E non è un caso che Berlusconi preferisca Facebook a Twitter: il secondo ti obbliga a stare in campo tutti i giorni, a esserci sempre».
«Ho monitorato a lungo la presenza online dei politici - dice Sara Bentivegna -: i siti sono morti mentre su twitter c’è un incremento dell'85% rispetto alla prima ondata del 2007, quella cavalcata da Di Pietro e Palmieri. Con twitter si può gestire l'informazione o le relazioni sociali (Andrea Sarubbi, Pd, comunica il suo lavoro di parlamentare ma chiede anche consigli sui ristoranti). Ma la cosa importante non è tanto esserci, quanto l’essere re-tweettati. Se no si è fuori».
E qui entra in ballo in concetto di reputazione. «La rete non è un megafono che rilancia passivamente quello che riceve - dice Infante -. E uno strumento vivo e collettivo che amplifica la comunicazione ma ne cambia il registro, la arricchisce». Per questo è importante che chi lancia e rilancia sia un personaggio riconosciuto per la sua affidabilità e autorevolezza. In rete non vale il principio mordi e fuggi: vale chi sei e come ti comporti. «In che modo Open polis metabolizza i dati per valutare la buona reputazione politica? «C’è carenza di dati - sostiene Smaldore - alcuni, tra cui Andrea Sarubbi, ci fanno una cronaca d’aula fresca, quotidiana, puntuale. Ma in molti luoghi del Parlamento non c’è resoconto del voto. Quando abbiamo sollevato la questione ci hanno risposto che per attrezzare le aule servivano 50 mila euro, troppi. Troppi? Il bilancio generale è 2 miliardi e non ci sono 50 mila euro per la trasparenza? Ridicolo. Anche l’operazione trasparenza del governo Monti è carente - continua Smaldore -. I redditi online hanno avuto un forte clamore mediatico ma mentre tutti guardano l’ammontare dei redditi, nessuno si è accorto che i ministri hanno dichiarato quel che volevano. C’è chi ha conteggiato gli emolumenti da ministro, chi i redditi precedenti, c'è chi ha messo le cariche che ricopriva, chi no. Solo due su 47 hanno dichiarato la disponibilità del conto corrente, solo due hanno allegato la dichiarazione della moglie. La buona volontà non basta: servono regole chiare e uguali per tutte. Altrimenti non è vera informazione».
La sfida, ragiona Cesare Buquicchio, è sulla complessità: «Il rischio è che il web acuisca la ricerca del consenso politico invece della professionalità, della capacità di trovare soluzioni complesse a problemi complessi. Il click-attivismo è facile ma non porta lontano: la campagna contro la lapidazione di Amina ha avuto un grande successo, tutti che aderivano con i loro clic ma se chiedete come è andata a finire, pochi vi rispondono in maniera corretta. Si aderisce, si clicca e poi si passa ad altro. difficile fare politica in questo modo. Certo, Sarubbi fa resoconti live delle commissioni e riesce a dare spessore alle notizie che mette in rete, ma pochi fanno come lui».
Una maggiore partecipazione non potrebbe cambiare le abitudini dei politici, non potrebbe renderli più attenti ai nuovi media? «Guardate il Forum dell’acqua - risponde Luca Nicotra -: quei movimenti non avevano un buon rapporto con la politica. Hanno fatto mail-bombing ma non sono riusciti a realizzare un rapporto reale con i politici. Nonostante la retorica giornalistica il web ha avuto scarso peso: la gente ha fatto i banchetti, ha parlato, ha stretto relazioni, confermando che il successo si ottiene quando la gente s’impegna davvero, quando usa il suo tempo e il suo cervello. Nella politica diretta, militante, l’impegno diretto, direi quasi corporeo, ha ancora un senso. E internet conta poco.
Nei processi elettorali, dove questo impegno è sempre meno presente, il web ha invece un peso. Anche se la Tv conta di più. Facebook incide comunque per il 5% sulle scelte elettorali.
Il punto centrale, da cui partire, l’impegno delle persone. Prima c’era l'attivismo, poi il media-attivismo e ora il click-attivismo. Quest'ultimo può facilmente degenerare in slack activism, un attivismo cialtrone e pigro. C’è poco da fare: le attività on line non possono fare a meno di quelle off line». Sì, conviene Sara Bencivegna, le tecnologie hanno una valenza politica solo se sono situate socialmente. Insomma, il web non è un fine - tira le somme Luca Landò - ma anche uno strumento di azione politica. Per diffondere le informazioni e non solo. Per fare relazione e per dare strumenti. Per arricchire la coscienza politica, degli elettori ma anche degli eletti».
Fonte: http://www.agoradigitale.org/la-politica-al-tempo-di-twitter-la-politica-al-tempo-di-twitter
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