«Internet è come la droga» / gli “esperti” demonizzano il web
Allarmismo, proibizionismo, repressione. Ancora una volta le corporazioni degli “esperti” puntano alla patologizzazione e alla medicalizzazione – quando non alla criminalizzazione e alle repressione – della quotidianità di milioni di cittadine e cittadini.
A (ri)lanciare l’allarme sulla pericolosità di internet due psicologhe veronesi che, in un articolo goebbelsianamente perfetto di Elisa Pasetto, pubblicato sul giornale L’Arena di martedì 1 febbraio, demonizzano il web dipingendolo come un luogo di perdizione, una versione 2.0 delle bibliche Sodoma e Gomorra.
Non parlare di demonizzazione è veramente impossibile, l’articolo apre citando lo stupro di una dodicenne adescata in rete – certo un caso grave, ma che non dipende dalla rete in sé: come è noto la maggior parte delle violenze sessuali su minori si consuma tra le pareti domestiche, a scuola o in parrocchia. In ogni caso tutto questo non c’entra nulla con le eventuali presunte dipendenze che dovrebbero essere il tema dell’articolo.
A sostegno della patologizzazione dell’utilizzo di internet viene fatto presente che a partire dal 2012 verrà inserito nel famigerato Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders lo Iad (Internet addiction disorder), ovvero la dipendenza da Internet. Non viene ricordato però che, giusto per fare un esempio, nel DSM anche l’omosessualità è stata classificata per decenni tra le “deviazioni sessuali” (insieme a pedofilia e necrofilia) e solo nel 1987, in mancanza di prove scientifiche (come spesso accade in psicologia), è stata eliminata dall’elenco delle deviazioni mentali.
Le “esperte” ci fanno sapere che per quanto riguarda le “tecnodipendenze” «esistono tre stadi. Si parte con una curiosità nei confronti della rete, che porta a un coinvolgimento sempre più costante. Finché subentra il bisogno compulsivo di compiere l’atto di connettersi […] così come un tossicodipendente ha bisogno di assumere una sostanza chimica», tutto questo assomiglia ai 4 stadi individuati dal pittoresco dr L. Ron Bumquist per quanto riguarda la società della cannabis nel celebre film Paura e delirio a Las Vegas. Quando è un “esperto” a parlare, come dubitare?
Ma non è finita qui, «nel caso delle “tecnodipendenze” si verifica prima un processo di sostituzione della realtà con quella virtuale, nella quale poi la persona tende a rifugiarsi per fuggire dalla vita reale» e la causa di tutto ciò è semplice: «Nella quasi totalità dei casi sono problemi relazionali, che insorgono spesso dopo grosse delusioni lavorative o amorose». Che dire, un’analisi farcita di luoghi comuni che circolano solitamente tra chi non non “naviga”. Le “esperte” non considerano il lato terapeutico della rete: persone che per le motivazioni più diverse tendono a uscire poco di casa, hanno proprio grazie alla rete la possibilità di parlare e confrontarsi potenzialmente con “il mondo intero”, di conoscere persone nuove – magari più interessanti di quelle conosciute “dal vivo” – e ritrovare così lo stimolo ad uscire nuovamente, incontrando – perché no?! – proprio le persone conosciute on-line (che non necessariamente sono maniaci-stupratori-pedofili-serial killer-necrofili-cannibali).
Ora che lo dice anche il DSM, è chiaro che un problema ci dev’essere: «Perché di problema si tratta», prosegue l’articolo, «se è vero che il 51% dei ragazzi dichiara di utilizzare la chat come strumento per trovare nuovi amici, il 44% si dice disponibile a chattare anche con estranei e ben il 73% confida di aver voglia di incontrare le persone conosciute online, con tutti i rischi del caso». Le psicologhe sostengono quindi che sia problematico il fatto stesso che percentuali considerevoli di ragazzi e ragazze utilizzino le chat per fare nuove conoscenze. Ma non era l’eventuale “dipendenza” il problema? Oltre a questo, pure i conti non tornano: se solo il 44% degli intervistati dichiara di essere disponibile a chattare con estranei, com’è possibile che il 51% degli stessi utilizzi la chat per trovare nuovi amici? E ancora, com’è possibile che ben il 73% dichiari di voler incontrare le persone conosciute in rete se solo il 44% è disponibile a parlare con sconosciuti in chat? Se questo 73% si riferisce solo a chi è disponibile a chattare con estranei, allora la percentuale di chi vuole incontrare le persone conosciute in chat è ben più bassa. Ferma restando l’incongruenza tra i primi due dati e i dubbi sul terzo, una certezza ci resta: le ragazze e i ragazzi vivono a stretto contatto con i propri famigliari e qui, sostenuti dalle statistiche, possiamo veramente dire: con tutti i rischi del caso.
Se c’è una patologia ecco pronta anche la terapia, che è «del tutto simile al percorso di reinserimento di un tossicodipendente». E naturalmente non può mancare la prevenzione: le psicologhe Daniela Panacci e Karen Manni hanno pensato anche a questo, ideando un progetto che, in collaborazione con l’assessorato all’Istruzione del Comune, porteranno nelle scuole per sensibilizzare studentesse e studenti.
Ma non è tutto: le “esperte” dichiarano che è necessario distinguere le “false” dalle “vere” emozioni, naturalmente grazie all’intervento di persone qualificate (fa fede l’iscrizione all’Ordine Professionale) che possono dare «una vera e propria educazione alle emozioni promuovendo i rapporti interpersonali in risposta all’isolamento. Per far capire che le false emozioni che si vivono in rete non possono in alcun modo sostituire un brivido o un batticuore reali». Le due psicologhe trascurano il fatto che le emozioni sono dovute a processi neurofisiologici ed è impossibile parlare di “false emozioni”. Un’emozione è semplicemente quello che una persona “sente”, indipendentemente dallo stimolo che la induce. Il brivido e il batticuore on-line non sono meno veri del brivido e del batticuore al parco. Una parola scritta in una chat può emozionare più di una carezza.
Volendo essere un peletto cinici una domanda sorge spontanea: quanto costerà questo progetto alle casse comunali?
E’ proprio il caso di dirlo…Game Over.
Fonte: http://www.radicaliverona.it/?p=480
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