Se la crisi è dietro le sbarre
di Valentina Ascione su “gli Altri”
Si è scatenato il caos nel carcere di Montacuto, ad Ancona, quando ieri un detenuto ha preso ago e filo e si è cucito la bocca. E altri si sono armati di lamette da barba e con l’aiuto delle bombolette a gas da campeggio hanno cercato di dare fuoco ad alcune celle, bruciando lenzuola e indumenti. Confusione, paura e fumo nella sezione interessata, ma l’intervento tempestivo della polizia penitenziaria in assetto antisommossa ha evitato il peggio e al termine della giornata non si sono registrati feriti tra i detenuti, né tra gli agenti, riferiscono le agenzie che nel tardo pomeriggio battevano la notizia delle proteste iniziate già la sera precedente.
Proteste divampate, pare, per la mancanza di riscaldamento. Un motivo apparentemente banale, forse, ma più che sufficiente ad accendere la miccia di quella polveriera che è la casa circondariale di Montacuto, dove i detenuti dormono sul pavimento perché in 440 sono costretti a spartirsi i 178 posti regolamentari. “Stipati in quattro in celle da uno”, come si legge nella interrogazione parlamentare stilata di recente dai radicali Rita Bernardini e Marco Perduca.
La rivolta di Ancona dimostra che la febbre delle nostre galere è in costante aumento. E cresce parallelamente alla popolazione detenuta, che nei giorni scorsi ha nuovamente superato quota 68 mila. Mentre i posti – i posti reali, non quelli ricavati aggiungendo piani ai letti a castello o adibendo a dormitori gli spazi altrimenti destinati alla socialità, all’assistenza sanitaria o alle poche ore di svago – sono meno di 45 mila.
Eppure è una protesta ordinaria, quella che si è scatenata ieri a Montacuto. Perché ordinario è il malessere che serpeggia nelle carceri italiane. E che da nord a sud lega, come una catena del dolore, l’esistenza di migliaia di uomini e donne senza diritti, scandita dalla mancanza di spazio, luce e aria, di assistenza medica e psicologica. E, in alcuni casi, perfino di cibo. Un’esistenza ridotta a mera e insopportabile sopravvivenza, alla quale in moltissimi si ribellano con atti di autolesionismo: cucendosi la bocca, come il detenuto maghrebino di Ancona, tagliandosi con le lamette da barba o ingoiandole con pile e altri oggetti.
Quest’anno il centro studi e ricerche della Uil Penitenziari ha contato oltre 5 mila episodi. Insieme a 61 suicidi e più di 900 tentativi di suicidio, di chi preferisce la morte a una detenzione illegale e a una vita ai minimi termini. 176 sono invece i decessi complessivi che da gennaio a oggi si sono consumati nelle celle italiane: gli ultimi tre nel giro di una settimana, quella scorsa. A dimostrazione di come, a soli venti giorni dalla fine del 2011, ancora non sia possibile fare un bilancio definitivo di un anno che, comunque, si prospetta drammatico almeno quanto quelli precedenti (nel 2010 si registrarono 184 morti totali, di cui 66 suicidi).
Il nuovo Guardasigilli, Paola Severino, ha annunciato lo studio di misure strutturali certamente utilissime per sbloccare la macchina della giustizia e affrontare la crisi delle carceri, tra cui un più ampio accesso alle misure alternative e la reclusione domiciliare come pena autonoma. Crediamo però che questi provvedimenti vadano trainati da soluzioni in grado di interrompere drasticamente e subito lo stato di illegalità delle nostre galere. Da un’amnistia, che numerosi esponenti della comunità penitenziaria – direttori, volontari e altri operatori – ritengono essere ormai uno strumento non solo indispensabile, ma non più negoziabile.
Il livello di guardia è infatti superato. Il tempo scaduto. Dietro le sbarre c’è un’altra crisi che ci impone di fare presto.
Fonte: http://beta.radicalimarche.org/2011/12/10/se-la-crisi-e-dietro-le-sbarre/
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