Le città cambiano, Napoli è immobile. Perché?
di Marco Demarco, dal “Corriere del Mezzogiorno”, 01/12/2011
Quaranta anni fa, a Napoli si discuteva di come trasformare piazza Miraglia, lì dove insiste il vecchio policlinico. Venti anni fa si aprì un altro analogo dibattito sul destino di Bagnoli. Ormai è più di un decennio che si parla dell’area Est. Molte parole, non un progetto compiuto. E intanto proprio a Piazza Miraglia, l’altro giorno, si è aperta una enorme voragine. Sembra una metafora ma è pura realtà: sotto il peso di tanti progetti mai nati, la superficie cede e nel sottosuolo affonda ogni possibile prospettiva.
Eppure, piaccia o non, la città è il luogo del futuro. Lo ricorda Benedetto Gravagnuolo in un utilissimo saggio appena edito da Clean: “Metamorfosi delle città europee”. Un libro di confronti e di analisi comparate, piacevole da leggere e facile da consultare. Nel 1950 solo il 29% della popolazione mondiale risiedeva nelle grandi città, ma nel 2005 eravamo già al 50% e nei prossimi vent’anni potremmo superare la soglia del 75%. Ora è più chiaro perché Claude Levi-Strauss, uno che ne capiva, diceva che la città è “la cosa umana per eccellenza”. Ma chissà se includeva anche Napoli in questa definizione.
Ogni tanto scatta una sorta di rifiuto della città. È una tendenza ciclica, che spesso incrocia teorie antiprogressiste o anticapitalistiche. Ma poi la forza seduttiva della metropoli vince sempre. Agli inizi del Novecento, Londra è stata la culla del movimento antiurbano delle Garden Cities, poi in parte attuato nel ’46 da Patrik Abercombre. Tuttavia, è almeno dal 1997 che proprio a Londra è in atto un inarrestabile processo di “densificazione” urbana. Stessa cosa a Copenaghen, dove l’aspirazione a vivere nel verde dei sobborghi resta profondamente radicata tra la gente. Ebbene, anche lì, da anni è in atto un vero e proprio “ritorno al centro”.
Ovunque si costruiscono infrastrutture per assecondare la corsa alla città. E ovunque le città si trasformano, evolvono, vivono la modernizzazione. In tutto il mondo ferve il dibattito sul rapporto tra memoria urbana e innovazione, tra velocità del piano urbanistico e qualità dei processi decisionali. Si discute, e molto, se impegnare nuove aree o “costruire nel costruito”; se prevedere recuperi “storicistici” o ristrutturazioni radicali, e comunque mentre si discute si alzano grattacieli, si costruiscono ponti, si pianificano porti e aree produttive, nuove residenze e strutture per i servizi. A Napoli, invece, ancora si demonizza quello che è stato fatto al tempo di Lauro o immediatamente dopo. Nell’ultimo romanzo di Valeria Parrella, tanto per dire, l’hotel Jolly di via Medina, costruito negli anni Sessanta, è ancora portato ad esempio della “pestilenza della metropoli”.
Londra ha salutato il terzo millennio con il London Eye, lo Shakespeare’s Globe e il Millennium Dome. Parigi non ha esitato a erigere la Pyramide di Ieoh Ming Pei nella corte del Louvre e nel 2008 Sarkozy ha invitato dieci squadre pluridisciplinari di architetti, urbanisti, economisti e sociologi a elaborare progetti per il futuro poi esposti al Palais Tokyo. Berlino ha lasciato libero Norman Foster di poggiare una grande cupola di acciaio e vetro sul rinnovato Parlamento, che è così diventato il simbolo della ritrovata trasparenza della democrazia. E poi Barcellona, Madrid, Valencia, Marsiglia, Atene: tutte, prima della grande crisi attuale, trasformate da ferventi cantieri di lavoro. E l’Italia? Le città italiane, ricorda Gravagnuolo, sono le più lente a cambiare. E tra tutte, la più lenta è Napoli.
Roma ha il museo MAXXI di Zaha Hadid e l’Auditorium di Renzo Piano alle pendici della collina di Villa Gloria. Torino ha utilizzato le risorse dei Winter Olympic Games del 2006 per passare dall’immagine della città-fabbrica a quella di capitale dell’arte e della creatività. Perfino Venezia ha costruito un quarto ponte sul Canal Grande, quello di Santiago Calatrava, mentre Milano, a detta di tutti, è la città che, dal Nuovo centro direzionale della Fiera al nuovo quartiere della Bicocca, più si è trasformata negli ultimi anni.
Resta Napoli. E solo Napoli, giacché la vicina Salerno appare ormai come una rara e felice eccezione. Napoli è la più immobile delle grandi città italiane. Qualche piazza ristrutturata e molte stazioni della metropolitana dell’arte costate l’ira di Dio: alcune non ancora completate dopo dodici anni, più del tempo necessario per costruire il canale di Suez, e altre rimaste addirittura sospese tra la immaginazione progettuale e la realtà fattuale, come la stazione di Anish Kapoor a Monte Sant’Angelo. Ma non a Bagnoli, non a Napoli Est, non nel Centro storico è stato ancora completato un vero, grande progetto strategico. Perchè? Perchè un così colossale ritardo? Si può continuare a sostenere, a distanza ormai di molti anni, che la “colpa” è ancora tutta di Vezio De Lucia, padre del piano regolatore vigente?
Forse è venuto il momento di tornare a parlare di architettura e pianificazione urbanistica a Napoli. Dopo anni di polemiche, romanzi e convegni su Bagnoli, infatti, solo di recente si è ricominciato a dire qualcosa su quell’area. Ma cosa succederà al Centro, a Est e a Nord? A che punto sono le buone intenzioni coltivate per interminabili decenni?
Ho cominciato a fare il giornalista a metà degli anni Settanta. Una delle mie prime inchieste riguardava il Centro Storico. Avevo poco più di venti anni e un già allora brillantissimo Uberto Siola, ora nel team del Forum delle Culture, mi raccontava come si poteva trasformare Piazza Miraglia. Ho molta nostalgia di quei progetti, di quel clima; nessuna di tutto quello che non è successo dopo.
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