Per una nuova politica economica

Pubblichiamo, ad un mese dalla sua scomparsa, l’illuminante saggio di Piero Capone sulla situazione economica italiana, il debito pubblico e le riforme possibili per uscire dalla crisi.
PER UNA NUOVA POLITICA ECONOMICA
di Piero Capone
La progettazione di una nuova politica economica che punti alla crescita qualificata della nostra economia, che abbia come obiettivi, quindi, non soltanto il dato quantitativo dell’espansione della ricchezza nazionale ma anche, e soprattutto, le caratteristiche di una crescita equilibrata, inclusiva ed equa socialmente, è sempre cosa complessa e non facile.
Nel caso italiano tutto ciò si presenta ancor più arduo, a causa dei gravi problemi strutturali che ci trasciniamo da decine di anni e che sono il frutto non solo di un errato modello di sviluppo, ma l’inevitabile conseguenza delle peculiarità del “regime” politico, sociale ed economico italiano (il “caso Italia”, appunto). Se, come fanno molti economisti, si trascende da questo quadro di riferimento, non si potrà che prospettare soluzioni teoricamente ineccepibili, ma assolutamente irrealizzabili nel Belpaese. Riteniamo quindi fondamentale e prioritaria l’analisi strutturale della nostra società politica ed economica, e l’esplicitazione delle cause profonde, spesso nascoste, dei nostri problemi, per poter proporre quelle riforme radicali che sappiano incidere sui nodi e permettere l’adozione di coerenti politiche economiche innovative.
Il percorso qui evidenziato non è molto popolare: perché cercare di chiarire le vere ragioni di molti attuali “nodi”, comporta, inevitabilmente, di non potersela cavare con proposte, forse ragionevoli , ma sempre superficiali e “indolori”; impone proprio il contrario: l’ obbligo di cambiare anche le vecchie gerarchie di valori. Ne è un esempio emblematico quella che può essere definita la madre di tutte le questioni economiche: il Debito Pubblico.
Ai riformatori e ai riformisti risulta chiaro, anche grazie all’essere nell’Unione Europea e nell’Eurozona, che questo è il problema assolutamente prioritario e che la sua soluzione ( ma nel nostro caso si dovrebbe parlare più di avvio della fase per la sua soluzione ) non può che non rappresentare la conditio sine qua non per qualsiasi azione di politica economica propulsiva.
Naturalmente una parte consistente della sinistra antagonista rifiuta ogni considerazione di questo tipo, in quanto per essa il debito pubblico, essendo il frutto di spesa pubblica ( anche se non coperta da entrate ), è comunque sempre qualcosa di positivo.
Al massimo, come hanno fatto alcuni regimi autoritari nel mondo, si potrebbe ricorrere alla “soluzione finale”, cioè di non onorare il debito!
Purtroppo anche tra gli altri non sembra che ci sia una gran voglia di capire – e spiegare ai nostri concittadini – come e perché siamo arrivati a questo punto.
In realtà tutti i nostri nodi strutturali – e in primo luogo il Debito Pubblico –nascono, e si alimentano, dai particolari assetti del nostro sistema politico, economico e sociale, che definirei la nuova fase dello Stato Corporativo.
In effetti questa fase nasce dopo la guerra, in continuazione con l’Italia dei Fasci e delle Corporazioni. Possiamo solo escludere la parentesi Einaudiana e Degasperiana,che, non a caso, promuoverà la ricostruzione del paese e porrà le basi per un nuovo ciclo di sviluppo economico nazionale.
La filosofia sarà quella delineata dal Compromesso Costituente tra i due grandi Partiti di massa (DC e PCI) che avrà il battesimo, e le cui conseguenze le paghiamo ancora, con l’ inclusione del famigerato art.7 nella Costituzione repubblicana.
Quindi il riconoscimento dell’opera dell’Uomo della Provvidenza, in perfetta continuità fascio-comunista.
La grande DC interclassista gestirà magistralmente il nuovo stato corporativo, arricchendolo di soggetti portatori di interessi particolari . Ai meno giovani ricordo il ruolo decisivo svolto, per esempio, dalla Federconsorzi e dalla Coldiretti per dare il controllo dei settori agricoli alla DC , con enormi risorse e milioni di voti. Anche allora dando alle corporazioni delle contropartite onerose per la collettività, basti pensare alle pensioni “senza copertura contributiva” concesse a milioni di coltivatori diretti.
Il sistema si allargherà poi ad altri soggetti: prima i socialisti e poi i comunisti.
Questa è la fase – mutatis mutandis – che viviamo anche ora. Due sono le parole chiave del Nuovo Stato Corporativo: consociazione e concertazione.
E in questa fase ( la terza, dopo la prima fascista e la seconda democristiano-centrista ), il corporativismo catto-comunista-sindacale ( anche però con la partecipazione dei socialisti ) sarà il primo, e unico responsabile dell’esplosione del Debito Pubblico.
Rispetto agli anni del secondo corporativismo, quello attuale è ancor più iniquo e dannoso dati gli enormi poteri, spesso di veto, che vengono concessi ai capi di corporazioni rappresentanti di interessi limitati e circoscritti a piccoli gruppi. Il Sindacato ne è un esempio clamoroso. Paradossalmente le Lobby d’Italia, così magistralmente illustrate dal Prof. Giavazzi, pur poco rappresentative, diventano ora potentissime a causa dell’estrema fragilità delle classi politiche dominanti.Nel campo cruciale del capitalismo finanziario e bancario oggi c’è una vera e propria inversione di ruoli tra potentati economici e politica.Non sono più i tempi in cui era la DC a controllare le banche: ora è l’opposto. Emblematica e spiritosa la risposta di un potentissimo banchiere in merito ad un suo presunto “prodismo”: “non sono io prodiano, casomai è Prodi ad essere Bazoliano”.
In questo quadro risulta un compito improbo definire e far approvare delle linee di politica economica coerenti e di largo respiro. Siamo sempre alla legislazione emergenziale. Sia che si parli di ambiente, di giustizia, di ricerca, oppure di economia. Ad esempio il recente Dpef è stato giustamente definito un “documento di fine legislatura”: senza respiro, senza coraggio, fatto soltanto per garantire un po’ di spartizione di risorse, ovviamente senza copertura. Il tutto reso ancor più difficile dall’intreccio perverso di tutti i nodi strutturali, ognuno dei quali dovrebbe essere affrontato scontrandosi con potenti corporazioni, in gara fra loro, anche in un’improvvida competizione con le stesse forze politiche.
 
Tornando al Debito Pubblico possiamo ben dire che si tratta veramente della madre di tutte le questioni: ci costa tanto ( quasi il 5% del PIL cioè oltre 67 miliardi di euro all’anno ) e ci condiziona pesantemente in tutto.
La vera preoccupazione riguarda non tanto, e non solo, la sua entità enorme ( 1.575 miliardi pari al 106.8% del PIL ) , quanto il suo trend nell’ultimo decennio; e anche la sua ripartizione tra debito centrale e debito degli enti locali. In relazione al PIL (ricordiamo che l’optimum per l’Unione Europea dovrebbe essere Debito/Pil = 60%) nel 1997 avevamo un rapporto del 118.1% con un peso locale del 2.4%. Si è andati migliorando, abbastanza all’inizio, ma poi con una spinta sempre minore fino al 2004 (103.8%); per poi invertire il trend con il peggioramento avuto nel 2005 e 2006 (106.2% e 106.8%).
Il contributo del debito degli enti locali aumenta dal 2.4% del 1997 e 1998, gradualmente ed inesorabilmente in tutti gli anni successivi fino a raggiungere il preoccupante livello del 1996 (7.3%): si passa nel triennio 2003/2006 da 71.4 a 108.2 miliardi di euro con un aumento di ben il 51.5%. Nel 2005 avevamo quasi 3.200 società pubbliche locali su 8.231 enti locali.Dal 2001 al 2006 le imprese che gestiscono servizi locali sotto forma di società di capitali balzano da 405 a 889 ( quasi il 120%)!
E’ evidente che ci sia una grande difficoltà a controllare la spesa (fondamentalmente di tipo corrente, cioè stipendi del pubblico impiego, pensioni e sanità ) non solo a livello centrale ma soprattutto a quello locale. Nello stesso periodo di tempo il Belgio, che aveva storicamente una situazione di gran lunga peggiore della nostra, passa da un rapporto Debito/Pil del 124.8% nel 1997 all’89.1% del 2006. Se invece di essere soffocati dalle spinte corporative avessimo fatto come il Belgio, ora riusciremmo a risparmiare ben 14 miliardi di euro all’anno, che potrebbero finanziare adeguatamente un moderno sistema di ammortizzatori sociali, nonché investimenti forti per l’ education, per le infrastrutture e per il settore cruciale della Ricerca e Sviluppo.Ecco perché la linea del rigore – per esempio destinare l’extragettito a ridurre il debito , e non ad altro – non è soltanto una linea di responsabilità, ma è anche, e soprattutto, una via di crescita economica e di sviluppo sociale equilibrato.
Questo ci richiama ad un altro grande problema, tipico del sistema Italia: la forte, inarrestabile crescita delle spese correntiche passano dal 48.5% a ben il 50.5% del PIL. Infatti – come denunciato anche dalla Corte dei Conti – stante la persistente difficoltà di controllare la spesa corrente per il lievitare senza sosta dei grandi capitoli “a rischio” ( pensioni, pubblico impiego e sanità ) una certa contrazione del deficit strutturale, si è ottenuta attraverso due vie decisamente negative: l’aumento della pressione fiscale dal 40.6% al 42.3%, e l’ulteriore problematica riduzione delle spese in conto capitale ( gli investimenti crollano del 40% rispetto al 2003 ). Un caso esemplare di “spesa corrente facile” è rappresentato della spesa per il pubblico impiego: nel periodo 1999/2006, mentre i lavoratori dei settori privati vedevano decurtato del 3.5% il potere d’acquisto dei propri salari, quelli del settore pubblico registravano incrementi medi del 15.5%. Solo il rinnovo dei contratti 2005/2006 ha comportato un aumento complessivo di quasi il 9% a fronte di un obiettivo programmatico del 4%. Più del doppio!
 
A causa del regime corporativo italiano ( uno dei pochi punti di forza, se non l’unico, dei sindacati è proprio il pubblico impiego ) queste voci di spesa corrente non solo non vengono ridimensionate ma, anzi, continuano la loro inarrestabile ascesa.
Abbiamo quindi di fronte una complessità, tutta italiana, nell’intricato puzzle dei conti pubblici.
Anzitutto v’è l’assoluta esigenza di ridurre la pressione fiscale . Per la sua iniquità (i contribuenti onesti – che pagano per tutti – subiscono una pressione del 50.7% ), perché ci rende meno competitivi, perché frena il ritmo di crescita, perché favorisce la propensione all’evasione e all’elusione. Quindi, inizialmente, meno entrate. A regime sarebbe diverso: soprattutto se si adottasse l’arma letale anti evasione, cioè il contrasto di interessi. Terapia purtroppo non gradita al Prof. Visco che predilige invece l’arma ( spuntata ) della repressione poliziesca. Da un’altra parte, però, a causa del combinato disposto enorme debito e tassi in crescita, si dovrebbe registrare una maggiore onerosità del servizio del debito, quindi maggiori uscite. Ma l’esigenza di sostenere investimenti prioritari nel campo delle infrastrutture ( le cui carenze ci rendono meno competitivi ), dovrebbe comportare maggiori impegni appunto per la spesa in conto capitale. Quindi, di nuovo, maggiori uscite. Ma se il nostro obiettivo fondamentale è quello di ridurre il debito, che fare? Ovviamente dovremo garantire, per molti anni, il raggiungimento del pareggio di bilancio ( a partire dal 2010 e non dopo, come sembra orientarsi il Governo ) e – nel contempo – avere, ogni anno, degli avanzi primari consistenti ( dal 3.30%
al 5% ) atti ad incidere fortemente sullo stock del debito, come fatto, per esempio, dal Belgio.
Purtroppo gli ultimi anni non sono stati confortanti: dopo i modesti incrementi del 2003 e 2004 ( 1.6% e 1.3% ) siamo crollati quasi a zero nel 2005 e 2006 ( 0.4% e 0.2% ). C’è proprio molto da fare!
Ma, visto tutto ciò, l’unica arma a nostra disposizione resta quella dellaforte contrazione ( e riqualificazione ) della spesa corrente.
Il che ci riporta, inevitabilmente, al tema delle pensioni, del pubblico impiego e della sanità. E alla capacità e volontà di contrastare le corporazioni d’Italia e l’estrema sinistra, politico-sindacale.
Curiose le analogie con quanto successo in un contesto lontano e differente: il Brasile. Anche lì, un paese afflitto da un enorme debito ( in quel caso si trattava di debito estero) con un’economia piuttosto stagnante e enormi problemi sociali, il Presidente “operaio” Luiz Ignacio Lula da Silva ha adottato immediatamente una linea di rigore che, attraverso avanzi primari di oltre il 4%, riuscisse ad intaccare duramente il debito, con effetti a catena estremamente positivi. Grande credibilità internazionale, elevazione del rating e abbassamento drastico del “rischio paese”, forte riduzione dei tassi, contrazione consistente delle uscite per il servizio del debito, affidabilità internazionale che comporterà degli afflussi di capitali esteri di grande rilevanza. E questo senza intaccare le linee di politiche sociali che faranno uscire decine di milioni di famiglie dalla povertà. E il rilancio dell’economia. Ebbene anche lì, il Presidente Lula ha dovuto affrontare il tema spinoso della riforma delle pensioni, colpendo i privilegi dei ceti più abbienti del pubblico impiego. Anche lì c’è stata l’elevazione dell’età pensionabile. E anche in Brasile l’estrema sinistra si è opposta duramente accusando l’ex metalmeccanico, leader delle lotte contro il regime militare, ora Presidente, di essere diventato un bieco “neoliberale”. Siamo decisamente in buona compagnia!
Tornando a casa nostra possiamo dire, in conclusione, che l’attuale fase positiva della congiuntura mondiale, grazie anche alla spinta dei paesi emergenti ( in particolare dei cosiddetti BRIC – Brasile, Russia, India, Cina), sembra compensare le incertezze nostrane (fiducia delle imprese ancora molto moderata, anche per il clima psicologico non positivo causato dalla questione fiscale ) e , quindi, potrebbe essere favorevolmente sfruttata per agganciare il nostro sistema economico alla ripresa, peraltro già in atto in Europa da tempo.
La ristrutturazione che ha caratterizzato il periodo di stagnazione sembra dare i suoi frutti: senza lo scudo protezionista e costretti a seguire le leggi dell’eurozona, ci si è organizzati per rinnovarsi e competere.
La “rinascita” del Ministero del Commercio internazionale, sotto la guida di Emma Bonino, in questo particolare frangente può e sta svolgendo un ruolo molto propulsivo per il mondo delle imprese. L’internazionalizzazione diventa così, più che una sfida, una vera e propria grande opportunità per il miglioramento continuo della nostra produttività. Il contesto favorevole dovrebbe ispirare politiche economiche coraggiose, che sappiano incidere finalmente su alcuni grandi nodi strutturali in modo da avviare un circolo virtuoso di risanamento e crescita.
Per tutto quello che abbiamo visto si dovrebbe rilanciare un clima di fiducia attraverso una graduale, ma decisa azione di riduzione della pressione fiscale. Ma le cose sembrano non andare così. Secondo i consuntivi ISTAT la pressione Fiscale ha raggiunto il 40.6% nel 2004 e 2005 per impennarsi al 42.3% nel 2006. Le stime del Tesoro ci forniscono un quadro ancor più allarmante per il futuro: pressione al 42.8% nel 2007 (quindi 0.5% in più sul 2006 ), con delle impercettibili riduzioni nel 2008 e 2009 (rispettivamente -0.2% e -0.1% ). La madre di tutte le liberalizzazioni, cioè la riduzione di questo insostenibile carico fiscale, pur in un quadro difficile dei conti pubblici, potrebbe, e dovrebbe essere possibile. Bisognerebbe solo avere il coraggio politico di ridurre la spesa corrente di un 0.5% – 1% all’anno. Con dei forti avanzi primari – come detto sopra – potremmo avere delle ricadute immediatamente positive sulla riduzione delle uscite per interessi. Dall’altra, con una moderna politica di lotta anti evasione basata sul combinato disposto riduzione del carico fiscale – contrasto di interessi, avremmo degli impatti positivi sul monte delle entrate, sopportate meglio dai contribuenti perché frutto di una più equa ripartizione dei carichi fiscali.
 
Il circolo virtuoso si autoalimenterebbe, liberando risorse crescenti per il welfare e per gli investimenti strategici nella formazione, ricerca, innovazione, infrastrutture.
Una nuova politica economica è necessaria ed è possibile: ha bisogno soltanto di radicalità costante e coraggiosa
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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=4184

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