In corpore vili
Di Luigi Manconi, da “Il Foglio”, 19-07-2011
Sul “Foglio” del 15 luglio Luigi Amicone e Lorenzo Strik Lievers invitano questo quotidiano a condurre – come sa fare magnificamente quando proprio ci tiene – una efficace mobilitazione a favore di una politica di riforma del sistema penitenziario italiano. Una simile iniziativa è drammaticamente urgente e indifferibile e mi auguro che il “Foglio” presti ascolto.
Intanto, va notato come l’azione di Marco Pannella abbia già conseguito qualche risultato. Penso che ciò si debba, in primo luogo, proprio al repertorio d’azione scelto: e, specificatamente, allo sciopero della fame. Questo ha già ottenuto un’ampia risposta all’interno delle carceri. E comprensibilmente: il carcere è forse il luogo dove il corpo assume un senso più potente e ineludibile. Di conseguenza, lo sciopero della fame – la rinuncia a nutrire il proprio organismo – “dà corpo” a una domanda incontenibile di giustizia: e questo, forse più di qualunque altro messaggio, può incontrare la sensibilità della popolazione detenuta.
Il corpo di Pannella che dimagrisce e si disidrata, che si debilita e, allo stesso tempo, diventa cavernoso (non più solo la voce, ma quella sua grande cassa toracica); e, poi, l’illanguidirsi dell’organismo che pure conserva una sua ferrigna secchezza, quell’allungarsi di dita, capelli, ciglia e sopracciglia e quel diventare tutto più aguzzo e, dunque, intrattabile e tuttavia accogliente in quanto inerme e disarmato: ecco, tutto ciò costituisce una realtà tangibile e palpitante, che il detenuto e il suo corpo ristretto conoscono bene. Pannella, e quanti intraprendono lo sciopero della fame, dicono: mettiamo in gioco ciò che abbiamo. E, per molti, ciò che abbiamo è l’unica cosa che abbiamo: la nuda vita e l’organismo fisico che la custodisce.
E’ il messaggio più intellegibile e ragionevole per chi si trovi prigioniero. L’ironia dei satolli e dei soddisfatti, dei ben nati e dei ben pasciuti sui cappuccini di Pannella e sulla sua “dieta intermittente”, mai la potreste udire all’interno di una cella. Lì sanno bene cosa voglia dire disporre solo ed esclusivamente del proprio corpo (e altrettanto ritiene Pannella “dopo sessant’anni di non-democrazia”). Sino a qualche anno fa, infatti, la principale forma di comunicazione in carcere era quella espressa nell’atto del “tagliarsi”: ferirsi su tutto il corpo, cucirsi le labbra e i genitali, ingoiare oggetti. Il corpo come solo mezzo di comunicazione, carta su cui scrivere (ferite e tatuaggi), strumento per lanciare messaggi. Il proprio sangue come inchiostro di un linguaggio irreparabilmente cruento.
Lo sciopero della fame in carcere ha comportato spesso la morte (e non solo per Bobby Sands): per questo il corpo smagrito e quel torace cavo di Pannella pesano tanto nella sensibilità dei detenuti italiani. E` la stessa ragione per cui pesano così poco nella percezione del ceto politico italiano. (Penso che vi sia un sottilissimo filo che accomuna i corpi ristretti dei detenuti ai corpi prigionieri del coma e dello stato vegetativo. Ma nessuno sembra volerlo cogliere, a parte Alessandro Bergonzoni).
CondividiFonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=4009
- Login to post comments