Contabilizzate il patrimonio immobiliare pubblico
Già nel 1896, Antonio Labriola scriveva infatti che, con l’evoluzione storica, lo Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione bellica”. Si trattava dell’eredità dello Stato patrimoniale, di quelli che già per A. Smith erano i beni di sua proprietà per il sostentamento del principe, oltre che per gli spostamenti delle truppe.
Oggi questo demanio è sterminato: strade e autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni storici e artistici, coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali degli enti locali, miniere, cave e, per accessione, rete elettrica e cavi telefonici (almeno potenzialmente), armamenti, strade ferrate, l’etere, che viene dato in concessione alle emittenti televisivive per scarso corrispettivo, così come le coste vengono “privatizzate” con concessioni per pochi denari.
Eppure tutti dicono che lo Stato è “povero”, che ha un immane deficit di bilancio, una voragine di debiti, che non ha di che spendere: eppure stranamente quando la politica vuole lo fa.
Questi beni incarnano il potere sovrano, sono gli strumenti della supremazia, quelli che fanno di uno Stato uno Stato: però lo Stato sarebbe anche “povero”. Come ciò sia possibile merita una spiegazione, perché avrà anche una spiegazione il fatto che lo Stato rivendica il monopolio monetario, ma anche un’imposizione fiscale elevatissima, pur senza averne bisogno, alla quale corrispondono servizi a volte modesti, a volte faraonici.
Vige in proposito una prassi, che se vi fosse consapevolezza verrebbe ridotta a “trucchetto contabile”: il valore di quei cespiti non è iscritto nel bilancio dello Stato! Lo Stato è ricchissimo e non lo sa, o finge di non saperlo e non vuole che si sappia. Si comporta come un miliardario che possiede otto ville, il quale vantasse la propria povertà, perché delle ville vedesse solo i… costi di manutenzione.
L’art. 2424 c.c.impone che i cespiti immobiliari siano iscritti in bilancio all’attivo, ma lo Stato non applica a sè il codice civile, è il “diritto reale” attraverso il quale istituzionalmente si pratica lo ius abutendi, e quindi non iscrive quei beni, perchè non li tratta da ricchezze quali sono, ma da oneri, da un lato, e da immateriale scettro mistico, dall’altro. Ma la tendenza evolutiva dell’ordinamento giuridico va nel senso di applicare anche allo Stato i principi civilistici, sicchè quei pretesti non convincono più.
In base a quale ordine di idee razionale una società privata iscrive in bilancio il valore di un terreno, e quel valore dovrebbe volatilizzarsi, una volta che il terreno fosse espropriato da una pubblica amministrazione? Il valore d’estimo resta evidentemente lo stesso, e va ad arricchire la comunità e i suoi servizi, salvo episodi di malgoverno o malcostume.
Se tutti i beni suddetti fossero iscritti a valore di mercato nel bilancio dello Stato, questo andrebbe immediatamente all’attivo, e cesserebbe la litania della “voragine dei conti pubblici”, che giustificherebbe l’alta tassazione, oltre al chiacchiericcio televisivo. Portando il bilancio all’attivo, quei valori diverrebbero innanzitutto provvista monetaria (vale più il contenuto del caveau di una qualunque banca centrale, o quello del Louvre? I monumenti di Roma o le riserve della Banca d’Italia? Del resto, nemmeno le corpose riserve auree vengono iscritte in bilancio, dato che viene attribuito loro solo un valore “psicologico” a sostegno del prestigio della sovranità statale) virtuale-materiale, ed è da questo attivo che si potrebbero attingere tutte le risorse pubbliche per un nutrita rendita di esistenza per tutti, pro quota, facendo sharing della sovranità che, in base al nostro art. 1 Cost., appartiene al popolo tutto, e quindi a ciascuno isolatamente considerato, in base ai principi dell’individualismo metodologico.
La sovranità statuale sarebbe oggetto di una devolution a favore del singolo cittadino, attraverso una sovranity sharing, resa oggi impossibile dalla lettura collettivistica dell’art. 1, che rischia di non attribuire alla norma significato alcuno, se non retorico.
A questo punto si delinea un bivio tra due scenari: uno statalista, l’altro libertario. Se da un lato valorizzare le ricchezze pubbliche può far pensare a uno Stato-monstrum, dall’altro, il valore della rendita di esistenza sarebbe talmente elevato che lo Stato cadrebbe da sé, dato che ognuno non avrebbe bisogno che di agenzie di intermediazione monetario e lo Stato non avrebbe più nulla da fare.
Saremmo di fronte a una contraddizione dialettica tra l’esercizio di un potere, distribuire denaro, e il carattere “suicida” di tale esercizio, che consentirebbe a ognuno di ignorare lo Stato per tutti gli altri servizi che lo Stato pretendesse di fornire a cittadini resi ricchissimi e ampiamente autosufficienti. Il tutto, si badi, senza necessità di marxianamente nazionalizzare alcun bene, dato che quei beni sono già dello Stato, anche se dissimulati.
Lo Stato verrebbe ridotto a un documento, il suo bilancio, che sarebbe un simulacro, un semplice rendiconto dell’avvenuto trasferimento di valore, e quindi di potere, alla società.
In conclusione, al di là della propaganda istituzionale e dei mass-media, che occultano la palese verità, risponde ai fatti che lo Stato è sempre ricchissimo: persino la critica anarco-capitalista è sul punto inadeguata, almeno quando si ferma alla convinzione che lo Stato non disporrebbe di risorse proprie, ma vivrebbe solo di quelle sottratte ai cittadini. Vero è invece che lo Stato dispone di risorse “demaniali” immense, e la cosa non è formalmente evidenziata solo perchè il suo bilancio è grossolanamente truccato: basti confrontare i disposti dell’art. 2424 c.c., sul bilancio delle s.p.a., con la patetica realtà del bilancio dello Stato, che non solo non indica gli immobili del demanio, ma nemmeno i poteri, ai sensi dei nn. 4 e 5 dell’art. 2424, cit.
E’ vero che anche in tal caso qualcuno potrebbe affermare che quei beni son comunque sottratti alla società, perchè se non fossero demaniali sarebbero “privati”, o meglio comuni. Ma sta di fatto che qui è inutile fare appello a un’ipotetica situazione incontaminata: la realtà è quindi che quei beni “sono” attualmente dello Stato e degli altri enti territoriali, anche se la formula politica richiede di farli fruttare il meno possibile (si pensi all’apparato militare in tempo di pace, e non valga come auspicio del contrario), per evidenziarne l’essenza di strumento di supporto del mito sovrano, e occultarne la natura finanziaria –se non nel limite in cui la sovranità consente di batter moneta, sicché quei beni fungono da provvista intangibile e invisibile di quelle che solo dei polemisti impreparati possono considerare una fiat money- e le potenzialità commerciali.
Pagare per andare in spiaggia è come pagare per vedere le gambe della moglie: si paga per usufruire di beni demaniali, quando dovremmo essere noi a essere pagati, trattandosi di beni ellitticamente nostri, o almeno a trarne comunque il frutto.
Si pone quindi il problema, mai affrontato a fondo dal movimento anarchico, dell’ipotesi limite del governo dello Stato da parte libertaria per la transizione nella direzione appunto coerentemente anarchica, il che offrirebbe oggi il vantaggio di non comportare acquisizione alla mano pubblica di ulteriori dotazioni economiche e di beni, ma semmai solo l’emersione dei beni di già detenuti dalla mano pubblica, al fine di evidenziarne l’appartenenza comune alla popolazione; sicchè lo “statalista” nell’accezione spregiativa, non è il libertario che si impegna per la trasparenza delle ricchezze condivise e celate, ma il falso liberista, che, da posizioni di potere usurpato, si camuffa –a parte l’ipotesi della buona fede e della cocciutaggine- da antistatalista per proseguire tale attività di occultamento, per timore di mostrare la reale forza dello Stato e per insistere con la perdente strategia di assegnare risorse pubbliche virtuali ai soli privilegiati con le c.d. “privatizzazioni” di rapina (ultimo caso, quello dell’acqua).
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